sabato 17 marzo 2012

Presentazione volumi = Ruffilli

Paolo Ruffilli : “La gioia e il lutto” – Ed. Marsilio 2002 --
Quello che più mi è sembrato evidente nel testo è l’uso poetico di vocaboli quotidiani che mi ha rimandato a Montale.  Il libro si snoda a guisa di racconto di apparente e facile lettura per rimandare invece a polisemie più complesse, non tortuose né volutamente oscure ma illuminanti quando si vogliano cogliere i significati più profondi del nostro breve esistere.
L’andamento poetico conosce sia la dimensione diacronica del tempo che la sincronia di immagini. Esse si staccano sole, nitide, icastiche, comunicanti, lapidarie e determinano la poesia vera distinguendola da quella dei “poeti bianchi”.
È la storia di una morte lenta, agonica, logorante e devastante ma al tempo stesso consapevole, conosciuta, dolorosamente accettata con una sofferenza-quieta. L’ossimoro concettuale del titolo è uno dei possibili fili conduttori del testo; la vita è sofferta da chi muore e dalla pietà di chi resta, dalle attese estenuanti e da volti che fingono nello strazio l’indifferenza faticosa di chi invece sa tutto.
Dominante l’immagine della “madre”, “Madonna”, “madre di tutti”, “madre dolorosa”, “madre impietrita” ma sempre “pietosa” e sempre madre e sempre “figlio” è colui che muore: mi  è sovvenuto il cantico di Jacopone da Todi. La religiosità che accompagna la vita, lo strazio, la morte percorre l’intero testo innalzandosi con una tonalità di dolore che molto ha del cantico sacro: per il poeta sacra è la vita, sacra la morte, dignitose entrambe: la degradazione degli organi trova la sua sublimità nell’attimo finale e la vita acquista valore nell’alternarsi con la morte.
Non cessa affatto
l’attesa del futuro”.
Può darsi che
cessando
non si smetta
di essere” (p. 73)
Forse Paolo Ruffilli non voleva dare messaggi, come spesso è della poesia che vive di luce propria e non è destinata se non a quei pochi che vogliano estrapolarne ricchezze da conservare. Tuttavia le pagine 46 e 47 celano un richiamo a chi, spesso dimentico dello scorrere del tempo, convinto che l’immortalità “ dannata” di cui parlava Borges esista veramente, non è più in grado di cogliere le cose vere della vita che sono quelle che ci stanno intorno,
Mi basterebbe / il tragitto breve / fino al giornalaio
mi fermerei a bere
ad annusare / il fumo delle sigarette
entrerei a parlare con il verduraio
perderei tempo / lungo la strada
sorseggiando il sapore della nebbia” (pp. 46-47)
L’elettrocardiogramma dei versi non conosce sobbalzi perchè, e in questo consiste la qualità del testo, tutto si articola su un andamento lento, nell’equilibrio magico di morte e vita, in uno scandirsi del tempo assaporato anche coscienti della fine (o proprio perchè coscienti).
Esistono un riappacificarsi e ricompattarsi degli equilibri, delle distonie, delle sregolatezze e il linguaggio aiuta, così rassicurante, così vicino al parlato vero, così poco emozionale ed istintivo, finisce per raggiungere il lettore per questo uso cantilenato del comune dove anche la morte per disfacimento acquista una dignità e si ricompone nella convinzione di una rinascita.
La rima costituisce, nel testo, una spirale che risucchia come un gorgo fino al momento finale, poi si risolleva con un alternarsi continuo e pacato di amore e morte che non entrano mai in contrasto: entrambe esistono, entrambe sono la storia del mondo e di questo libro e dopo la morte c’è la riconquista dell’infanzia per continuare un’altra vita e un’altra morte.
È proprio in questi momenti che una morte per AIDS “sconcia, logora, drogata, peccaminosa” diventa un inno di vita con la cadenza di una ninnananna che come tale si può cantare dalla prima all’ultima strofa così come dall’ultima alla prima conferendo al testo una struttura circolare. Mi sono chiesta: “se lo rileggessi cominciando dalla fine?”
È stato possibile e il testo è risultato egualmente di forte intensità poetica: ho in mente una frase dell’ultima lettera da Londra scritta da Van Gogh al fratello Theo: “Per vivere occorre morire a se stessi”. Questo Paolo Ruffilli l’ha fatto: soprattutto, ce l’ha offerto.
Patrizia Garofalo

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