sabato 31 marzo 2012

Segnalazione volumi = La Monica

MARIOLINA LA MONICA : "Il figlio dell'Aquila".- Zefiro editore, Bagheria --
Sembra che non vi sia molta differenza tra l'albatro che, forse durante la sua traversata verso le Indie, Baudelaire vide trascinarsi sulla tolta, deriso dalla ciurma e questo discendente d’aquila di Mariolina la Monica, parimenti per lei, come per il poeta maledetto, "principe delle nubi, che frequenta le tempeste e si ride dell'arciere.”
Sono, a ben considerare, due modi diversi di correlarsi ad uno stesso e in un “suggestu consistere” anelito di grandezza dello spirito, dantesco sguardo dal cielo verso "l'aiuola che ci fa tanto feroci", sublime ideale foscoliano della musa.
Compito precipuo del poeta è quello di ridare all'uomo, mortificato dalla opaca quotidianità, il kantiano "cielo stellato":
"qualcuno un giorno ci rubò la Via Lattea / portò lontano dalla terra ogni piccola stella /e rinchiuse mille ali nel petto di ognuno" (Il figlio dell'aquila, 1)
Mariolina La Monica sembra aver avuto questa decisiva folgorazione e cioè che, per la vera poesia, sia necessario guardare il mondo proprio "in suggestu", come accadde al più romantico tra i poeti, Goethe, quando in quel lontano novembre del 1786, dall'alto del Palatino, dando uno sguardo sulle vestigia millenarie di Roma, comprese il senso della grandezza e dell'eternità dell'anima: "in verità, lassù non si sa cosa sia la piccolezza".
Spazio e tempo, pace e guerra, vita e morte sono sotto gli occhi del poeta ed egli scende, come alata testa d'angelo, per strappare qua e là il penoso velo di Maja:
"Sbatacchiando al vento sino in fondo / picchia da dentro l'illimitato amore / quell'infinito /che egli non trova qui / che non si trova" (ibidem, 3).
Un percorso poematico che si svolge capovolgendo i dati del teorema: non noi nell'universo, ma l'universo dentro di noi:
"Vai corrente di cielo / veloce dai fiato alle mie ali / trascina il petto / inoltra il mio becco nel vento / illumina il mio occhio./ Luce / voglio luce sull’ombra........ da oggi espandersi ed abbracciare il mondo" (ibidem, 10)
Attraverso questo suggestivo surrealismo di tipo aragoniano, il canto diviene volo, scavo, lotta, follia e saggezza di vivere, universale mistero e contemplazione di esso.
Consustanziale, in itinere, lo stile ricco di sapidi sememi, risonanze e consonanze melodiche, scelte di congrue aggettivazioni e validi paradigmi verbali.
La varietà dei richiami alle forme e ai metodi classici viene sapientemente commista ad una più moderna diversificazione, senza che vi sia alcun senso di disarmonia.
Riecheggiano, così, nello stesso topo, versi che si sembrano rifarsi alle Carducciane odi barbare: "Ma sul monte il figlio dell'aquila come sempre rapisce", ed insieme "Ora zingaro ha il petto/e l'alito sospeso gli ristagna" che certo riecheggiano più recenti avanguardie.
Per mezzo di questa sapienza compositiva, che è anche una valorizzazione del nostro irrinunciabile patrimonio letterario, lo stile di Mariolina la Monica si muove autonomamente tra inventiva e metafora, ricercatezza di forma ed immediatezza di espressione; servendosi del verso come ora dialogo e ora come discorso diretto, e come tale ricco di risorse, mutamenti umorali, spaziature e metriche svariate, con interrogativi, esclamativi, virgolettati, maiuscolati, cesure e spazi, quasi ad assumere una stesura di spartito musicale.
Ed, in itinere, aumenta anche la nostra comprensione del suo fine ultimo, del suo rivolgersi a noi con la certezza che il suo sentire, nella universale tensione che ci accomuna, sia anche il nostro di lettori, testimoni e fruitori del suo contemporaneo:
".. lascia che io allarghi l'occhio a ogni momento / è la finestra da cui intenso mi può inondar l'immenso / è la finestra squartata del mio cielo" (ibidem 16)
Così la musa sa penetrare il suo cuore di donna, come per Saffo, far echeggiare una sublime invocazione lenitiva:
"Palpita notte / fatti grande / lascia che le stelle siano occhi stesi lì, ad estendermi il cuore" (ibidem 24) ed il suo interrogativo dilaga per tutti noi e ci restituisce l'universo di cui siamo tutti creature: "Così riposerò / come la brina, il vento?" (ibidem,26).
Ed il suo volo, il suo canto che cerca "in interiore" e mai si esaurisce, approda ad una folgorante invocazione finale, di sapore foscoliana, ma giocata in chiave psicologica attuale:
"Se fosse dato a tutti poggiare le ceste vuote al sole / se crescessimo al sole / se nutrissimo il sole!" (Ibidem 28)
Lirica intensa, grande umanità, commozione e convincimento profondo, quali possono approdare ad una bella opera di poesia, come questo "Figlio dell'Aquila", al quale auguriamo auge e consensi nel mondo della letteratura e della critica.
ALFIO INSERRA

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