lunedì 23 marzo 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCESCA LO BUE



“Venezia” di Francesca Lo Bue

“Venezia” fa parte dell'ultima raccolta di Francesca Lo Bue, intitolata “I canti del Pilota” (Roma, Società Dante Alighieri, 1919) ed è una poesia che possiamo ritenere paradigmatica della scrittura della poetessa italo-argentina, trapiantata da tempo in Italia.
Come scrive l’autrice nell’Introduzione “La poesia, con gli enigmi che ci pone, con le sue metafore, con l’espressione pura di parole-visioni, folgorazioni e sinestesie, ci apre all’oscurità del mistero” (ed. cit. p.9) e proprio di questo mistero ci parla Venezia.
Il componimento presenta, come di consueto - secondo una precisa scelta dell’autrice- una doppia redazione in spagnolo e in italiano, la seconda, però non è da considerarsi una traduzione interlineare della prima: per Francesca Lo Bue si tratta di una ispirazione contigua in cui una lingua va incontro all’altra e dove è soprattutto il piano fonico a dettare la scelta delle parole.
La poesia è costituita da 22 versi liberi, con alternanza di metri brevi e lunghi, che trascinano il lettore in un “caleidoscopio infinito” grazie al potere immaginifico delle metafore.
Venezia viene evocata mediante una serie di metafore di primo grado, come ad esempio al v.2 “opalescenza di stelle e riverbero di plenilunio”; v.14 “Venezia, libro di viaggi”, v.17 “Venezia, sentiero di cielo”; v.18 “tepore di lucignolo”; v.19 “ ombra di fuoco perenne”, che si intrecciano al tessuto metaforico dell’intero enunciato poetico in cui le immagini-visioni emergono da un fondo magmatico ( v.5 Il naviglio che scende nel labirinto del sangue; v.8 ( C’è Medea che chiama tra muraglie di piombo ) creando un forte contrasto con la luminosità (“opalescenza di stelle, v.2; C’è una lagrima di brina, v.7; “mentre lo straniero mangia acini d’argento”, v.9, “negli occhi d’ambra della sera “v.10) che pervade il testo.
Al centro della poesia, come dell’intera raccolta, vi è l’idea del viaggio, rappresentato visivamente dal “naviglio”, v.5 (laddove lo spagnolo predilige il termine ‘bajel’) e successivamente dalla ‘gondola’, evocata dall’elegante immagine del ‘cigno’, v.15: “fra i tuoi ponti il cigno/nel ventaglio delle onde” (la parola ‘cigno’ ricorre anche nella poesia “Astronauta” in un contesto totalmente diverso): a Venezia, città di marmo, l’io lirico (il pilota) approda dopo un lungo viaggio (“Spume antiche mi portano alle tue soglie”, v.11) per prendere coscienza della propria pena: “nelle tue maschere,/la pena ancestrale del mio viso”, vv.21-22. Forti per intensità i richiami al mito greco degli Argonauti, al loro viaggio nella Colchide e al tragico amore di Medea (evocata, come ricordato sopra al v.8) per Giasone.
La struttura sintattica del componimento è prevalentemente nominale, le forme verbali sono piuttosto ridotte e ad esse è affidata la funzione narrativa appena percettibile nel testo.
Quello che colpisce in questa poesia, e che, a mio parere, costituisce la cifra stilistica più rappresentativa della produzione di Francesca Lo Bue, ben visibile in questa raccolta, è l’uso di un lessico estremamente colto e ricercato attraverso il quale la poetessa ci restituisce, come impronte (“parole-orme”), le tracce del suo e del nostro vissuto. Il tutto è tenuto insieme con grande perizia dal tessuto fonico delle parole dove allitterazioni, ripetizioni e assonanze conferiscono musicalità a una poesia certamente poco melodica.
Attraverso i fenomeni della ripetizione si creano dei grappoli di fonemi che si propagano di verso in verso come rintocchi di passi e fanno pensare al viaggiatore che si inoltra con cautela nel dedalo delle calli veneziane ( e non sarà casuale che la parola ‘labirinto’ vi ricorra due volte, al v.5: “labirinto del sangue” e al v.18 “fra labirinti profumati di luce”). Ad esempio, nei versi iniziali troviamo la ripetizione della ‘p’( Pallida, opalescenza, plenilunio) a cui segue la l’allitterazione della ‘l’ (labirinto, lontana, lagrima), quindi del fonema ‘m’ (Medea, muraglie, mentre, mangia), seguito dalla ‘s’ (Spume, soglie, incenso, mosaici) per concludersi con la ripetizione della ‘v’ ( incavi, Venezia, ventaglio, Venezia) e di nuovo della ‘p ’nella perfetta allitterazione (pena purpurea, v.20).
Alcune assonanze alla fine dei vv.3-4 Infinito/destino; vv.5-6 sangue acque; vv.9-12 argento/incenso; 13-14 incantati/viaggi compensano l’assenza di rima del componimento.
Nella quarta di copertina è collocata una poesia dal suggestivo titolo “Capitàno” che non troviamo all’interno della raccolta; questa poesia ci rammenta in un estremo explicit lo spirito con cui Francesca Lo Bue ha affrontato la composizione di questo suo ultimo lavoro: dare voce al mistero sepolto dentro alle cose e dentro all’interiorità di ogni individuo. Si leggano questi versi: “Dove vai capitano azzurro?... al mio cuore che ha un miraggio d’alberi? Dove vai? Verso l’orizzonte che sanguina?... E’ nata bellezza ed è visione di terrore e grazia/ed è canzone antica”.
Ecco, la Venezia che ritroviamo nella poesia omonima è una città apparentemente ferma, immobile: nelle sue architetture, nei suoi ponti, nei suoi canali attraversati dal leggero movimento dei remi di una gondola sono depositati millenni di storia e di memoria che soltanto la poesia, come Pizia, la sacerdotessa di Apollo, ci aiuta a decifrare.
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Roma, 19 marzo 2020
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Gabriella Milan

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