martedì 19 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = ANNA VENTURA

Anna Ventura, Streghe, One group, L’Aquila, 2018, pagg.124, 16 euro

Forse è difficile apprezzare appieno l’icasticità, la leggera ironia del dettato poetico della poesia di Anna Ventura, «la Szymborska italiana» come è stata definita nella rivista on line “L’Ombra delle Parole” da Giuseppina Di Leo, sospeso tra attenzione e ritenzione, interrogazione e risoluzione. Nella poesia della Ventura assistiamo alla poesia delle «cose», dove sono le «cose» che ci parlano tramite la loro distanza; è l’allestimento della «distanza» che qui ha luogo, l’allestimento di un luogo dove sia possibile l’incontro tra la voce parlante e l’occhio di chi legge e ascolta. È una poesia che nasce da Atena che «conosce la superficialità degli dei», dalla Sibilla che non cerca la verità delle «cose» ma il loro «evento», da Antigone, che invece cerca la verità delle «cose» al di là e al di fuori dei discorsi discordi dell’agorà, lontana mille miglia dai reumatismi dell’intelligenza e dalle insolvenze dei discorsi suasori della politica e della poesia corrotta dalla retorica e dai sofismi dei sofisti. La loro parola è ora lieve ora tragica ora soffusa di melancolia. La Sibilla, anch’essa è leggera, scrive le proprie sentenze sulle foglie degli alberi, abita la superficie della materia, cambia umore, e così cambia anche i suoi responsi. La poesia della Ventura è poesia politica e ermeneutica perché nasce dalla meditazione sopra le «cose», siano esse “Gli sposi etruschi”, o “Le case” o le poesie dedicate alle “streghe”, siano “Due fili d’erba” o qualsiasi altro argomento, come il poeta Nerone, preso ad emblema della follia poetica, o Giulio Cesare che celebra inconsapevole il suo trionfo che sarà la sua rovina, o “La guardiana delle oche”, così misteriosa e insondabilmente autentica. “La neve di ovatta” è un ricordo dell’infanzia, una stregoneria che rievoca il mondo in cui tutto era un mistero. L’ultima poesia dell’antologia (che qui viene riprodotta per prima) è il testamento spirituale di Anna Ventura: la parola che pronuncia «il dissenso, come in In nome dello spirito:«Questi piccoli fogli bruceranno/come tutto il resto, se è già scritta l’ora dello sterminio./ Ma, poiché ancora ci è data la parola,/ pronunciamo il dissenso». Ma poi continuando a scrivere versi Anna Ventura si dirige verso nuove fono prosodie. La testimonianza viene ai lettori con Streghe, il suo libro poetico fresco di stampa. Suggerirei al poeta del nostro tempo di recarsi nel borgo di Via delle Streghe, (borgo noto e Via ben familiare ad Anna Ventura), riuscirà egli a scorgervi la porta nel vicolo, incorniciata da pietra candida di quelle montagne, sulla quale le Streghe operarono la magia di poterla vedere soltanto loro, come unica via di salvezza? Quella porta (lo afferma Cesare Ianni nel suo denso scritto nel risvolto di copertina della raccolta “Streghe”), quella Via esistono ancora, ma non a tutti è dato di vederle… [Ergo, Via delle Streghe e Porta, invisibile ai più, come metafore della Poesia]. Ho voluto vedere nel dato reale che la stessa autrice rimarca e rivendica per la Città dell’Aquila, la possibilità di estrarne una valenza di correlativo oggettivo e, appunto, di metafora: la «Porta delle Streghe», esistente realmente ma visibile soltanto a certi individui portatori di ben precisi valori di cultura, di potenza immaginativa, di sentimento di apertura e di accoglienza verso l’indicibile, l’insolito e il Mistero del vivere è ben riuscita metafora della poesia. E quegli uomini, in fondo un po’ speciali, sono i poeti. Mi piace interpretarla così la poesia di questa recente raccolta di Anna Ventura anche perché soltanto un certo tipo d’uomo può conquistare una strega e può con lei costruire un nido. Interpretando i versi con i quali l’autrice magnificamente chiude il suo poemetto (”[…]Quando ciò accade,/ l’arcobaleno ha i colori più intensi, i ruscelli/ scorrono più veloci e le mucche/ fanno il latte buono.”) si nota che da essi pare che si distacchi la volontà del poeta di volervi suggellare il miracolo alla portata dell’atto poetico vero, un evento del tutto simile alla “sorpresa” anche nella sua accezione cristiana «Ogni atto di Dio genera una sorpresa…». E questa sorpresa può essere in grado di “mettere fretta” a certe persone o di lasciarle nella stasi della indifferenza, come può succedere con ‘altre’ persone. Le donne che si recarono al Sepolcro notarono la pietra appoggiata alla parete sepolcrale e non videro il corpo di Gesù in esso depositato morto, dopo la deposizione dalla Croce. Una sorpresa, per il cristiano ‘la massima sorpresa’. E le donne in fretta si misero in moto per annunciare l’evento. Altri di fronte allo stesso evento rimasero immobili, non sentirono la spinta a mettersi in movimento, in fretta. Com’è per la poesia anche di Anna Ventura, poesia-creatrice-di-sorpresa, che mette in moto alcuni, che lascia fermi altri, ma chi si mette in moto per la sorpresa poetica si mette in moto in fretta e corre verso gli altri per con-dividerne il senso del mistero e dell’indicibile. Questa la cifra tematico allegorica che colgo nel poemetto Streghe di Anna Ventura, peraltro magnificamente arricchita da stupende meditazioni artistiche da parte di artisti di forte senso estetico. Ma la poesia in fondo se è anche “arte conoscitiva”e come tale radicata nella Storia, essa è preminentemente “arte del linguaggio” e come tale si radica nella lingua. In sede puramente estetica, la poesia di Anna Ventura da Tu Quoque a questo recentissimo lavoro poetico Streghe, per il serio lavoro sul linguaggio condotto dal poeta d’Abruzzo sui nuovi versi, per senso del ritmo, per intonazione generale dell’intero poemetto, per accento, per sillabazione e per quella che vien detta ‘durata’, giunge a una personalissima prosodia in buona parte comparabile a quella di un Różewicz:[“Queste forme un tempo così ben disposte/ docili sempre pronte a ricevere/ la morta materia poetica/ spaventate dal fuoco e dall’odore del sangue/ si sono spezzate e disperse…”] che Giorgio Linguaglossa, nello studio magistrale dedicato al poeta di Polonia, non ha esitato a definire «sorprendentemente ricca, frastagliata, vissuta e ritmicamente snodabile…», anche se l’autrice di Streghe continua a misurarsi lucidamente con la poetica delle «cose», immergendosi ,come ha con pertinenza segnalato Rossana Levati in una nota su una poesia della Ventura, «nel grande fiume delle cose che non aspettano niente», ma continuando a dichiararsi estranea a quella che, con felice intuizione, Linguaglossa, riferendosi a Tu Quoque, propose come «poetica logocentrica». Né poteva essere altrimenti se sono le stesse Streghe a dichiararlo in Il latte buono, (pag. 51):“Noi streghe non ci innamoriamo: lo vieta/ il giuramento a Lilith,/ nemica di Adamo[…]”. «Quale è l’impianto poetico generale de “La casa bassa” di Anna Ventura se non quello di contrapporre in maniera stilisticamente ben riuscita un tempo “premoderno” al tempo postmoderno se non post-contemporaneo disgiunto definitivamente dalla dimensione spaziale, e un luogo antropologico ai «non luoghi» dello storico-antropologo Marc Augé? La Ventura non a caso parla alla maniera della Cvetaeva di ‘luogo dell’anima’. E che fa il poeta in questo perimetro di libri, tappeti, gatti, legni di cui si conoscono perfino i respiri, perfino le voci? In questo luogo antropologico ben delimitato, sottratto all’infinito, il poeta si prepara circondato dalle sue ‘cose’ e in un’atmosfera da Antologia Palatina (“le allegre lusinghe, la musica, il canto, le coppe audaci nel brindisi e nel canto… tutto si spegnerà") all’ultima attesa…». A proposito di porte, Rossana Levati rileva: «Leggendo le precedenti poesie di Anna Ventura anch’io sono sempre stata colpita dall’immagine della porta da aprire, così ricorrente nei suoi scritti: la porta dell’orrore di Barbablù, la porta dell’armadio delle meraviglie, la porta che racchiude il giardino segreto, tutte porte “magiche”, che non è dato a tutti vedere e tanto meno aprire, ma solo a pochi eletti che ad ogni costo vogliono vedere cosa c’è dentro, o al di là». Nella esperienza poetica della Ventura non è possibile eludere «la porta» e, aggiungerei, «il ponte» come simboli,correlativi metafisici, metafore del post-postmoderno, carichi come sono di ambiguità perché porta e ponte possono separare o unire, favorire l’incomunicabilità e la divisione o consentire la comunicazione: se è chiusa, la porta divide, se è aperta la porta unisce e fa comunicare. Le porte di Anna Ventura vogliono unire, desiderano consentire la comunicazione fra i lettori e le «cose» della sua poesia, dichiarandosi nel contempo estranea alle poetiche logocentriche, accordandosi alla idea di Rossana Levati: «la Ventura è estranea a una poetica “logocentrica” perché se da una parte stanno le parole e dall’altra le cose, è a queste, alle “cose” che appartiene la sua poesia». È la stessa Anna Ventura a precisarlo definitivamente nella sua poetica: “[…]le cose vogliono un grande silenzio/ prima di prendere la parola” perché, per la poetessa di Montesilvano d’Abruzzo, compito della poesia è «trasformare in infinito / il quotidiano finito», stante la verità di cui questa voce poetica ha coscienza e cioè che le parole sono lucchetti, sì, ma il poeta possiede la chiave per tentarne l’apertura.
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Gino Rago

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