lunedì 26 marzo 2012

Interventi - Melillo -

ANTONIO MELILLO : IL LIMBO (Manoscritto d’un uomo d’un secolo fa) -
Balli, feste, vita di corte; o balli, feste, incontri di borghesia, centri termali; o balli, feste, saluti in un bar di moda, incontri in luoghi di villeggiatura, hanno sempre servito a fomentare la sociabilità, insita, come difesa, in ogni uomo, ma meno ad esso appartenente della nostalgia, la quale è stata pure ritenuta una forma di malattia psicosomatica.
Accanto alla nostalgia non si può allontanare dalla memoria la melanconia: essa non ha un’unica natura, si differenzia in generi: in malinconia dolce, da considerarsi affezione spensierata, propria, ad esempio, delle fanciulle che ancora non conoscono l’amore, ma che vi anelano e che quindi non sanno ancora, ed ancora non hanno quella consapevolezza del luogo limbale che già vivono, esse, però, si ritrovano, ad ogni modo, in uno stato di lieve depressione; in malinconia di genere patologico, essa provoca il danneggiamento definitivo di corpo ed anima che ha come conseguenza l’intolleranza per il mondo e gli uomini, essa può nascere solo in età adulta, quando si acquisisce la consapevolezza della situazione limbale, e potrebbe essere battuta con la curiosità, se non fosse terminata sempre a causa della consapevolezza acquisita.
Se si soffre in modo profondo di questo secondo genere di malinconia, intrecciata a doppio nodo con la nostalgia, si va incontro o al convento o allo sparo in fronte. Tale genere di melanconia può rimanere latente e nascosta anche ai più fini osservatori di atteggiamenti umani, finché uno non si uccide. Per curare questo tipo di malattia di forte depressione, in passato, medici inglesi e genovesi consigliavano, grossolanamente, di fare un viaggio per mare: partire da Genova in compagnia della sola malinconia e del suo rimorso. Qualcuno ha tentato questo tipo di peregrinaggio, ma la melanconia non lo ha abbandonato, soltanto l’aria gelida del Baltico gli ha procurato qualche breve beneficio, subito terminato all’affacciarsi lì dell’estate, o al ritorno su lidi afosi.

L’uomo, e la consapevolezza del limbo, manca della consapevolezza di essere eterni morenti, di trovarsi in una situazione in cui non si è né vivi né morti, o meglio più morti, ma non ancora, che vivi: in una situazione di essere sospesa, limbale. Quest’ultima consapevolezza si fatica a riconoscere e lo dimostra il fatto sociologico del comportamento dinnanzi ad un morente fisico: egli viene lasciato per lo più in solitudine, gli amici ed i parenti controllano i propri sentimenti: vi è paura di commuoversi. Così facendo si soffocano i pensieri di umana solidarietà.
Si sa, la disperazione è nel cuore, ma non viene espressa, sarebbe di conforto per il morente mostrare la sofferenza; non si accetta la realtà di essere nello stesso stato, di essere morente ognuno, anche se non in un letto di ospedale. Esprimere la proprio sofferenza ad un caro, malato terminale, sarebbe confermare lo stato limbale di eterni morenti. Si rimane così sulle proprie, difesi anche dall’asetticità di una camera di ospedale, che costringe quasi al non contatto.

Dal Nulla, Dio, discreandosi, ha creato l’universo. Per amore ha compiuto l’atto di creazione dell’uomo, e per fare questo si è esiliato, si è ritirato per lasciare spazio a qualcosa di non divino, dunque estraneo alla sua natura. L’universo che così si è venuto a creare, nel tempo si è rivelato non l’unico possibile in quanto non perfetto. Il mondo che l’uomo ha costruito nell’assenza di Dio è un mondo caratterizzato dal limbo. Anche il paradiso terrestre non si è dimostrato luogo perfetto, poiché ha permesso all’uomo di allontanarsi da esso, quindi incompleto. L’uomo, come Dio, da quel momento vive una condizione di esiliato. Dio e l’uomo vivono la stessa condizione di esilio perché Dio, per amore verso la creazione, si è dovuto esiliare costringendo l’uomo, per colpa anche dell’uomo stesso, al medesimo destino. Quindi ogni accusa rivolta all’uomo è rivolta a Dio, e viceversa; ogni preghiera dell’uomo a Dio, è una preghiera di Dio a se stesso. Ogni sofferenza patita dall’uomo, è sofferenza patita da Dio. I due mondi sono separati ma paralleli; per incontrarsi, in un punto infinito e quindi indefinito, uno dei due mondi, forse, o entrambi, dovrebbe trascendersi. Cristo, con la sua venuta e soprattutto con la sua trasfigurazione, ha indicato all’uomo la via di unione tra i due mondi. Ma non ha compiuto effettivamente l’atto, e la sua assenza prolungata ha ricreato la condizione di partenza, nel senso che il troppo tempo trascorso dalla sua venuta ha ricreato la situazione che precedeva il suo avvento. Cristo ha unito in sé le due sfere, ma le ha riassunte esclusivamente nella sua persona e non nell’intera umanità, la quale attende, con una speranza tramutatasi ormai in ansia, tale unione. La speranza esiste proprio perché storicamente, grazie a Cristo, questa via ci è stata mostrata.
La condizione di limbo è vissuta sia da Dio e sia dall’uomo. In entrambi i mondi esiste la speranza di superamento di questa condizione, un superamento che può avvenire soltanto attraverso una fusione tra i due o attraverso la distruzione di uno dei due. La sfera divina non può essere eliminata né dall’uomo, che non ne ha la forza, né da Dio, in quanto comunque sopravviverebbe una situazione di Nulla divino. Il mondo umano, quello del creato, può invece essere eliminato. Dio, con il diluvio universale, ha cercato di farlo ma, forse per il troppo amore verso la sua stessa creazione, non vi è riuscito, lasciando con Noè e la sua stirpe la premessa per la rifondazione del medesimo mondo. E può essere eliminato dall’uomo, attraverso una discreazione collettiva, un’autodistruzione.

L’uomo ha creato il suo limbo. L’uomo, così come si è sociologicamente evoluto, può sopravvivere solo in questa situazione; non può evolversi per mutare questa condizione. Dovrebbe ricrearsi. L’uomo, cacciato dal paradiso terrestre, per sua natura, non poteva altro che formare il limbo, non poteva altro che creare tipi di società adatte a questa condizione. L’istinto alla sopravvivenza del genere umano, infusa da Dio, non permette il superamento del limbo, caratterizzato dall’immutabilità. Quindi l’atto dell’uomo per il superamento del limbo deve andare contro natura.

Già l’infermità separa l’individuo senescente dalla cerchia dei viventi: la decadenza fisica lo isola. A renderlo solo è l’indifferenza di chi come lui è infermo, anche se non lo mostra con il fisico. Si ritorna al discorso di poco sopra: il morente, l’infermo, mostra una realtà dell’uomo, così i morenti si identificano a fatica con i morenti.
Il morente subisce il lento affievolimento dei legami affettivi, perde il contatto con i propri cari, perché, con l’allungamento della vita, si è perduta la dimensione della morte, la quale è ancora vista come un evento definitivo, concludente. Magari! Nella vita non vi è nulla di concludente, e definitivo, neanche la morte pone un termine; i morti non sono molto lontani, se non dallo sguardo, dal mondo: anch’essi perpetuano in una situazione limbale, anch’essi si stringono a noi nell’attesa, disperata ed ansiosa.
La vista dei moribondi non è più un elemento del nostro quotidiano, a tal punto che si può affermare che gli uomini hanno rimosso la morte: non si danno più, come una volta, le disposizione per i propri funerali; questo non vuol dire che in passato si avesse la consapevolezza di essere eterni morenti, ma semplicemente, essendo la vita più breve, si aveva un maggiore contatto con la morte. Oggi, la società lo porta a pensare, ci si ritiene degli immortali; a livello individuale, invece, scorgiamo, nella morte altrui, un’avvisaglia della nostra.
La vecchiaia, già prima della malattia, è l’evento fisico che mostra, a nostra insaputa, l’essere eterni morenti, essa è uno stato che progredisce, ed essendo tale, non può sorgere da un giorno all’altro: essa incomincia ad esprimersi da un’età impensata: subito dopo che si acquisisce una dimensione del mondo, dell’amore e della vita. La vecchiezza è l’anello che unisce i viventi ed i morti: è quello stadio intermedio che riassume i due stati.
Gli uomini che sono in contatto con i moribondi non sono in grado di confortarli con la manifestazione del loro affetto e della loro tenerezza. Fanno fatica a stringere od accarezzare la mano di una persona che muore, perché capisca che né devozione né protezione sono venute meno.
Quando si è particolarmente giovani, con sforzo ci si identifica con una persona vecchia, poiché è difficile immaginare il proprio corpo, giovane e sano, che possa diventare intorpidito, stanco ed inerte; l’impossibilità è dovuta alla mancanza di volontà di immaginarlo [lui ha difficoltà ad immaginarsi vecchio: lei dice: “quando diventerai vecchio anche tu”, “vecchio così” dirà lui].

Ma chi è mai a casa in una lingua? Trovandoci nel limbo, nulla può essere ritenuta casa, neppure il linguaggio. La lingua, è vero, è il luogo più familiare che c’è, il luogo più intimo, ma è altrettanto vero che prima di questa familiarità, vi è una non familiarità: l’intima familiarità del linguaggio ha qualcosa di estraneo. Tale estraneità fa percepire alla consapevolezza umana una situazione limbale; poiché non vi è la piena conoscenza di tutto. Ciò non è soltanto negativo: questa non conoscenza permette di avere una volontà ancora di ricerca, non dettata solo dall’abitudine al viaggiare dell’uomo nell’eterna situazione limbale. Vi è ancora qualcosa di oscuro, ma è troppo oscuro perché si trova in un qualcosa, il linguaggio, che si ritiene intimo. Ritrovare la lingua senza nulla di oscuro, permetterebbe forse un ritorno definitivo, un’acquisizione di patria. Essa è il luogo della familiarità originaria; la mancanza di patria definisce la nostra situazione paradossale di eterna finitezza nel linguaggio e nel mondo. La lingua appare soltanto come un esilio, senza lo svelamento completo, senza la comprensione completa di essa.
Il linguaggio ha un limite, oltre il quale vi è il non detto: il comprendere ha anche un limite, oltre il quale vi è il non compreso. Questo limite è l’orizzonte irraggiungibile che si ritrova nel mondo. Varcare questo limite significa andare nel non detto e non compreso, ma oltrepassandoli entrambi si tramutano in detto e compreso: soltanto se si rimane aldiquà di tale limite, il non detto e non compreso esistono irraggiungibili. Il superamento del limite del linguaggio è la capacità di trovare la parola giusta, che raggiunga l’altro.
L’orizzonte si estende e si sposta continuamente.
Il limite del linguaggio è la mancanza di verificabilità assoluta, anche per ciò che non è visibile.

La terra del limbo ha una confusione delle lingue, punizione che Dio inflisse all’umanità, questo fu uno dei primi interventi divini documentati, anche se ha senso metaforico. Quel che importa è che la Babele ha dato linfa alla situazione limbale, costringendo gli uomini a narrare in tante lingue ed in più a tradurre, un’azione che prima non esisteva. La comunità che voleva costruire la torre fino al cielo, aveva il desiderio di farsi un nome, affinché non si disperdessero su tutta la terra. Ciò provocò l’ira divina a tal punto che dissipò gli uomini su tutta la terra e moltiplicò la loro lingua.
Da qui nacque la dispersione ed il continuo peregrinare; l’umanità voleva concentrarsi in un unico luogo, perché faceva paura la piana mesopotamica. La torre, alta, visibile da ogni punto della città, serviva, oltre che a farsi superbamente un nome, anche a non farsi assalire dal senso della dispersione, senso che nel limbo è fondamento.
La costruzione della città, e quindi della torre, doveva essere la fine dell’erranza nomadica. Con tale ambizione, l’uomo aveva scelto la concentrazione in un unico luogo, invece di seguire l’ordine di Dio di essere fecondi e riempire la terra. Un’unica metropoli universale, dove si parlasse un’unica lingua universale e dove la torre ne era il simbolo. Eppure Babele, da luogo scelto per la concentrazione, divenne luogo dove iniziò la dispersione. La torre, simbolo di tutto ciò, rimase incompiuta e non rasa al suolo dall’intervento divino; questo perché rimanesse nella memoria degli uomini il loro tentativo di opera contro Dio; ecco la memoria che comincia a farsi sempre più presente e pressante, anche per le generazioni che verranno. L’uomo, nella memoria, sarà costretto a non tentare più la verticalità, e sarà costretto anche all’orizzontalità della terra.
Dopo la caduta della torre, si ebbe sia la dispersione dei popoli sia la dispersione delle lingue; a tale diaspora l’uomo oppose la traduzione. Essa ormai viene ad essere un “ponte” che unisce perché permette un’accettabile comprensione, ma nello stesso tempo acuisce, sottolinea le differenze. È un po’ come Cristo, un ponte che permette di tradurre Dio agli uomini, che rende più comprensibile la divinità, ma segna maggiormente anche la distanza, la differenza. Se l’uomo fosse stato più simile a Dio, non sarebbe servito l’intervento di Cristo a rendercelo più comprensibile. Tale lontananza implica, accanto alla comprensione, una non-comprensione; il “non” è il limite della traduzione, del ponte, di Cristo, ma anche di chi “legge” la traduzione, quindi dell’uomo e della situazione limbale che sopravvive. All’uomo, in questo limite, non rimane altro che tradurre, la sua vita comunicativa, osservativa, intellettiva è una continua traduzione, anche l’atto del narrare diviene parte dell’azione traduttrice: quando si narra il mondo, lo si traduce.

Il limbo, la memoria che compone la realtà. Anche una malattia, che con la sua azione potrebbe farsi credere disgregatrice della realtà e del corpo, può comporre la memoria, poiché suscita in ognuno il ricordo delle sue svariate manifestazioni malsane, le quali costrinsero diverse persone, colpite, ad un unico stato malescio; la dimostrazione concreta dell’attività di questa memoria costruttrice durante una malattia è la cura od il tentativo di cura operato dai medici: la cura, posta nel futuro, viene tentata attraverso l’esperienza che si è acquisita nel passato, su precedenti pazienti.
Il limbo è una situazione esistente, una condizione ora consapevole, che non descrive, come la storia, il semplice accaduto ad un particolare personaggio, od un preciso periodo, ma, imitando il verosimile, descrive ciò che avviene perlopiù, l’universale o la necessità di uno stato non soltanto umano.
ANTONIO MELILLO -

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