venerdì 15 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIUSEPPE GALLO

Giuseppe Gallo, Arringheide, Ed.Città del Sole, Reggio C., 2018,pp.608, 20 - Euro Prefazione di Brigida Gullo

Per un accostamento consapevole alle similitudini omeriche delle quali è ricco questo poema di Giuseppe Gallo [un esempio struggente:«Cuomu li passarieddhi, la matina,../ accussì, vannu allu Hfjume…»], almeno sul piano tematico di questo libro, titolato Arringheide, assai utile sarebbe percorrere, anche per semplice lettura o rilettura d’uno stralcio, quella che è stata indicata come «La lunga marcia degli scrittori calabresi» a partire da Vincenzo Padula, per toccare o ritoccare almeno l’atmosfera di un Alvaro, di un Seminara, di un Perri, di un La Cava, di uno Strati, di un Répaci, di un Asprea, anche se, benché quasi semisconosciute, più che arricchente sarebbe ritornare alle scritture possenti, per alcuni critici le più possenti che siano state scritte, di Saverio Montalto e di Virginia Tursi, senza volere trascurare la esperienza narrativa di un Roaul Maria De Angelis, da Terranova da Sibari, al quale non perdonarono lo spostamento del baricentro letterario-narrativo della Calabria da Reggio Calabria all’Alto Jonio Cosentino, né quelle contemporanee ad elevato valore tematico-stilistico di Gioacchino Criaco e di Mimmo Gangemi. Ma una grande familiarità, di atmosfera e di tessuto poetico, il poema epico di Giuseppe Gallo l’ha stabilita con Duonnu Pantu di Aprigliano se non altro per due motivi non trascurabili ai fini della economia estetica generale delle loro rispettive opere: il dialetto, come lingua madre e lingua delle madri; il tempo, ricondotto alla gloria e al trionfo del tempo pre-moderno, il tempo scandito dal ritmo delle stagioni e ancora legato strettamente allo spazio, con la conseguente adozione dei «luoghi» da contrapporre ai «non-luoghi» di Marc Augé, con l’uomo che i due poeti Duonnu Pantu e Giuseppe Gallo riportano al centro del legame spazio-tempo. I 32 Canti del poema sono peraltro ben sostenuti dal saggio introduttivo di Brigida Gullo cui non sfuggono i valori antropologici della esperienza poetica di Giuseppe Gallo, poeta ben sorretto sia da una seria e colta sensibilità linguistica, sia da una nitida educazione coloristica. Ne consegue che il poeta parte non di rado dalle immagini per giungere alla parola di poesia, in una struttura linguistica nella quale Giuseppe Gallo è in grado di fare coincidere in ogni strofa, in ogni verso, il suo “sole” con il “sole” del lettore, anche perché l’Autore, forte della lectio magistralis degli adamisti dell’acmeismo russo, Osip Mandel’stam su tutti, nomina le ‘cose’( persone, animali, alberi, luoghi, fiori, piante, terre, contrade, fiumi) in modo che alla parola corrispondano le ‘cose’ stesse, senza raggiri né trucchi retorici da usare come toppe o come cortine fumogene, e,con Walt Whitman, Peppino Gallo ci ricorda che il poeta, come Adamo, è sempre all’alba del mondo. Tornando a volo rapido d’uccello sull’opera poetica di Giuseppe Gallo, il cui respiro ampio e avvolgente trova buona parte delle sue affinità elettive sul piano linguistico in Salvatore Scervini e ne la Divina Commedia tradotta in dialetto calabrese, in particolare U ‘Nfiernu, credo che giovi ricordare che la Calabria mostra una scarsa unità sul piano dialettologico, tant’è che gli studi più rigorosi ne individuano almeno 6 aree principali: 1- Calabria Meridionale; 2- Calabria Centrale; 3 – Calabria Settentrionale; 4- Calabria Greco-ellenofona; 5- Calabria Albanese; 6-Calabria Provenzale. Al di là di queste precisazioni dialettologico-linguistiche, ciò che mi piace davvero segnalare è che anche nel caso di Giuseppe Gallo si parli di ‘poesia in dialetto’ e non più con disprezzo di ‘poesia dialettale’. Ogni grande opera di poesia come questa Arringheide ha degli antefatti, taciuti o dichiarati, non di rado espressi in forma di dichiarazione di poetica o di intenzioni d’arte: (“Vorisse pe’ mmu tiegnu nu panaru/ cupu e cchjù fuondu de na menzalora/ ed intra mu vi jiettu ogni palora/chi cca sucai de quandu m’addhattaru), versi che in italiano così suonano:(“Vorrei possedere un paniere/ cavo e più profondo di mezzo tomolo/ed entro buttarvi tutte le parole/ che qui ho succhiato da quando mi hanno allattato”). Non è difficile riconoscere in tutto questo poema epico, Arringheide, la trasfigurazione di fatti storicamente accertati nel simbolo stesso della coscienza umana, sul sentiero di Francesca Serio (la madre del sindacalista siciliano ucciso sulle terre delle lotte contadine) che mai smise di piangere il figlio e che fece dire a Carlo Levi:«…per questa donna le lacrime non sono più lacrime, ma parole. E le parole sono pietre».
*
Gino Rago

0 Commenti:

Posta un commento

Iscriviti a Commenti sul post [Atom]

<< Home page