domenica 25 marzo 2012

Segnalazione volumi = Di Giovanni

SALVATORE DI MARCO : “ALESSIO DI GIOVANNI” – (2011)
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E’ almeno dal 1956 che Salvatore Di Marco scrive articoli e saggi su Alessio Di Giovanni. Ora la Biblioteca Comunale “P. Borsellino” di Cianciana (AG), dove il poeta era nato nel 1872, raggruppaalcuni dei suoi saggi critici più recenti (dal 1988 al 2010) in apposito volume, dal titolo lapidarioAlessio Di Giovanni (nov. 2011, e.f.c.), che viene a costituire una sorta di summa della figura e dell’opera del vate ciancianese.
Il percorso della perlustrazione critica che ne ha fatto Di Marco vede una prima tappa nel 1896,
quando Di Giovanni – circa ventiquattrenne – pubblica la silloge Maju sicilianu, cui nello stessoanno segue il saggio Saru Platania e la poesia dialettale in Sicilia, fondamentale per la caratterizzazione della sua poesia perché, nell’indicare nel Platania “un protagonista di primo piano della nuova lirica dialettale di Sicilia, sanciva il definitivo tramonto dell’Arcadia siciliana e della stagione letteraria di Giovanni Meli” (p. 51).
Segue la stagione del “fonografismo”, che “ebbe vita entro il ristretto arco temporale 1896-1905
e che può considerarsi un evento estraneo alla natura della sua arte” (p. 150). L’inventore del fonografismo fu il toscano Garibaldo Cepparelli (autore di Fonografie valdelsane, 1896) e il suo estensore in Sicilia fu il poeta Giuseppe Tamburello, con il volume Fonografie realmontane (1900), al quale Di Giovanni scrisse la prefazione. Nell’àmbito del realismo linguistico, il fonografismo consisteva in un “sistema di trascrizione che attribuisce un segno distinto e distinguibile per ogni singolo suono vocale” (p. 137). E tutto sommato anche il termine “fonografismo” può considerarsi improprio, come precisò il lessicografo Giorgio Piccitto, che preferiva quello di “verismo linguistico”. Peraltro l’aderenza alla parlata locale, qualunque sia il segno di trascrizione grafica adoperato (vedasi a es. i vari modi di trascrizione della doppia “dd” del siciliano), resta fondamentale per tutte le operazioni poetiche in dialetto dell’intero Novecento.
E’ invece da considerare una parentesi la pubblicazione della silloge Fatuzzi razziusi (Piccole fate graziose) del 1900, perché in essa Di Giovanni abbandona il dialetto agrigentino della Valplàtani per quello di Noto, dove il padre si era trasferito nel 1893 con tutta la famiglia (e dove Alessio sposerà una netina nel 1895).
Era stato il succitato Giuseppe Tamburello a indicare, in una monografia del 1907/08, Alessio Di
Giovanni come un “felibre siciliano”. Di Giovanni aveva intanto pubblicato Lu fattu di Bbissana
(1900), A lu passu di Girgenti (1902), Cristu (1905) e Lu Puvireddu amurusu (1906), ode cristologica e poemetto francescano che erano stati inviati a Federico Mistral, il poeta provenzale fondatore del movimento felibrista (nel 1854, composto da sette poeti), al quale nel 1904 era stato assegnato il Premio Nobel per la poesia. E Mistral gli aveva risposto in termini positivi, tanto che Di Giovanni pubblicò a mo’ di prefazione tale lettera quando nel 1926 fece una seconda edizione de Lu Puviredu amurusu. Anche se Di Giovanni tradusse poi i Racconti provenzali di Giuseppe Roumanille (un altro dei provenzali che viene considerato il vero padre del Félibrige), la sua poetica non fu mai veramente felibrista, perché de “l’amour du foyer, du clocher, de la terre” non sposò mai l’affezione per il focolare e il campanile, come invece faceva l’intero gruppo dei provenzali che, anche sul piano politico, erano indipendentisti e affini al fascismo nazionalistico.
Quanto all’amore per la “terra”, Alessio Di Giovanni è unanimamente considerato il grande “can-
tore del latifondo”. E’ vero che quella realtà sociale è ormai scomparsa da tempo, ma egli resta lo scrittore che ce ne ha tramandato la memoria storica nei suoi paralleli e inscindibili aspetti: da un lato la “tragedia” – come disse Leonardo Sciascia – della zolfara e dall’altro l’estensione dei campi bruciati dal sole (surfàra e fega, “feudi”). Egli infatti concepì i suoi Sunetti di la surfàra come organicamente connessi con le Voci del feudo (1938), perché era centrale il “grido di dolore che dai campi desolati e dalle cupe miniere si eleva”. Come scrisse Giuseppe Carlo Marino (1995), “a rendere funzionali l’uno all’altro, latifondo e zolfara, […] era la comune egemonia su di essi esercitata da un potere avente marcati caratteri mafiosi, fondato su perentori privilegi e interessi parassitari”.
Né gli si può rimproverare che di ciò Di Giovanni non ebbe una chiara e precisa coscienza storica.
Conclude Di Marco che doveva spettare a Ignazio Buttitta di prendere il suo “testimone”: “Alessio Di Giovanni non seppe farsi, come Buttitta, la sua peddi nova” (p.24).
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SERGIO SPADARO

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