giovedì 19 dicembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = ANTONIO SPAGNUOLO

Antonio Spagnuolo – "Istanti o frenesie" – Puntoacapo Editrice – Pasturana (AL) – 2019 – pp. 62 – € 12,00

Sono in continuo contrasto le due pulsioni fondamentali che muovono l’attività della psiche. In "Istanti o frenesie" di Antonio Spagnuolo, il dissidio dialettico tra Eros e Thanatos, pur essendo particolarmente acceso, riesce a raggiungere un’armonia superiore nella chiarezza del dettato e sul piano ritmico-musicale. Nelle liriche presenti in questa raccolta, impreziosita dall’esauriente postfazione di Ivan Fedeli, le parole e le suggestive immagini ad esse strettamente congiunte si inseguono e si integrano come fanno le note di un’elegante partitura, giacché è in un verso suadente e calibrato che Spagnuolo riesce a racchiudere le emozioni più impalpabili e i pensieri dalla forma ancora indefinita e mutevole ondeggianti sul vasto e rischioso mare dell’inconscio – il luogo della psiche solcato e scandagliato con tenacia, originalità e maestria dalla sua ricerca poetica.
Leggere queste poesie a voce alta diviene allora un’esperienza importante, se si vuole entrare in modo più completo nel loro mistero e assaporare al meglio le caratteristiche peculiari della loro musicalità, che si mostra capace di rafforzare ed espandere il potere immaginativo ed evocativo di ogni singola frase. Il fluire sinuoso di tale musicalità, che agli istanti in cui appare molto pacato e sommesso contrappunta accortamente delle frenetiche accensioni (deriva forse da questa alternanza di timbri l’enigmatico titolo del libro), sembra essere misurato e scandito dai battiti del cuore (e persino da alcune sue aritmie), ovvero dalla frequenza da essi raggiunta mentre si stanno rivivendo con la memoria i più lieti e radiosi momenti trascorsi, o si stanno fronteggiando le inquietudini di un presente vissuto con la massima costruttività possibile ma punteggiato di irrimediabili rimpianti e oscuri presentimenti.
La sofferenza bruciante di cui sono intrise le liriche che compongono questo canzoniere d’amore è essenzialmente la terribile e insanabile sofferenza che fa seguito ad una perdita smisurata; è di certo all’amata moglie morta, compagna di un’intera vita, che Spagnuolo sta pensando quando, in "Arpa", scrive: «Il tuo mutamento slitta nel gioco / difficile della morte, dei lombi sfaldati / là dove ancora sembra intatto / il pensiero. / Trasvolasti il muro sopra di noi / avvolta in meridiane trasparenti / scambio fra oblio e prodigio».
Ed è sicuramente lei il tu lirico a cui, in una poesia estrosa e varia come "Capriccio", con una dolcezza immensa e senz’ombra di sentimentalismo, rivolge queste parole così smaglianti e dolenti: «Diverti la schiena a gote porporine / mentre io disfo strumenti fra le rime. / Le tue gambe accendono sorprese: / nostra è la recita / nei canali che appaiono sguarniti / a lenire le rughe. / Disarmo scudisci / per fermarti un momento / nell’arco ove recitavi tue preghiere. / Il capriccio ti acciglia: / sto invecchiando».
Grande è l’abilità dimostrata dall’Autore nel rendere l’intensità e il persistere di certi sentimenti, sensazioni e stati d’animo facendo rapidi e incisivi riferimenti ai loro sintomi ed effetti più fisiologici ed interni (con una precisione elevata ma in un modo per nulla distaccato, né tantomeno didascalico), come accade nella potente "Intercostale": «Secondo l’amarezza dei giorni / balbetto pieghe scomposte, / nascondigli sistolici, / le dita impigliate nel tremore: / sei ancora l’esca dell’imbastitura, / lo stupore stralciato alle amarezze, / blocchi ventricolari / all’incrocio dei legittimi abbandoni. / Innumerevoli seni / la tua fiaba invecchiata / nel quinto intercostale».
Grande abilità che può attingere all’enorme bagaglio di conoscenze nel campo della biologia e dell’anatomia umana posseduto da Spagnuolo, il quale, per lunghi decenni, ha esercitato la professione di medico con generosità e successo, oltre a portare avanti la sua missione di poeta. E deve di sicuro qualcosa a quell’enorme bagaglio di conoscenze anche il ricorso a metafore e passaggi analogici che individuano il punto fisico in cui nasce un dolore che solo fisico non è, perché è inizio ed indizio di qualcos'altro; si pensi, a tal proposito, ad "Inquietudine": «Una mitrale incespica ai contorni / stacca granulociti, / un embolo cerca vertigini per coprire / gli orlati. / Ora quell’attimo intoppa l’inquietudine».
Nella maggior parte delle poesie, lungi dal risanare le piaghe, lo scorrere del tempo è visto e sentito sulla cute e più a fondo nella sua violenta irrevocabilità, che ha il potere di alterare, corrodere e cancellare la vita. Ne sono degli esempi, oltre la densissima di rimandi psicanalitici "Il tempo" (dove a dominare è l’ancestrale e insuperabile «paura del vuoto»), la lucida quanto lapidaria chiusura di "Specchio" («In questa attesa il tempo ha meridiane / che deformano il viso») e quella più amara e crucciata di "Rimpianti", in cui è presente una fulminea personificazione del tempo che ha il solo scopo di metterne in rilievo la natura disumana, se non puramente malevola: «Sono solo / a dimensione del tempo che mi sfiora / e ride / contro i miei rimpianti».
Il desolato e quasi arreso incipit di "Nostalgia" («Contro la sistole carezze sussurrate. / Il mio tempo è fallito, / conservando frammenti di trapasso; / inavvertita la luce dei tuoi gesti / illusori / mi contende le rughe») mostra come nemmeno il tempo interiore, sebbene di gran lunga più libero dalla cruda e implacabile linearità di quello della fisica, sia percepito da Spagnuolo come un posto in cui trovare un rifugio stabile e sicuro. La sua non è affatto una poesia che si accontenta di comode ed elusive, perché consolatorie, soluzioni: perfino nei momenti di maggior abbandono alla dimensione onirica, quelli in cui sente più vicina e vivida l’epifania della sua compagna, Spagnuolo sembra presagire in maniera sottile e latente la disincantata solitudine che lo accoglierà al risveglio.
Inoltre, in poesie come "Betulla", il ricordo luminoso ed ancora caldo delle tante gioie condivise un tempo con la propria amata, pur rischiarando in profondità l’umore dell’io lirico, finisce col rendergli più palese e palpabile il vuoto che da adesso sarà costretto ad affrontare, almeno fino al lampo abbagliante di una nuova illusione, di un altro autoinganno: «Quel gioco delle reni sbilanciato / riemerge come una cosa gelida / inventa nuove note per la casa / al prossimo tuffarsi ad un ristoro. / La tua betulla sbiadisce, / custode dello spreco, / la lingua assaporata alla preghiera / sconnette: / un lamento la pelle decompone / al bordo dei ginocchi, / quasi nel vuoto della nostra pienezza».
A donare all’Autore, se non una risolutiva salvezza, almeno un conforto costante e nobilmente amico è lo slancio in qualche modo sovrumano e quasi divino del "poièin". Forse è proprio lui il "dàimon" che, nella splendida e tremenda lirica intitolata "Attesa", gli «porge ancora le bende» per tamponare le ferite inferte da una notte segnata soprattutto da un’attesa infinita e da distruttive assenze, così da permettergli di continuare a cercare la possibilità di un dialogo vero attraverso una scrittura in grado di riscattare il dolore dalla sua informe indicibilità.
Immagini ossimoriche come quella posta alla fine di "Schegge" («il cieco nascondiglio della luce») e quella che si dispiega tra i versi iniziali dell’altrettanto introspettiva ma più metalinguistica "Colori" («nel tunnel che le tenebre intermittenti / abbagliano per svago») testimoniano quanto sia fondamentale, nella poesia di Spagnuolo, il ruolo della luce e come questa conviva col buio in un modo talmente stretto da arrivare molte volte a virare verso esso – e viceversa. Una poesia, di conseguenza, molto sensibile alle più svariate suggestioni cromatiche fornite dalla realtà materiale (presente in tutta la raccolta ma in maniera sempre riletta e sublimata dalla più intima immaginazione dell’Autore), perché ritenute le manifestazioni fenomeniche di Eros più visibili e capaci di far indietreggiare di qualche passo ed esorcizzare per qualche momento la spettrale idea di Thanatos, evocata, in questo libro, dallo stinto grigiore della monotonia, prim’ancora che dalla nerezza totale, che altro non è se non la più definitiva e assoluta assenza di sensazioni colorate e di amore.
E può essere intesa come un simbolo dell’autodistruttiva pulsione di morte, del suo irruento e non del tutto confessabile potere attrattivo, la protagonista dei primi versi di "Una strega", di certo una tra le liriche più lividamente espressioniste dell’intera raccolta: «Con gli occhi fissi nel cupo sortilegio / una strega mi affascina, nel silenzio / di queste mura ormai ridotte al nudo. / Ha scomode parole nel corpo lacerato / da pensieri incompiuti, quasi incerte, / e grida all’improvviso alle mie tempie / la selvaggia disfonia dell’eternità».
Ma è soprattutto sul piano del ritmo che, nella poesia di Spagnuolo, lo scontro frontale tra le due opposte pulsioni originarie ricerca e raggiunge una sintesi, ovvero un suo armonico superamento, immergendosi in un flusso di immaginifiche parole davvero prelogico e composito, perché davvero prelogica e composita è la vita psichica da cui esso scaturisce e di cui esso è specchio. Un flusso, però, che risulta sempre giustificato fonicamente e che si mostra modulato con accenti limpidi e nitidi anche quando trasmette i sensi più vorticosi ed abissali.
Impressiona la cura attenta e appassionata riservata dall’Autore ad ogni dettaglio: nelle sue poesie ogni sillaba e ogni silenzio concorrono a creare una musica unica e multiforme, capace di rievocare le visioni e le intuizioni che si fondono o collidono nell’inconscio, gettando così un fascio di luce policromatica sui suoi procedimenti associativi, sulla sua logica latente. Anche da questo aspetto emerge la portata conoscitiva del linguaggio lirico foggiato da Spagnuolo.
Tempestato com’è di dettagli minimali che contengono e dischiudono mondi splendenti e sfaccettati, "Istanti o frenesie" è certamente un gioiello di elevatissimo valore, in grado di arricchire un’opera poetica, quella di Antonio Spagnuolo, tra le più importanti ed imponenti degli ultimi decenni.

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GIANFILIPPO GRAVINO

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