sabato 18 febbraio 2012

Segnalazione volumi - Saveriano

Armando Saveriano: Versoñador. Scenari della mente, Edizioni Laceno/Mephite, Atripalda, Avellino 2010, pp. 126, € 8,00-
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< La “poesia mariuola” di Armando Saveriano > -
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   Armando Saveriano continua la pratica ormai inattuale – ma per questo più importante – di una poesia ad alto tasso di sperimentazione, refrattario com’è, lui,  a ogni rappel a l’ordre. Certo, il sud è la patria di molti autori irregolari, e Napoli e la Campania, fino al cosiddetto gruppo ’93, hanno dato i natali a una serie di poeti ancora ostinatamente legati al lavoro sulla scrittura, da voltare e rivoltare come un guanto. Per il gruppo ’93 Romano Luperini disse che esso, più o meno (vado a memoria), pur recuperando il lavoro sul linguaggio del gruppo ’63, non ne condivideva lo spirito di assoluta corrosione e di dissoluzione totale, riprendendo invece l’impegno civile di “Officina”. Ecco, ancora adesso, la poesia di Saveriano sembra porsi nella tensione fra questi due ‘sperimentalismi’. Così, nei suoi testi il confronto con il mondo nel quale viviamo è fortemente presente. Ecco allora il G8 di Genova, insieme ai nomi di autori politici che più politici non si può, il tutto in una poesia sulfurea, à la Saveriano: “Nessuna meraviglia ipocrita / se la città soffrigge piazze sopra teglia di psicosi, / se esplode il rock ansiogeno, / se i tamburini battono quindici lingue di protesta, / se sottobraccio Majakovskji, Scotellaro e Pasolini / rammemorano fastidi, sgocciolano d’imbarazzi incandescenti, / fiottano il cammino oltre le blindate vergogne delle zone rosse / […] / Qualcuno vorrà pure schiacciarla e spremerla , quell’ingiuriata poesia, / per farne un virus contro i sintomi della disumana malattia…” (pp. 11-12). Il verso lungo, onnifago, si distende sulla pagina a ritmo incalzante, disponibile però altrove a frangersi e a disporsi come opera grafica, memore della poesia visiva che fu. Cfr. Threnos (p. 55):

lampi di coltello               19
su/giù                                la lama
dentro/fuori                      la lama
guizzo:squarcio:strappo:schiuma
spillato gorgoglia copioso
              imbratta
vino per se stesso stupefatto
il SANGUE: per terra adesso
              o v u n q u e

che si scioglie poi in un dialogo (però concitato). Se questa poesia riguarda l’eccidio satanico della suora di Chiavenna perpetrato da due ragazzine, un altro dei testi più duri (quello immediatamente successivo) riguarda un kamikaze palestinese che si fa esplodere: per di più, a renderlo ancora più scomodo, riproducendo il punto di vista del ‘terrorista’ che riconduce la sua di azione a Sabra e Chatila, dove furono i palestinesi a essere massacrati. Il fatto che si parli di una tragedia non frena il gioco verbale, e in Threnos si ha anche il coraggio della rima sconveniente: “Sì: suora Mainetti, da noi non te l’aspetti” (p. 60): ma non è in fondo la sconvenienza della realtà a venire come stenografata sulla pagina?
   È il meccanismo (e lo spirito: forma e materia) di questa “poesia mariuola” che gareggia con il barocco della realtà (Gadda) che ha bisogno, per non essere mistificata, del respirare di quella voce: “Strofe e sonetti converte in cicale / dalle elitre elettriche che graffiano la pagina / in un blues dove la marea s’appoggia / e planano la gioia e la malinconia / per banchetti insonni in tutte le stagioni aspre o rubiconde” (p.113). Gioia e malinconìa: così, il senso di costruzione a tavolino che questa poesia potrebbe anche dare va a bagno nel calderone delle emozioni: e allora, se pure vogliamo ancora tenere in piedi una qualche linea di raccordo con il gruppo ’93, più che la voce di Lello Voce, la scrittura di Saveriano, per questa tonalità emotiva, può ricordare quella che fu di Biagio Cepollaro. Anche se le torsioni linguistiche, fino alla costruzione di un qualche nuovo idioletto, erano pur maggiori in quelle esperienze di fine anni Ottanta-inizio Novanta (vado sempre a memoria).
   Se l’indignatio che muove la poesia civile è forte, d’altro canto s’aprono pure scenari di sconcertante e irredimibile nichilismo, appena mitigato da un anelito che pure portiamo in noi, che pure ci conduce con sé: “Quel che di eterno è in noi / modula il respiro della terra, / improbo tuttavia lo sforzo / di preservare un fiore di ciglio / mentre muoviamo i passi / radente l’orlo della vita / inzavorrati di passioni ambigue, di trame nefaste / di egoità nelle ortiche dei sensi” (p. 31). E il poeta se ne va tra acrobazie della coscienza e “mediterranei tormenti” di un sud che torna prepotente, pur in una poesia e in una formazione culturale a tutto tondo dell’irpino Saveriano. Allora, fa capolino un Ispirator Vesevo ( pp. 29-30) e il vernacolo di ‘Na malatia che s’impasticcia con un italiano pure colto e pieno di neologismi (vedi il corpo “denervato”), come di neologismi si cosparge il tessuto di un dialetto, di una lingua napoletana tesa e dura, che è meno di Salvatore Di Giacomo quanto più di un Raffaele Viviani: “dint’ ‘o core prosciugata ogni esuberanza / pe’ chistu munno taccariato / ra’ ’e curtielle r’ ‘a camorra e d’ ’e tasse e  ‘nu guverno ‘nfame / ‘na malatìa nel lazzariarmi omocontuso m’iscoria” (p. 35), un misto dialetto-italiano che in una febbre plurilguistica scivola poi anche al francese.
   Una poesia questa che non può ovviamente non essere anche gioco meta-letterario, in una favella che la fa da nocchiero e trasporta il poeta che si lascia portare di buon grado, in un verso che è sogno, in un sogno che si fa verso, laddove non si spezzi del tutto (forse sbagliavo attenuando la radicalità di tale scrittura rispetto ad altri precedenti sperimentalismi, se qui in azione c’è addirittura uno “sfracellatore di sillabe e di senso”?, cfr. p. 121). Un gioco meta-letterario nel quale il poeta versipelle chiama continuamente a convegno i Grandi (s’affollano in queste pagine nomi su nomi di scrittori) e Dio stesso col quale avviene un qualche gioco d’irritata identificazione: “Giace con me l’oblio e il Dio che ero” (p. 120). Che un po’ ci ricorda il Nietzsche che affermava che, se fosse esistito Dio, non avrebbe tollerato di non esserlo lui. Se non proprio Dio, il poeta è forse almeno, nel gioco dell’ebbrezza creativa, un dio, quel Dioniso al quale sempre Nietzsche faceva tornare tutto come colui che nel vortice del divenire impedisce il quieto ristare delle cose. Se per il filosofo tedesco l’ordine è solo stile imposto al caos, Saveriano così conclude la poesia Dioniso e il poeta, e insieme il suo libro: “Non perdonerebbe l’ebbro Disordine / nel sogno del poeta / un giorno calmo  e regolato”.
Enzo  Rega -

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