venerdì 25 aprile 2025

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCESCA LO BUE


=RECENSIONE PER “IL PELLEGRINO DELL’ALBA”, RACCOLTA POETICA BILINGUE, IN ITALIANO E SPAGNOLO, DI FRANCESCA LOBUE, SOCIETA’ EDITRICE DANTE ALIGHIERI, 2023.
A cura di Francesca Farina. Roma, 22/4/2025.
Sin dalla copertina, che reca il particolare di un affresco di San Clemente di Taüll (sec.XII) col muso di un cane dai molteplici occhi, la poeta vuole forse interrogarsi e interrogarci sulla complessità della comunicazione, come si evidenzia nella sua duplice patria, l’Argentina e l’Italia, e nella duplicità della sua lingua. La frase in incipit invece, riportando il frammento di una preghiera taoista del secolo XI, si volge a riflettere sulla pluralità e la diversità delle religioni, pur contenenti tutte i valori fondanti del sacro, dell’etica e della morale. L’introduzione, che non è firmata ma si presume redatta dalla medesima autrice dei testi, conduce immediatamente ad indagare sul senso stesso della Poesia, sulla sua natura ineffabile e inafferrabile, fatta di parole e di significati abissali, poiché, come disse una volta un poeta, “essa è resistenza al facile”, non tollerando la banalità dello stile e dell’espressione, ma sempre ricercando il nucleo magmatico da cui si origina e sorge il Libro per eccellenza, probabilmente quello stesso che è stato scritto con immensa acribia e vertiginosa dedizione, ovvero la Bibbia.
Leggendo quindi verso per verso le poesie di Francesca Lobue troviamo forti valenze metaforiche poiché ciascuna strofa, potremmo dire ciascun sintagma, con citazioni ancorate al reale, con paradigmi e sinestesie, oltreché allegorie e similitudini, introducono a un mondo che oscilla tra la Natura trionfante e lo spirito ricco di intuizioni o illuminazioni esaltanti. Nulla è come appare, ogni cosa citata rimanda ad altra cosa, il senso filosofico di ciascuna frase poetica spinge a riflettere sul detto e sul non detto, sull’esplicito e sull’implicito, a muovere la mente verso la meditazione dell’indicibile e dell’arcano. Ovunque tuttavia si esalta il potere immaginifico del linguaggio, mentre una vigorosa e tragica religiosità avanza lentamente tra le pagine. La ricerca inesausta di Dio e del divino è un anelito a cui tende l’intero universo come la stessa poeta, sconcertata di fronte all’enigma dell’Eterno.
Nulla di mediocre, di consueto, di vieto permea le strofe, tutto è scandito da una conoscenza quasi atavica, ancestrale del mondo, mentre l’autrice oscilla tra la classicità degli eroi e degli dei pagani, ispiratori del suo canto, e la fede cristiana. Il mito che rievoca Adone, Arianna, Medea o Medusa produce angoscia, genera sangue, “solitudine e inferno” dai quali pare non possa esistere scampo, poiché la carne, il corpo, l’essere umano “allibisce di terrore”. Tuttavia, nell’orrore che devasta i tempi e la Storia, la nostalgia preme sul cuore e sulla memoria e la sola salvezza risiede nella parola limpida, vitale, simile a “pioggia che ravviva i canneti delle rive dissecate”.
Ritorna di continuo il sentimento dell’estraneità nei confronti del reale, dal momento che emerge un potente “Te” che domina l’esistenza e che allude all’Essere supremo, innominato secondo il comandamento che ammonisce: “Non nominare il nome di Dio invano”, non allo scopo di evitare il peccato di omissione, ma piuttosto l’eccesso di menzione, unico soccorso nel baratro del nulla. Il male aleggia ovunque, nell’esilio a cui forse la poeta si sente destinata dalla duplicità della nascita, della lingua e della cultura, ma sovente ha il nome altisonante e atroce di Satana, verso l’ora suprema che conduce all’annichilirsi di ogni istante, nella previsione o premonizione della morte. Personaggi legati alla religione, quindi, tornano ovunque, come ad esempio un eroe biblico di enorme valenza quale Giona, che si salvò dal ventre della balena, il quale interroga “un albero ingiallito” quasi dialogasse con il cuore della Natura, per riportare il discorso su Colui che è “Signore di Giustizia” da cui sgorga ogni bene, la salute dell’anima soprattutto, malata di cecità. L’inconoscibile realtà del Tempo, di ogni istante del giorno, che genera afflizione e timore, si stempera al solo nome di Lui, “viatico della terra”, che accompagna la creatura lungo le vie dell’esistenza e la risana.
La poeta non smette di interrogarsi sull’inafferrabile dilemma del destino che oscilla tra paura e bellezza, tra dubbio e certezza, tra il demone e “il Dispensatore”, ovvero tra Colui che tutto concede a un solo cenno, essendo “El Maestro del Cielo”, secondo il titolo originale del testo, e si prende cura dei “prigionieri”, ossia presumibilmente di ogni essere umano racchiuso nel carcere della vita. Talvolta la meraviglia del cosmo concede momenti di serenità e “pace graziosa”, sebbene l’autrice non desista dall’interrogarsi su se stessa e sul suo prossimo, sempre nell’attesa di attingere a un luogo che è tuttavia “trono oscuro di colpa, pentimento e speranze”. A resistere contro il dilemma del Tempo, che domina ogni attimo tra il passato e l’eternità, perennemente intangibili ed intatti, è ancora la parola, “disegno dell’anima”, con i vocaboli che sono “recipienti di sale” e con la lingua che “ci possiede come grido dell’inconscio”.
Davvero la poesia “scende dal cielo” quando si impone alla mente nella perfezione del suo assunto e contiene in sé un intero universo ricco di significazioni, “un adesso perfetto” e “imperituro” che sconfigge la precarietà dei giorni, mentre “l’attesa di Dio” si identifica plausibilmente con la poesia stessa che da Lui proviene. La poeta non si stanca di ribadire che la parola è fondamento del tutto e per affermarlo ricorre a lancinanti metafore che rievocano l’intera essenza dell’individuo in tutte le sue declinazioni, da quelle più miserabili a quelle più sublimi. Il destino precario riporta di continuo a meditare sulla caducità dell’essere, sottoposto sovente al volere di crudeli dei, così il richiamo al mito torna a sancire l’essenzialità della cultura, mente ci si dibatte nell’angoscia del vivere, tra il caos e il caso, tra la tenebra e la luce. Il segreto della vita, che è “enigmatico trascorrere”, si scioglie talora grazie alle parole, che rappresentano il perno mobile ma fondamentale su cui ruota ogni pensiero, azione o emozione, annullando i tentennamenti dell’anima, mentre la religione, con il paradigma della “croce celeste”, si impone sui versi anche mercé la citazione del Libro, verosimilmente un riferimento al libro per eccellenza, la Bibbia, come detto.
Tutto però è immerso nel rigoglio della Natura lussureggiante e pressoché divina, poiché espressione diretta dell’Altissimo, esempio del quale è la semplice ma immortale, eterna “Rosa scarlatta”. Mille domande quindi si affollano alla mente nell’inconoscibilità del creato, senza che nessuna reale risposta concorra ad acquietare l’animo umano, il quale tenta appena di intuire che cosa si celi dietro la propria fragilità. Perfino la scienza pare impotente davanti al “libro disseminato”, che pure è colmo di poesia, vero atto salvifico, forse, nel dissidio delle incognite, ma non si può smettere di cercare la “pienezza…che danza silenziosa”, di indagare oltre il visibile, di spingersi fino a superare l’invisibile, di andare al di là del mare sfidando
“la tempesta nera”. Come il “pellegrino dell’alba”, ovvero con tutta probabilità essa stessa “pellegrina dell’alba”, l’autrice si interroga incessantemente sugli eterni quesiti posti da ogni filosofo all’umanità, sia sul senso dell’essere, sia sulla valenza del nome, e ancora sul potere dell’anima come sul mistero del corpo: nondimeno ogni cosa, creatura, pianta o terra, è ricondotta alla Dimora celeste dove si acquieta ogni domanda e si scioglie ogni dubbio.
Finanche quello che pare un semplice, povero mestiere, quello del vasaio, in realtà nasconde un patrimonio di sapienza e di capacità, non soltanto manuali ma del cuore, legato com’è alle zolle e alle sue “alchimie brillanti”, ai “lampi del sole”, agli “scintillii delle stelle”, immagine del Vasaio immortale che trae dalla terra ricchezze fatte di occhi e pelle di chi vi fu sepolto, come nei versi del poeta e matematico persiano Omar Khayyam (XI-XII secolo d.C.). Partendo poi da un antichissimo manoscritto, il “Pistis Sofia” o “Libro del Salvatore”, vangelo agnostico risalente presumibilmente al III secolo d.C. e redato in lingua copta, la poeta si confronta ancora con l’enigma della Fede e della Grazia, ricorrendo alla Madre di Dio. È una Lei identificata soltanto col pronome dall’iniziale maiuscola, degna della sua essenza celestiale, essendo “scienza senza fine”, è Colei che conobbe ogni arcano prima di tutti i secoli, mentre i nomi di Lazzaro e Sebastiano rievocano i sacri Vangeli cristiani quali esemplari di sublime santità.
Così la poeta procede nella sua instancabile indagine inseguendo i significati nascosti della Natura, delle creature e degli oggetti, appellandosi al Divino innominato ed innominabile, costantemente attenta a non tradire uno dei cardini dei Dieci Comandamenti per pervenire a risposte su domande eterne. In particolare, in una delle liriche, intitolata “Amore e Morte”, riproponendo uno degli assiomi già sigillati da Leopardi, ossia la connessione inesorabile tra i due estremi dell’esistenza, entrambi patrimoni inspiegabili dell’animo umano, che cerca invano di addentrarsi nel loro segreto, l’autrice si addentra nell’enigma dell’Amore chiedendogli, quasi fosse persona: “In quale stella errante fuggisti?” essendo “Re potente dei nimbi”, mentre “tuona la sua voce dal trono trasparente,/ lì tra le vette nelle cime dell’estasi”, ma restando nel dubbio crudele dell’inconoscibile.
Infine alla pagina 78 del ricchissimo volume, si perviene al “Poema alfabetico” che segna appunto, con le lettere dell’alfabeto, brevi poesie, quasi di ispirazione haiku, sebbene non rispettino la struttura di questa classica forma giapponese. In fulgenti bagliori di versi si scandiscono sensi arcani, interrogativi irrisolvibili, asserzioni pacate, quasi a suggello di un’intera silloge tutta tesa a svelare significati e significanti dell’intero universo, possesso perenne dell’umanità, tanto caro alla nostra autrice. Dal punto di vista strettamente stilistico ci sarebbe molto altro da aggiungere. Basti dire che le liriche di Francesca Lobue sono come ampie canzoni con un grande ritmo interno seppure non ritmate, poesie narrative di immensa suggestione.
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FRANCESCA FARINA

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