martedì 5 maggio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = EWA LIPSKA


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Ewa LIPSKA , Il lettore di impronte digitali e altre poesie, Donzelli Editore, Roma 2017, pp. 96, Euro 15 (a cura di Marina Ciccarini)

Anche da questo libro di Ewa Lipska (Cracovia 1945) emerge un tratto comune ad altre voci poetiche provenienti dalla stessa terra di Polonia, in particolare, la vena ironica, quasi sentenziosa che si avverte ad esempio nella poesia di Wisława Szymborska, con cui l’autrice ebbe fra l’altro un lungo rapporto d’amicizia e di complicità poetica. A qualcuno già il titolo, Il lettore di impronte digitali , sembra quasi quello di un noir, o di un romanzo, ma il cui mistero sul quale indagare qui è la vita stessa. Il racconto di frammenti di esistenza è nello svolgersi del tempo, e nel mondo, la cui rappresentazione non è mai regolare o lineare, né facilmente comprensibile. Qualche critico per questo ha parlato per la Lipska di poesia bustrofedica. Nella quartina conclusiva della poesia di apertura del libro, Rebus, si preannunciano atmosfera e cifra di tutta la raccolta poetica. Così scrive Ewa Lipska:

“[…]Il mondo
in cui vivevamo
si chiama Rebus
e se ne infischiava delle nostre domande.”

Il mondo che ci troviamo ad abitare è una realtà complessa da capire, una realtà enigmatica da leggere, da decodificare. Forse non ha senso andare alla ricerca di un significato da assegnare al mondo stesso e unica consolazione, ma anche unica arma, è l’ironia. Ad accompagnare questo ridicolo banchetto c’è come una interferenza acustica, quasi un rumore di fondo costante, «un chiasso pulsante di vita» che porta con sé tutte le sue ambivalenze, perché se il ‘chiasso’ è elemento negativo, fastidioso e faticoso da accogliere, la vita tuttavia è pur sempre ineludibile. Presentando alcune poesie della Lipska, (su L’Ombra delle Parole), Giorgio Linguaglossa scrive:«Ciò che resta al fondo della questione stilistica nella poesia di Ewa Lipska è lo statuto narrativo del discorso poetico, la narratività, lo specchio opaco dell’«io» poetico, il calco mimetico che ha preso il modello narrativo ad icona della propria procedura. Ewa Lipska accetta l’io narrante, posiziona i linguaggi allo stato di radura narrativa, li riposiziona in uno spazio comunicazionale come palestra dell’io narrante con il risultato di ritrovarsi tra le mani un continente stilisticamente magmatico. È sufficiente scorrere i titoli dei suoi libri per capire come il discorso poetico sia giunto nella zona grigia dove non c’è più alcun canone da mettere in discussione». Testimoniano il pensiero di Linguaglossa versi come questi della Lipska:

“[…]Odore di apocalisse e felicità./ Sulla riva un gruppo di persone/ si sforza di vendere il mare/ al fuoco. Un mercato senza cuore[…]/ Nel telefono della conchiglia marina/ un fruscio elettronico.”

Una conferma arriva anche dalla nota della curatrice Marina Ciccarini:«Il lettore di impronte digitali, rispettando la sua funzione, ci restituisce un’immagine nitida della mappa delle minuzie che compongono la nostra identità e trasporta chi legge in una realtà parallela in cui interagire usando i soli dispositivi della parola poetica e dell’immaginazione, potenti strumenti del nostro mondo, unico e irrefrenabile». La realtà di enigmi, turbata da rumori costanti, si dispiega tra passato e futuro ma senza offrire nulla che possa illuminare il presente. Emergono i dati disumani della contemporaneità: il frammentarsi del rapporto fisico fra le persone, il frantumarsi della natura e della bellezza, la solitudine, la rassegnazione, la perdita di senso della storia, l’oblio della memoria. Sono alcuni dei mali del nostro tempo e «non andrà diversamente/ l’emorragia del mare/ come sempre/ finirà con un diluvio».

I contesti che disegnano la quotidianità sono occupati da oggetti tecnologici:

«La solitudine non ha corpo./ Neppure quando ci abbraccia […] Volteggia sopra di noi/ come un aereo da ricognizione».

Per la Lipska sembra che davanti ai nostri occhi, nei pensieri, nei ricordi sia «finita la stagione della vita». Non ci sono né luce, né calore, né abbraccio; non ci sono persone, ma soltanto impronte, impronte digitali, marchi esclusivi che individuano univocamente il soggetto, ma che del soggetto stesso non sono in grado di dirci nulla.

Qualcuno ha pensato a Leopardi, leggendo Ewa Lipska, al suo pessimismo cosmico, in una scrittura senza sentimentalismo, ma tagliente, affilata, capace di saper incidere nel lettore il messaggio affidato alla sua poesia.

“[…] Non so nemmeno/ se è la storia che ha creato noi/ o se noi abbiamo creato la storia./ Se siamo solo l’eco/ di un cuore altrui.”

Ewa Lipska è nata nel 1945 a Cracovia, dove risiede. Le sue raccolte poetiche, molto note in patria e all’estero, sono tradotte in numerose lingue. Ha iniziato a pubblicare versi nel 1967 e da allora la sua attività non si è mai interrotta, neppure negli anni più difficili della storia polacca. È autrice di testi di canzoni divenute famose, di un romanzo (Sefer), di feuilleton, di prose poetiche e poesie in prosa. Nel 2016 ha debuttato anche come sceneggiatrice. A tale proposito Paolo Statuti propone una meditazione ad hoc di Piotr Matywiecki, poeta, critico letterario e saggista che sulla poetessa di Cracovia scrive: «La poesia di Ewa Lipska si distingue per la sua immaginazione insolitamente vivace. Con sorprendente disinvoltura nel suo mondo si può paragonare una classe scolastica alla storia dell’umanità, il traffico stradale al moto della mente, una malattia a un avvenimento pubblico. (Questo è anche il “metodo” poetico della Szymborska). Si avrebbe voglia di dire la Lipska è una poetessa sociale nel senso che non c’è per lei niente di intimo che non sia al tempo stesso quotidiano, formulabile sociologicamente».
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Gino Rago
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Tre poesie di Ewa Lipska---

Testimoni

Sempre meno testimoni
potrebbero confermare
che questa era una vita
con una fabbrica d’amore.

Che questo era un paese.
Una strada. Un numero.
Un vento che spargeva schiuma di latte.

Che erano ragazzi
di un’altra dimensione.
Ragazze a sirene spiegate.

La storia rendeva
false testimonianze.
Il tempo si scostava dalla verità.

I morti si sono avvalsi
della facoltà di non rispondere.

Gli eredi
non hanno chance.

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Il coraggio

Il coraggio vive di momenti pericolosi.
È sempre stato audace e intransigente.
La tata ne ammirava la sicurezza di sé
quando infilavamo le dita
nelle prese elettriche
e ci trafiggeva una lucertola nera.

Veniva con noi in vacanza.
Teneva sempre d’occhio
contusioni lesioni ferite.
Poi saltavamo dalle rocce dritti in cielo.
Ormai a nostre spese. Il rischio si fregava le mani.

Quando provavamo a resuscitare i morti
a sangue freddo ci riempiva di proiettili mortali.
Quando stavamo al davanzale della finestra
diceva: vedo
come un vecchio giocatore di poker.

In certi incidenti guerre catastrofi
ci servivamo senza scrupoli di controfigure.

Oggi è sempre più spesso vittima dello stress.
Di notte ci copre con una gragnola di domande.
Rantola come un motore rabbioso e ha paura dell’altezza.

**

Il Big Bang

Forse è ancora vivo qualcuno
che è stato complice
della creazione di questo mondo?

Un artigiano. Un orafo.
Un meticoloso orologiaio.
(Lascio da parte
divinità taumaturghi bari).

Forse è ancora vivo il cameriere
che lo ha servito su un vassoio
simile alla pinna
di un disco volante?

O forse è ancora viva la miccia
che ci ha spostati verso il rosso?
(Secondo Edwin Hubble).

Una vecchia fune di canapa.
Uno sbeffeggiatore di fuochi d’artificio
e di girandole.

È sempre nei paraggi
dei nostri
incontri pirotecnici.

(da Il lettore di impronte digitali, Donzelli Editore, Roma, 2017) **

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