giovedì 27 aprile 2023

SAGGIO = EDOARDO SANGUINETI


** Edoardo Sanguineti : Il Poeta , l’Intellettuale, l’Artista di Giovanni Cardone**
In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Edoardo Sanguineti apro il mio saggio dicendo: Scrittore e critico, nasce Genova e diviene Professore universitario nel 1970, ha insegnato prima a Salerno, e ora a Genova. Collaboratore di Paese sera, eletto deputato al Parlamento (1979) nella lista ligure del Partito comunista. L'opera di S. nasce e si svolge sotto il segno della neoavanguardia alle vicende della quale partecipa dalla collaborazione al Verri fino al Gruppo 63. La tecnica combinatoria di oggetti-segni ingranditi, dilatati, esemplata su procedimenti musicali, da Schönberg a Berio, caratterizza Laborintus (1956), monologante resoconto di una discesa agl'inferi che rappresenta al tempo stesso un superamento di Jung attraverso Freud. L'ossessione filologica, il poliglottismo, il plurilinguismo in funzione ironica, grottesca, secondo lo schema di un erotismo trattato in chiave onirica e visionaria, dà vita a Erotopaegnia 1961, pubblicato insieme con Laborintus sotto il titolo di Opus metricum. In Purgatorio de l'Inferno 1964; insieme con Laborintus ed Erotopaegnia sotto il titolo di Triperuno emerge, dopo l'immersione nel formalismo e nell'irrazionalismo compiuta con l'Opus metricum, la nuova figurazione la realtà storica, la funzione ideologica del linguaggio. Si prolunga nella prosa narrativa con Capriccio italiano (1963) la storia di quell'itinerario dalla morte alla vita tracciato in Triperuno, modulata però questa volta su un linguaggio basso, povero, degradato, condizionato da una forma di percezione onirica; come onirico è lo spazio in cui vengono collocati i geroglifici grotteschi di Il Giuoco dell'oca (1967), staccati da contesti culturali eterogenei a mimare il caos della realtà. A una complessa operazione di riscrittura in chiave di provocazione carnevalesca passa successivamente Sanguineti con Il Giuoco del Satyricon (1970). Importante anche nella sua opera la produzione di testi per il teatro, a partire da quella sorta d'iterativa seduta psicanalitica rappresentata in K nel 1962, da Traumdeutung e Protocolli ambedue in Teatro, 1969, insieme con K e Passaggio in cui si realizza una totale desemantizzazione della parola trattata in maniera esclusivamente strumentale sul modello di una partitura, alla riduzione teatrale dell'Orlando Furioso del 1970 smembrato in caselle chiuse e indipendenti offerte simultaneamente al pubblico sullo stesso spazio scenico secondo un giuoco della simultaneità indipendente che torna anche in Storie naturali del 1971. Non c’è ovviamente bisogno, in questo consesso, di giustificare la rilevanza di un approccio visivo all’opera di Sanguineti; e, di conseguenza, il valore strategico del passaggio (ove poi, come vedremo, di passaggio in effetti si possa parlare) delle sue predilezioni artistiche tra l’una e l’altra delle poetiche citate nel sottotitolo di questo mio intervento: Informale e Nuova Figurazione. Abbiamo del resto appena ascoltato l’acutezza dell’indagine di Niva Lorenzini – una vera e propria quête riguardo alle «serie» Dürer e Mantegna di Varie ed eventuali e va sottolineato come in generale le ekphrasis esplicite, nell’opera poetica di Sanguineti, siano progressivamente cresciute d’importanza ed estensione, con continuità, di raccolta in raccolta . Ancora più marcato l’aspetto visivo il che è assai significativo, considerando quanto sto cercando di mostrare è poi nell’opera narrativa: nel Giuoco dell’oca e, come abbiamo sentito nel fine intervento di Epifanio Ajello, nel (forse) terzo romanzo L’orologio astronomico. Non è un caso che, fra gli interpreti più acuti di Laborintus, diversi abbiano proposto riferimenti artistici: assai precoce per esempio da parte di Niva Lorenzini il cenno alla «lezione di Pollock», in nome dell’analoga «tempesta materica» e della comune matrice junghiana; il coevo sodalizio coi pittori «nucleari» in effetti decisivi, come vedremo, ma soprattutto per gli sviluppi successivi della poesia di Sanguineti è stato poi attentamente vagliato da Elisabetta Baccarani penso poi, ancor più di recente, al richiamo di Erminio Risso alle «plastiche di Burri» per le figurazioni selenografiche sempre del poema d’esordio . Lo stesso corso «neofigurativo» poi opportunamente circoscritto, nell’insieme dell’opus, da Antonio Pietropaoli fu tale definito per primo, a proposito di Purgatorio de l’Inferno, da uno dei primi capitoli della lunga fedeltà di Fausto Curi (apparso sul «verri», nel ’64), proprio a partire dal nesso con la poetica della «nuova figurazione» di Enrico Baj (e dal testo che Sanguineti l’anno precedente, come vedremo fra poco nel dettaglio, appunto alla Nuova figurazione aveva dedicato) . Ma soprattutto non è un caso che facesse per tempo riferimento a una poetica delle arti visive sia pure con un punto interrogativo dall’evidente valore di caveat, e ribadendo nella stessa sede come più pertinenti fossero comunque da considerarsi i riferimenti musicali – il testo di poetica che, per datazione e sede di pubblicazione, si può considerare il più strategico, ancorché ambiguo (o proprio perché ambiguo, piuttosto), fra quelli di Sanguineti. Figura infatti, Poesia informale?, come “allegato” agli specimina poetici antologizzati da Alfredo Giuliani in quello che resta l’atto editoriale più importante del nostro secondo Novecento – l’antologia pubblicata nel 1961 col titolo I Novissimi. Poesie per gli anni Sessanta. Non so quanto sia stato notato come datazione e successione di questi testi disegnino un preciso arco autocanonizzante e autostoricizzante: dal più antico, La sintassi e i generi di Pagliarani che figura datato 1959 ma il cui nucleo risale in realtà al ’57 , passando per quelli di Porta e Balestrini (corrispondenti alle rispettive risposte a un questionario della «Fiera letteraria» del 1960), ai più recenti di Sanguineti e Giuliani che sono del ’61 e, si può dunque supporre, già consapevolmente stesi in previsione del loro utilizzo nella strategica sede dell’antologia. Ipotizzando che l’ultima sede attribuita alla Forma del verso di Giuliani sia dovuta, se non a bon ton, alla natura “tecnica” e in qualche modo ancillare di questo suo testo essenzialmente di metrica, ha un senso preciso mostrare di prendere le mosse dal più “antico” del gruppo, Pagliarani (il primo dei cinque ad avere esordito, nel ’54) , e di concludere il percorso col più “nuovo” e, insomma, il Novissimo al quale oltretutto, come pure è noto, si deve il titolo del libro appunto Sanguineti. Inoltre, dei suoi due saggi due, a differenza degli altri: come a controbilanciare la predominanza di Giuliani curatore dell’antologia ed estensore della sua introduzione, s’inverte la posizione rispetto all’ordine cronologico: come a sancire uno status più “avanzato” del secondo, Poesia e mitologia, uscito in realtà prima di quello che nei Novissimi gli viene preposto: appunto Poesia informale? Questo testo appariva per la prima volta, infatti, a ridosso della pubblicazione dell’antologia, nel giugno del ’61 sul terzo numero di quell’annata cruciale del «verri». Il numero in questione era per intero dedicato appunto a L’Informale e, diversamente dalla consuetudine, non recava all’inizio l’editoriale del fondatore e direttore Luciano Anceschi. A quattro saggi organici, a firma di Giulio Carlo Argan, Renato Barilli, Enrico Crispolti e Umberto Eco, faceva séguito per le cure di Crispolti una silloge di scritti dei principali artisti e dei loro più immediati sodali (da Pollock a Dubuffet, da Fontana a De Kooning; il primo è un testo di Ponge su Fautrier, l’ultimo uno di Sweeney su Burri) e, nell’ultima parte, una serie di interventi brevi di critici più “esterni” rispetto alla rivista (da Arcangeli a Calvesi) o meno connotati come critici d’arte. Poesia informale? di Sanguineti, ultimo della serie, era l’unico di uno scrittore che riflettesse sulla propria esperienza altri, da Cesare Vivaldi a niente meno che Samuel Beckett, che scrive di Bram Van Velde, sono presenti come più o meno occasionali critici d’arte. Un intervento, questo di Sanguineti, per molti versi anomalo e non allineato, siglato com’è dal punto interrogativo che manterrà sin nei Novissimi. E in effetti, se si confronta questo testo con quelli dei critici organici della nascente neoavanguardia, Umberto Eco e Renato Barilli (pagine destinate a figurare nelle raccolte saggistiche dei due, rispettivamente Opera aperta e Informale oggetto comportamento), entusiasticamente vòlti ad annettere le allora trionfanti esperienze artistiche appunto dell’Informel ai rispettivi progetti estetici l’“apertura” appunto, nel senso della teoria dell’informazione, da un lato; la fenomenologica “intenzionalità” nei confronti del mondo, dall’altro , non si possono non notare riserve e distinguo di non lieve portata. Anzitutto Sanguineti si risolve a discorrere di un possibile riferimento all’Informale, per la propria poesia, solo perché in tal senso provocato da altri (Cesare Vivaldi e Francesco Leonetti, nella fattispecie); poi, dopo la petizione di principio della non sovrapponibilità di nozioni come informale, pittura d’azione ed espressionismo astratto, è soprattutto quest’ultima che discute; e, comunque, esclusivamente rispetto a Laborintus. Se di «poesia autre» si può insomma parlare così impiegando un ennesimo quasi-sinonimo, quello imposto sul mercato dell’arte da Michel Tapié , è solo per evidenziare che con Laborintus ci si distanziava dalla tradizione data, si configurava «un diverso dalla poesia assolutamente intesa». E quasi si scusava, il Sanguineti di Poesia informale?, per i «riferimenti intenzionali a talune situazioni tecnico espressive di altre arti», necessitati dall’insufficienza degli «esemplari poetici contemporanei, in quegli anni 1951-1954». Aveva insomma valore strumentale, secondo il diretto interessato, la fase “informale” di Sanguineti: «si trattava per me di superare il formalismo e l’irrazionalismo dell’avanguardia (e infine la stessa avanguardia, nelle sue implicazioni ideologiche), non per mezzo di una rimozione, ma a partire dal formalismo e dall’irrazionalismo stesso, esasperandone le contraddizioni sino a un limite praticamente insuperabile, rovesciandone il senso, agendo sopra gli stessi postulati di tipo anarchico, ma portandoli a un grado di storica coscienza eversiva» (è appena il caso di segnalare come questa dicotomia, fra rivolta anarchica e storica coscienza rivoluzionaria, resterà un chiodo fisso della successiva riflessione di Sanguineti in sede strettamente politica. Tanto è vero che glossando per l’occasione una delle proprie formule più note, peraltro a sua volta ricavata dall’ideario delle arti visive, cioè da Cézanne chiarisce Sanguineti che, nell’Enfer dell’Informale, ha passato in effetti una sola Saison: Fare dell’avanguardia un’arte da museo significava gettare se stessi, subito, e a testa prima, nel labirinto del formalismo e dell’irrazionalismo, nella Palus Putredinis, precisamente, dell’anarchismo e dell’alienazione, con la speranza, che mi ostino a non ritenere illusoria, di uscirne poi veramente, attraversato il tutto, con le mani sporche, ma con il fango, anche, lasciato davvero alle spalle. Quella del fango che ci sta alle spalle il fango alludendo naturalmente a quello della Palus, appunto è un caso curioso di, diciamo, autocitazione prolettica: se è vero che proviene dall’explicit della diciassettesima e ultima sezione di Purgatorio de l’Inferno, raccolta a quell’altezza ancora lontana dall’essere pubblicata (lo sarà solo nel ’64, nella prima “raccolta di raccolte”, Triperuno, come ad appunto chiudere il ciclo di Laborintus ed Erotopaegnia): «[…] ma vedi il fango che ci sta alle spalle, / e il sole in mezzo agli alberi, e i bambini che dormono: i bambini che sognano (che parlano, sognando); (ma i bambini , li vedi, così inquieti); / (dormendo, i bambini); (sognando, adesso):» Ma soprattutto l’immagine serve a dichiarare infine che, al netto delle cautele dialettiche, dall’Informale si era ormai usciti una volta per tutte: «Per questo la poetica stretta dell’informale era naturalmente destinata ad essere tradita, al di là del Laborintus, ma sulle mani sporche permangono, e certo permarranno, le buone macchie di melma» . E, in senso lato, questo salvifico stigma d’impurità resterà a marchiare le successive scelte artistiche di Sanguineti. Se in generale e da un punto di vista strettamente linguistico, s’è detto, i riferimenti più stringenti sono alla coeva scena musicale, non si può in alcun modo sottacere l’importanza avuta, sin dalle origini della sua traiettoria, dal mondo dell’arte: prima di tutto inteso come concreta frequentazione di ambienti e persone. È circostanza nota ma non mi pare ancora studiata, per esempio, quella per cui il primissimo esordio poetico di Sanguineti si consumi non su una sede letteraria bensì su «Numero», rivista d’arte «non figurativa» aperta nel 1949 a Firenze da Fiamma Vigo sulla quale uscirono nel ’52, appunto, le prime lasse di Laborintus ambiente, questo fiorentino, che ebbe pure in sorte di patrocinare la presto abortita attività pittorica di una coetanea di Sanguineti che, come poetessa, si affermerà molto dopo di lui: Amelia Rosselli . La circostanza è stata ampiamente ricordata, da Sanguineti, nell’ampia e preziosa intervista che su questi temi ha concesso nel 2004 a Tommaso Lisa. Il primo contatto fu con l’artista Gianni Bertini che gli venne presentato da Albino Galvano, artista scrittore e traduttore di Artaud che com’è noto sul giovanissimo Sanguineti, suo allievo al Liceo di Torino, ebbe fondamentale influenza: Allora in redazione c’era un responsabile della parte letteraria, ma chi decideva, alla fine, era Fiamma Vigo. Ci fu una curiosa storia, non lieta nel senso che incontrai a Firenze questo responsabile letterario, il quale disse che queste cose, ossia alcuni dei primi testi di Laborintus, così d’avanguardia, non lo interessavano, benché la rivista fosse molto “aperta”, e a quei tempi una rivista “aperta” voleva dire in Italia, e a Firenze massimamente, essere “non figurativa”. Era infatti il momento dello scontro fra “arte astratta” e “arte figurativa”. Finito il colloquio, disse che se Fiamma voleva pubblicare i miei testi, lui si sarebbe dimesso. Questo accadeva nel 1951; io consegno quelle poesie che poi vengono pubblicate ugualmente, da Fiamma Vigo, nel 1952. A dispetto di questo primo passo «non figurativo», le frequentazioni artistiche di Sanguineti a Torino Carol Rama, a Milano i “nucleari” con in testa Enrico Baj, appunto a Firenze Antonio Bueno, a Napoli Mario Persico e il “Gruppo 58”; proprio Baj e Persico resteranno i suoi sodali più fedeli sono sin dall’inizio contrassegnate da una distanza notevole, rispetto alle premesse dell’Informale. Parla in tal senso chiaro la firma da lui apposta in calce al Manifesto di Napoli del gennaio ’59, che Baj avrà modo di definire un’«aperta dichiarazione di guerra all’astrattismo» . Tale impressione trova ora piena conferma dalla ricca, ancorché non esaustiva, sezione sulle «Arti» nella recente edizione semi-postuma dei saggi di Cultura e realtà, con scrupolo messa assieme da Erminio Risso, che finalmente ci rende in grado di leggere in modo organico i – non molti, sempre occasionali, ma in questa fase non meno che strategici – scritti dedicati all’arte da Sanguineti . Già nella breve nota su Fautrier all’Apollinaire, uscita sul «verri» nel ’59, a proposito di uno degli artisti-simbolo appunto dell’Informel allora in mostra a Milano sul quale di lì a poco il vecchio Ungaretti farà la sua ultima scommessa a tema artistico , Sanguineti riporta in forma velata dalla cifra del cognome «le parole acerbe, impietose» dell’amico pittore «B.» (Bueno? Baj?) contro la «scaltra cucina artistica» di Fautrier; per parte sua rincarando la dose col parlare di «una bellezza crudele e senza energia», di «una disposizione umana, virtuosamente indifferente e viziosamente intelligente, che si consuma senza riscatto e senza speranza», e insomma condannando l’artista francese a sia pur splendido stendardo di quella che è ormai da considerarsi una retroguardia: «È un’intera stagione della storia francese, insomma, quella di cui Fautrier celebra, con così discreta eleganza, gli affascinanti funerali» . E si può ben aggiungere considerando il valore di riconoscimento che la stagione dell’esistenzialismo aveva indicato proprio nell’artista degli Otages – che quella «stagione» non era solo da intendersi entro la «storia francese»: bensì nella storia dello stesso Sanguineti . Nel medesimo ’59 ancora sul «verri» – intervenendo sulla mostra Arte Nuova curata al Circolo degli Artisti di Torino proprio dall’apostolo dell’Informel, Michel Tapié – Sanguineti condanna risolutamente, nella «tebaide» della recente arte «non-figurativa», «il consumarsi della libertà artistica in libertà calligrafica» seppur facendo ampia parentesi dei «padri solenni» Pollock e Wols, e salvando altresì – fra «i soli artisti autentici» ivi incontrati De Kooning e, si noti unico italiano, Alberto Burri. Passano quattro anni e la “svolta” artistica di Sanguineti se poi davvero di svolta è dato parlare – è ormai conclamata. Di nuovo è «il verri» la sede strategica: nel cruciale 1963 esce un nuovo numero monografico dedicato all’arte, il 12, che sin dal titolo complessivo – Dopo l’Informale – si presenta come prosecuzione, ma anche parziale sconfessione, della pressoché unanime euforia di due anni prima. Anche qui tre saggi organici, a firma di Enrico Crispolti, Filiberto Menna e Renato Barilli, tratteggiano le principali poetiche prese in esame; mentre testi più brevi li precedono una sorta di “editoriale allargato” di Gillo Dorfles, e poi Calvesi e Tadini e li seguono; fra questi l’intervento di Sanguineti, intitolato Per una nuova figurazione, è ora tutt’altro che isolato o emarginato al suo seguono quelli di Cesare Vivaldi, Alberto Boatto, Marisa Volpi e un intervento del gruppo “Arte e Libertà”. Il piglio è ora tutt’altro che esitante, e il titolo non certo interrogativo; soprattutto l’estensore non sottace più il riferimento ai “Nucleari” e a Baj, come aveva fatto invece nel testo di due anni prima. Il suo tono è ora assertivo e (a partire da quel per esordiale) “manifestante”: nel sancire superata la deformazione espressionistica nonché la matrice primitivista e infantilista. L’occasione è data dalla mostra intitolata appunto Nuova Figurazione, tenutasi a Firenze nell’estate di quel ’63 e ispirata a una omonima tenutasi a Parigi due anni prima. Nel suo catalogo, Sanguineti si sofferma sull’opera di due artisti torinesi, Piero Ruggeri e Sergio Saroni; nel commentarla poi sulla rivista di Anceschi, Sanguineti dà per assodato il «superamento dell’informale» e ne ricorda i prodromi nella mostra milanese, di dieci anni precedente, organizzata dai Nucleari (Baj, Dangelo, Colombo e Mariani) allo studio B, col quanto mai eloquente titolo Prefigurazione; e poi appunto nella «protesta figurativa ormai matura e ferma», che poteva permettersi «il lusso di un completo distacco ironico e divertito» , del Manifeste de Naples del gennaio 1959 (con Baj che si unisce ai Biasi, Di Bello, Del Pezzo, Pergola, Persico: insieme alle significative firme di Balestrini e, come già ricordato, dello stesso Sanguineti) «non si tratta, insomma, di deformare il veduto nel senso dell’incontaminato, ma di informare di significati l’abbecedario ottico delle cose che si offrono, degli oggetti del vissuto» . La contrapposizione con l’età d’oro dell’Informel non potrebbe essere più evidente ancorché mantenuta, qui, implicita. Veniva dichiarata a piene lettere, invece, all’esordio di un poco vulgato testo uscito all’inizio del ’62, ma in realtà scritto da Sanguineti due anni prima ancor prima dunque, stando almeno alla datazione d’autore, di Poesia informale?, dedicato all’antico maestro Albino Galvano. In esso si dà per assunta, con polemica assai esposta, la possibilità che «una pittura densa di valori illustrativi, o addirittura letterari, ci appaia assai più radicalmente autre, dico in assoluto, che quella che oggi si etichetta con tale nome» . Sicché non dovrebbe far specie come invece, confesso, non manca di farmi l’apertamente programmatico explicit di un altro poco noto testo del ’63, compreso nell’antologia da Sanguineti curata assieme a Luigi Carluccio ed Ezio Gribaudo, Disegni e parole: «per i poeti più nuovi, per i novissimi appunto, il discorso muta già di accento e di prospettiva, credibilmente . E mentre ormai si scatena la querelle della nuova figurazione, presso le tavole dipinte, ecco che ci è possibile suggerire a chi legge una questione di simmetria espressiva ancora tutta inedita. E siamo al ragionamento, appena iniziato in qualche testo, di un aperto neocontenutismo» . Con l’esplicita menzione dei Novissimi e del loro appena iniziato ma, sin d’ora, quanto mai trasgressivo aperto neo-contenutismo, la simmetria espressiva della neoavanguardia letteraria con la nuova figurazione, indirizzo in quegli anni ormai rampante, pare giunta a un punto di non ritorno. E se le immediate vicende poetiche di quella metà anni Sessanta possono invece dar l’impressione di un po’ inerzialmente proseguire l’impulso in certa misura definibile (con tanto di punto interrogativo, magari) “informale”, che come s’è visto aveva caratterizzato i tardi Cinquanta e l’inizio del decennio seguente, pare proprio di poter antivedere invece, in queste righe sorprendenti, l’indirizzo sempre più apertamente “figurativo” degli anni Settanta e seguenti: non solo del Sanguineti di Reisebilder e Postkarten ma anche del Porta “allocutivo” e corporeo dell’ultima parte di Quanto ho da dirvi e di Passi passaggi, per non parlare del Balestrini didascalico, epico e allegorico delle Ballate distese e delle altre avventure della Signorina Richmond. Tenendo a mente questo successivo decorso della vicenda, varrà allora la pena di tornare sullo scritto del ’61 dal quale si sono prese le mosse: quel laconico e, come s’è scoperto, abbastanza reticente Poesia informale? che concludeva su una cadenza d’inganno, per così dire, il numero del «verri» sull’Informale; per poi entrare nei Novissimi a seminare un dubbio sottile – ma, come s’è visto, destinato presto a ingigantirsi – sui destini “visivi” dell’avanguardia letteraria italiana. Come spesso nei testi di poetica sanguinetiani, vi si possono rintracciare più o meno cifrate pointes polemiche. L’unica esplicita, e infatti citatissima, è quella nei confronti di Andrea Zanzotto: alla cui battuta, riportata da terzi, su Laborintus come «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso» Sanguineti replicava trattarsi semmai di un «oggettivo “esaurimento storico”» . Ce n’è però una di portata ben più sostanziale forse, che, senza nominarli, fustiga due opposte (ma in qualche modo solidali) classi di contendenti: e lo fa proprio in relazione alla vexata quæstio dell’«informale, dell’action-poetry (o dell’espressionismo astratto)». Da un lato dunque coloro che, volontaristicamente negando tale “crisi”, si trovavano a «scavalcare à rebours il terreno “franco” dell’avanguardia europea» e, «rifuggendo più addietro», così «riurtavano comunque nell’inevitabile scoglio dell’irrazionalismo». Dall’altro, e in qualche modo appunto simmetricamente, coloro che nella Palus, nella “condizione informale” per così dire, persistevano senza mostrarsi in grado di compiere quell’attraversamento critico-dialettico, col «fango lasciato davvero alle spalle» , che Sanguineti annuncia invece d’aver completato. Se i primi avversari, tacciati d’irrazionalismo regressivo, sono identificabili nei neosperimentali officineschi in quel Leonetti, dunque, in abbrivo evocato dubbioso quanto al carico «informale», appunto, di Laborintus; era stato del resto proprio Leonetti, in una spigolatura apparsa in forma anonima appunto su «Officina», a riportare il giudizio zanzottiano sull’opera prima di Sanguineti , è a Zanzotto e a (quelli che Sanguineti poteva allora considerare) dintorni che mi pare rivolto, proprio, il secondo strale sanguinetiano. Non è un caso che, nella replica da Zanzotto affidata l’anno seguente alle colonne di «Comunità», nel punto in cui risponde alla battuta di Sanguineti a lui rivolta, faccia curiosamente capolino un termine che ormai è per noi un tormentone ma che davvero, in un contesto simile, non manca di sorprendere. Zanzotto rimprovera al contendente «una mancanza di rispetto non tanto da guariti ed esorcizzati ancora irreale, ma da non pienamente contagiati». Per aggiungere poco oltre: strano in Sanguineti il persistere della riverenza per l’arcistoria stessa proprio nel momento in cui appare sempre più netta la “storia informale”, quando cioè la vecchia storia (con tutte le sue provvidenze e dialettiche) quasi si dissolve nella propria infinita e velenosa coda, e perciò tende a configurarsi addirittura come storielle, nugae, mito di aree depresse. E ciò sia detto senza togliere alla storia quel che è della storia. Il tema della Storia ridotta alle proporzioni minimali della storiella (o, come arriverà a dire nella Beltà, della «microstoria») è di lunga durata, nella riflessione di Zanzotto qui più interessa, però, la connotazione quasi “tecnica” della storia informale: che non potrebbe intendersi fuori dal contesto artistico, appunto. In quel fango – la Palus della condizione informale, appunto si vedeva invece pienamente sprofondato, a quell’altezza, proprio Zanzotto. La volontaristica pretesa di uscirne, nella Beltà com’è noto, verrà da lui amaramente irrisa con l’apologo del Barone di Münchhausen che dal fango, per l’appunto, crede di potersi tirare fuori per i capelli. E nello stesso ’62, nelle IX Ecloghe dopo lunga elaborazione pubblicate, non mancano riferimenti a «l’informe mondo, l’informale sete nel quale il soggetto deversa il proprio ormai inarrestabile «esaurimento». Si potrà altresì notare come, per quest’aspetto, il rapporto fra i due acerrimi rivali si configuri come un chiasmo. Se Zanzotto come finemente ha mostrato Gian-Maria Annovi usa una stilizzazione informale in funzione sfigurante, sino a tendere alla cancellazione di ogni referenzialità oggettuale, di contro Sanguineti, partendo da una registrazione del magma necessariamente operata valendosi dei paraphernalia dell’informale, negli stessi anni recupera con sempre maggiore decisione una sia pur stravolta figuratività umana. Non è un caso che nel “manifesto” del ’63, Per una nuova figurazione, Sanguineti ricordasse la «presentazione-manifesto» di Enrico Brenna alla già ricordata mostra dei pittori “nucleari” dieci anni prima intitolata Prefigurazione: «la loro materia tende a prendere una forma che, se non è ancora definita, lo è in divenire». Per concludere il percorso, all’altezza del ’59, col Manifeste de Naples: quando, «si capisce, si trattava ormai, non di prefigurazioni, ma di nuove figurazioni, precisamente» . Volendo insomma sintetizzare al massimo: se per Zanzotto la figurazione umana sprofonda nell’informe, per Sanguineti ne emerge. Così infatti suonava, già nel ’61, la cadenza finale di Poesia informale?: «la forma non si pone, in nessun caso, che a partire, per noi, dall’informe, e in questo informe orizzonte che, ci piaccia o non ci piaccia, è il nostro» . Rispetto a queste posizioni, parallele ma anche speculari (a chiasmo, s’è detto), chi si trova decisamente fuori asse, fuori luogo, è Emilio Villa. Lui sì, decisamente, Autre. Non è ipotesi peregrina che la pointe sanguinetiana, contro chi indulgesse a permanere nel fango informale senza industriarsi al suo dialettico e materialistico attraversamento, fosse rivolta soprattutto a lui, per quanto innominato (secondo la strategia del silenzio che Sanguineti ha sempre adottato, del resto, nei suoi confronti). E in effetti – come ho provato a mostrare in altra occasione nessuno più di Villa aveva i numeri per rappresentare, nello stesso torno di anni o di mesi, il più genuino informel poetico: perché era proprio lui – al di là della tendenza artistica così battezzata, a suo stesso parere ormai esauritasi in una precoce museificazione – l’unico scrittore risoluto ad accedere alla dimensione che, sulle orme di Bataille, Yve-Alain Bois ha definito dell’informe. L’accezione nella quale comunemente viene intesa la categoria di informale è per Bois, infatti, «proiettiva»: nell’informe cercando cioè, più o meno consapevolmente e più o meno intenzionalmente, nient’altro che la forma, appunto . Così, proprio, era per Sanguineti: per il quale come abbiamo visto la forma si pone a partire dall’informe. Ed è a partire dall’informe cioè recando sempre lo stigma delle buone macchie di melma sulle mani sporche di chi s’è lasciato il fango alle spalle che Sanguineti legge appunto i suoi artisti davvero prediletti. Quelli sui quali non a caso nel canone di Cultura e realtà (fissato, come testimonia Risso, dall’autore) sono accolti più interventi in successione. Si tratta di Carol Rama, Antonio Bueno ed Enrico Baj. La cifra comune a questi tre esemplari è più o meno agli antipodi dall’Informale, e si può riassumere semmai come aveva del resto già fatto il primo e pionieristico contributo che su questi temi si deve ad Angelo Trimarco una elementarizzazione della figura di gusto primitivista, più vicina a matrici surrealiste che espressioniste. Sintomatico il testo del ’64, su Carol Rama, nel quale Sanguineti delinea un decorso che ci appare a questo punto pensando oltretutto a quanto aveva contato, l’artista, nella sua primissima formazione modellato sul trasparente del suo personale: un «ritorno all’“oggetto”, nella sua nuda empiricità immediata, che è la dominante suprema delle più vive esperienze dell’arte attuale», ma che trova la propria matrice nella macchia. La storia di Carol Rama si lascia così riassumere nel passaggio da una dimensione astratta e tachiste, dall’«antico pathos espressionistico» e dall’«impeto psicologico», insomma da una «proiezione sentimentale» (tutti residui di un «test informe, o informale»), «tutte cose bruciate in una tessitura squisita e definitiva, che non ammette etimologie di ordine patetico». E spende, Sanguineti a proposito di Carol Rama, una categoria ingombrante e per lui problematica: quella di classicità. Seppur «così disforme dai canoni» . Una classicità fondata su quella che, citando l’opera allora recente di LéviStrauss sul Pensiero selvaggio, Sanguineti definisce «poesia del bricolage»: quella che «“parla” non soltanto con le cose, ma anche mediante le cose», così rappresentando «il carattere e la vita del suo autore» . Per questa via, nell’ampio scritto su Antonio Bueno del ’74, Sanguineti giungerà all’elogio non solo dei «contenuti», ma addirittura di quella che definisce una «pictura humana» e persino – seppur con buona dose d’ironia sovrapponendo l’accezione psicanalitica, di ovvia matrice junghiana, alla più vieta formula romantico-idealista – della «storia di un’“anima”» . E così sarà, per Baj in un testo del ’67, parlando di un «pittore di “personaggi”» e, aggiunge Sanguineti quasi stupito di se stesso, «se non addirittura “psicologico”, nel suo psicologismo grottesco e derisorio» . Se a proposito di Baj Sanguineti un po’ celiando parla di «neoclassicismo da bomba A» è sulla solo in apparenza paradossale e comunque per noi ovviamente problematica notazione di classicità attribuita a Carol Rama (in una dialettica di «esodo e riconciliazione» che in uno scritto del 1985, significativamente intitolato L’esilio e il ritorno, viene estesa a «immagine di destino che è genericamente umana, e che concerne tutti») che occorre a questo punto tornare – muovendo alle conclusioni. C’è una formula che ricorre in due punti strategici, di questo repertorio, che parodia e capovolge la definizione aristotelica di metafora, questo è quello. Nel già citato scritto su Bueno del ’74, Sanguineti ha buon gioco, commentando l’ossessione dell’artista sodale per l’oggetto-pipa, a confrontarlo con la celebre pipa surrealista di René Magritte e in specie al titolo Ceci n’est pas une pipe (a proposito del quale con una certa sufficienza Sanguineti commenta «da cui Foucault ha ricavato tutto quello che c’è da ricavare, penso») . Al contrario di Magritte, sostiene Sanguineti, Bueno avrebbe potuto scrivere su un cartiglio «Questa è una pipa»: «il piacere dell’osservatore ritrova la sua etimologia, quando nasce dalla constatazione che “questo è quello” – anzi, al limite, che “questo è questo”» . Proprio Questo è questo è il titolo dell’intervento di Sanguineti su Bueno. Ma è una formula che viene da lontano: da un raro intervento pubblicato esattamente dieci anni prima sul numero 6-7 di «Marcatrè» ma scritto già nel ’62 per presentare, insieme a Giulio Carlo Argan alla libreria Einaudi di Roma, la monografia dedicata ad Alberto Burri da Cesare Brandi . E si noterà anzitutto come sia questo, a parte la precoce stroncatura di Fautrier, l’unico scritto da Sanguineti espressamente dedicato a un artista dell’Informale. E quale artista! In ambiente italiano almeno altrettanto simbolico e feticistico di quanto Fautrier potesse essere considerato per quello europeo. Si ricorderà, intanto, come proprio Burri fosse stato l’unico italiano “salvato”, da Sanguineti, all’interno dell’Arte Nuova presentata da Tapié nel ’59. Quel che conta in Burri, e che secondo Sanguineti lo distanzia dal paradossale (ma, come s’è visto, non così tanto) calligrafismo del «registro astratto-informale» (la libertà calligrafica a suo tempo imputata a Fautrier), è la «violenza immediata dell’opera» che – come sottolineato dallo stesso Brandi – non viene mai cancellata dalla sua «sublimazione estetica». La “resa” di Brandi di fronte all’«evidenza materiale» del valore di Burri del quale non è possibile alcuna lettura in chiave di “risarcimento” e appunto “sublimazione” dovrebbe conseguentemente, secondo Sanguineti, mettere in crisi l’«idealismo» del suo “sistema” nonché, più in generale, «ogni lettura idealistico-romantico-borghese della grande pittura dei maestri del XX secolo». Il gusto, l’educazione di Brandi recalcitrano di fronte alla «cattiveria», alla «scoperta malignità» di materiali che, «come quei sacchi, quei ferri, quelle plastiche, rifiutino, vogliano bene rifiutare, ogni innocenza»: «le sue pagine più belle, Brandi le detta precisamente quando ci fa sentire il suo ribrezzo, la sua ripugnanza di fronte alle materie che Burri esibisce» . Ma quello che davvero soggioga Brandi, in Burri, è appunto ciò che il medesimo Sanguineti di lì a poco si troverà a riconoscere in Carol Rama: «la sicurezza formale di Burri, e chiamiamola pure la sua classicità». Una classicità altrettanto paradossale e «disforme dai canoni» di quella di Rama: se è vero che «verte sopra l’ambivalenza fondamentale tra squisitezza e ripugnanza, tra elementi eleganti e sanguinosi, e insomma» questa la formula memorabile con la quale Sanguineti definisce la gloria dell’artista – su «quel tipo di perfezione ferita e dolorosa che è proprio della pittura di Burri» . Al contrario dell’«abolizione del tempo e della storia» postulata da Brandi, la strada indicata da Burri è quella del «ritrovamento di una più profonda ed autentica storicità» . Dove si manifesta dunque, nei termini neo-contenutisti del Sanguineti di questi anni, «precisamente l’essenza della dialettica dell’arte attuale: il carattere irredimibile dei contenuti». Altro che «innocenza formale», allora! Non può certo spacciarsene detentrice quella cosa di cui quasi mai fa il nome Sanguineti, nei suoi scritti sull’arte, ma che qui individua invece senza esitazioni: «L’avanguardia storica aveva il miraggio dell’innocenza. L’avanguardia della seconda metà del nostro secolo, come nel caso di Burri, verifica l’impossibilità di questo miraggio, verifica la caduta di ogni illusione di innocenza». Perché è venuta meno di schianto l’«arte catartico-aristotelica della nostra più ferma tradizione neutralizzata» (quella che si continua a praticare nei «termini più schiettamente reazionari della concezione estetica romantico borghese»), ma anche quell’indirizzo di «forme aperte» che secondo Sanguineti (senz’altro alludendo a Opera aperta di Eco allora fresco di stampa, e precisamente al modo in cui quel saggio, come s’è visto, si annetteva anche la tradizione dell’informel) altro non è che un «modo meramente rinfrescato, oggi storicamente fruibile» , di quella stessa catarsi. Non si dà nessuna catarsi, dunque: e infatti chiamato in causa da Sanguineti, stavolta, è direttamente l’iniziatore teorico di tale tradizione: È nella poetica di Aristotele, precisamente, che si legge, a proposito della redenzione operata dalla mimesi, con un cadavere, un insetto ripugnante, piacciono se dipinti, e piacciono nella misura in cui riescono riconoscibili intellettualmente: nella misura in cui concedono di dire: «che questo è quello» (oti outos ekeinos) . Ma dal momento che «la pittura di Burri è chiaramente antimimetica», in essa siamo chiamati a riconoscere perpetuamente, rifiutando quella metafora che è naturalmente, in un orizzonte aristotelico, l’essenza della poesia, siamo chiamati a riconoscere «che questo è questo»: che il sacco è sacco, che il ferro è ferro, che la plastica è plastica . Tutto questo, però, a proposito appunto di Burri. Il quale a differenza di Rama, Bueno e Baj se nulla concede alla mimesi neppure può essere ascritto alla nuova figurazione. Proprio nel mostrare a giorno, e ostendere anzi, le ferite e appunto le macchie, le buone macchie di melma dei suoi contenuti irredimibili. Si dovrà allora concludere che quanto davvero contasse in arte per Sanguineti al netto delle diverse scelte di contenuto è proprio la sicurezza formale, e chiamiamola pure la classicità: di artisti così in apparenza distanti come Carol Rama e, appunto, Burri. Non pretendo certo di trasporre questa categoria, sic et simpliciter, dal Sanguineti lettore d’arte al Sanguineti artista. Ma se oggi legittimamente lo consideriamo un classico contemporaneo credo sia proprio in virtù di questo salutare paradosso: che l’unica classicità degna di un tempo come il nostro è quella appunto che non nasconda sulle proprie mani sporche, onestamente sporche le macchie di melma: le buone macchie di melma. Infine Edoardo Sanguineti disse: Insieme, io e Baj, abbamo fatto molte varie altre cose, essendo entrambi anche membri del Collegio di Patafisica. Jarry era un idolo di Baj, che a me non dispiaceva affatto, e lui era il direttore del Collegio Patafisico di Milano, ma “direttore” è detto male, perché non è il gergo patafisico, era piuttosto l’Imperatore Analogico. Io fui nominato dapprima Faraone Poetante, a Milano. Poi però ci fu, dietro pressione di Baj, un’infornata parigina di patafisici, un paio d’anni fa, in occasione della quale ci fu la mia nomina a Satrapo, che è la massima carica (anche se poi c’è anche una specie di Supersatrapo Universale, cosmico, patafisico, che sta sopra a tutti). E così a Parigi, in quell’occasione, si fece un’infornata di tre Satrapi - Umberto Eco, Dario Fo e io - una sera, in casa di Arrabal; e Arrabal stava su una specie di macchina della tortura, su cui sedeva solennemente, proclamando i Satrapi, o meglio, Satrapi Trascendentali dell’Ordine della Grande Ghiduglia, che è quel segno spiraliforme, guiduille in francese, che deriva da Jarry e ritorna in certe opere di Baj. La mia appartenenza all’OPLEPO (OPificio di LEtteratura POtenziale) è piuttosto un “effetto” che una “causa” della mia ricerca intraverbale, dei miei testi acrostici. Cioè, benché io poi ne sia anche Presidente, però, non è che né l’OULIPO originario francese, né l’OPLEPO, che in qualche modo è la sua continuità in qualche modo italiana, mi abbiano influenzato particolarmente. Originariamente io non avevo stretti rapporti con la letteratura potenziale. Ma poi, siccome io scrivevo questi testi, di gioco e di manipolazione dei materiali verbali in senso virtual-sperimentale, mi assegnano un premio, durante uno dei convegni a Capri, un anno che il tema era “Il Labirinto”, e in seguito mi nominarono addirittura Presidente (secondo le regole, chi ottiene questi premi favorisce poi la nomina di altri - è stato il caso di abj e Berio, tra i diversi cooptati - ogni anno ci sono due artisti che vengono premiati, di cui uno di norma è uno scrittore che è interessato a giochi linguistici o di letteratura potenziale). La “ricerca intraverbale”, di cui parlava Barilli, ecco, emerge evidente, per me, nella maggior parte dei casi in cui il testo è scritto per una occasione determinata, in stretta connessione con una circostanza precisa. L’idea prima che ha motivato il gioco formale è di rendere evidente la connessione tra “testo” e “opera”, e credo che la prima poesia da me così costruita fosse per Mario Persico. È un testo à contrainte e s’intitola Ballata delle controverità, e nacque per un catalogo d’esposizione, nel 1961. Questa Ballata delle controverità, finisce con una strofa che forma, in acrostico, il suo cognome, Persico, e iniziava «Piccolo Bosch...». Mario Persico è il pittore napoletano col quale ho collaborato maggiormente, del quale sono diventato amico negli anni Cinquanta, assieme con altri pittori napoletani. Con Persico continuo a lavorare ancora, per degli «omaggi», l’anno scorso a Goethe, e quest’anno in occasione della mia traduzione di nove sonetti di Shakespeare. A Napoli, quando ho conosciuto Persico, si era creato questo gruppo, diciamo di “nucleari napoletani”, ammiratori di Baj, al quale si scoprirono vicini nella loro ricerca. Ci fu insomma una grossa intesa tra il nuclearismo milanese e i pittori napoletani. Il gruppo nuclearista napoletano faceva inoltre a quel tempo una rivista, il “Gruppo 58”, che usciva a Napoli, molto bella. Uno di questi pittori, al quale pure ero molto legato, era Guido Biasi, che andò a Parigi e poi morì precocemente; un altro pittore del gruppo è Lucio Del Pezzo, che è vissuto a Parigi e ora risiede a Milano, col quale anche ho lavorato molto. Ma quello con cui ho lavorato più costantemente è stato appunto Persico, anche se poi ci sono stati altri pittori per me importanti, specie della generazione più giovane, come Antonio Fomez, o Geppino Cilento. Cilento lo conobbi negli anni di Salerno, quando eravamo tutti e due molto legati al Partito Comunista; ci siamo incontrati credo per un’occasione politica, perché abbiamo fatto insieme dei manifesti, come quello per la Federbraccianti e quello per il Primo Maggio. Tra me e Cilento si è trattato di una conoscienza “politica”, che poi divenne amicizia, ma quello che ci avvicinò fu questo, una serie di occasioni “impegnate”. Fomez l’ho conoscito anche lui negli anni salernitani, ma credo che l’amicizia sia cominciata successivamente, in quanto lui è più giovane di Persico e di Biasi; lo conobbi, credo, a Salerno, dopo il ’68. E Salvatore Paladino; ma Paladino lo conobbi poi indipendentemente, forse anche lui quando ero a Salerno, comunque in un periodo posteriore. La mia prima poesia per Lucio Del Pezzo risale al 1963, e si intitola Tavola ricordo. Nel 1984 Del Pezzo fece una serie di cose che si ispiravano all’Hypnerotomachia, e mi chiese se volevo scrivere qualcosa a riguardo. Io allora il testo lo scrissi, e lo lessi per la prima volta a Milano, ma quel testo è una cosa di infernale difficoltà, costruito tutto su parole e modi e locuzioni del Polifilo, e ha continuato a variare questi temi polifileschi anche in quadri recenti, riprendendo le figure allegoriche della piramide, dell’elefante, della sfera, emblemi tratti dalle straordinarie illustrazioni del libro, che è facile dire se è più interessante per le incisioni o per il testo. L’idea di partire dal Polifilo era sua; mi chiese solo di scrivere qualcosa, e io accettai, e lo feci prendendo materiali verbali del Polifilo e rimontandoli, con il titolo di Erothypnomachia. Il Polifilo era comunque già entrato nella mia “poetica”, era un testo che amavo molto già da tempo. Mi ricordo che la prima volta nella mia vita che ne ho visto un esemplare originale ero a Parma, ero un ragazzino. È stato un incontro indimenticabile per me.
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GIOVANNI CARDONE

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