venerdì 31 maggio 2013

SEGNALAZIONE VOLUMI = LIANA DE LUCA

LIANA DE LUCA: “Ubaldo Riva” (alpino,poeta,avvocato) – Genesi Editrice – 2013 – pagg. 160 - € 16,00 –
A cinquanta anni dalla morte del poeta Ubaldo Riva Liana De Luca , con la sua già collaudata capacità saggistica e la sua sagacia di critica , ci offre un volume ricco di suggestivi rimandi e di numerosi spunti memoriali.
Un poeta dalla ampia partecipazione agli avvenimenti della sua generazione,sia culturali , sia politici che professionali. Un poeta che si distingue per la policromatica versatilità alla creazione poetica. Molti i “testi” riproposti in questo libro , tratti dalle numerose pubblicazioni che vanno dal primo “Passatismi” edito nel 1925 da Gobetti, polemico in pieno futurismo, a “Bergamascherie prime e seconde”,a “Bambinate , a “Quasi quasi una fantasia” , a “Versi di romanzo”, sino a “A ¾ di secolo”, in un panorama ricco e sotteso per un rigore espresso con sensibilità e cultura eccezionale.
Lo scorrere degli anni mostra un uomo più che valido, il quale seguiva un ordine particolare sia negli studi che nell’adempimento del suo dovere, sia nella quotidianità che nella ricerca letteraria, tra le meraviglie del paesaggio e le appassionate soste di lettura , tra le penose attese nella neve e il dipanarsi degli eventi bellici, tra le arringhe sfibranti e il melodico adagio del verso.
La sua carica di amor patrio si manifestò limpida nelle varie attività del suo grado di tenente colonnello durante la seconda guerra mondiale, mentre la sua capacità forense si completa nelle aule di tribunale con grande passione e immenso entusiasmo.
Fresca e intrisa di ritmo musicale la sua poesia tocca passaggi a volte di eleganza lieve e sorridente per quei tratti di nostalgia che traspaiono nel canto che ritorna quasi innocente labbro infantile.
ANTONIO SPAGNUOLO--

martedì 28 maggio 2013

NOTIZIA = TROFEO PUSTERLA

E' indetta la dodicesima edizione del "Trofeo Pusterla" per poesia in lingua e poesia in vernacolo.
Inviare entro il 10 luglio sette copie (anonime) di poesie non superiore ai 40 versi.
E' richiesta tassa di lettura.
Premiazione 20 ottobre 2013 .
Per il bando completo : mirocarniti@virgilio.it

domenica 26 maggio 2013

SEGNALAZIONE VOLUMI = NINNJ DI STEFANO BUSA'

NINNJ DI STEFANO BUSA' : " EROS E LA NUDITA'" - Edizioni Tracce - 2013 -

Ciò che sempre e da sempre mi colpisce, nella poesia di
Ninnj Di Stefano Busà, è la pregnante qualità del dettato,
il rigore fervido delle metafore, la saggezza magnanima e
dolente di cui investe e nutre – forse anche risana – ogni
suo lampeggiante scorcio lirico, ogni pur aspra, purgatoriale
balza poematica che, già a una prima lettura, s’irradiano
invece sensibili, benefici, si dichiarano insomma anche
nostri, potentemente fraterni e rispecchianti…
Dove le strade divergono c’è ancora
quella speranza che non s’arrende,
quel grido immenso di libertà
che la fatica del divenire sorprende.
La “fatica del divenire” – ecco – ma anche “quel grido
immenso di libertà”: concetti, emblemi gnomici, solo in
apparenza divergenti, macerati agli antipodi:
…la fiamma accesa, se l’inverno si affolta…
Affolta… Che squisita citazione montaliana (“s’affolta / il
tedio dell’inverno sulle case”…) nonché scelta verbale! Rara,
anticata, eppure già in abbraccio di fervidissimo, aggiornato
travaglio.
Nella lunga strada e soprattutto al bivio fra Il sogno e la
sua infinitezza (opera gemma del 2012), Ninnj conosce fin
troppo bene ogni lotta con l’angelo, ogni misura (e mistura)
del dolore… Tende, tenta, inforca l’ossìmoro come una
nuova Penelope paziente e nostalgica, l’arco obliato di
Ulisse – poesia come frastornata e imperterrita arma eroica,
angustiata d’immoto al presente quanto più sacro le pare, le
parve il passato:
…la nostra gioia è arsura…
Ma potremmo continuare con le sue inesauribili,
apotropaiche sentenze gnomiche (spesso anche gnostiche):
…l’afasia del sorriso…
…l’infinito esangue del pensiero…
…ogni gravità si riformula da sé…
…una passione che si vuole colorare…
Di questa “acerba sostanza che muove gli alfabeti”, Ninnj
è conscia e magistra, ambasciatrice preclara. I suoi libri ci
compartecipano sempre un talento che è anche, ripetiamo,
ricerca inesausta ed esaustiva, amicizia al maiuscolo del
Pensiero e del Tempo.Scelgo ora – della sua vastissima produzione – pochi titoli
ad exemplum, per suggellare non solo il denso rito espressivo
ma suffragare ancor più la costanza laica della sua fede, un’ars
dictandi affilata e nobilissima, che davvero non le concede
(e cui ella stessa non concede) tregua di sorta…
La parola profonda di pensiero
è grazia che mi salva, fremito
di chiglia che rifrange un’onda chiara.
Siamo Tra l’onda e la risacca (2007) di questa sua poesia che
è sempre, un po’ (ce lo confessa, in esergo, con vera e propria
dichiarazione di poetica), “una cattedrale per la sofferenza,
una condanna a vedere sempre l’azzurro di un cielo, attraverso
nubi e cataratte di temperie, pur nei grovigli di pena e sconforto,
o nel disagio che pure la domina e la stritola”…
Eppure non si tema malinconica o peggio mai intristita,
la cifra costante e piena della sua opera… Vi è sempre un
montaliano fantasma che ti salva (e che Ninnj battezza L’arto
fantasma, ottimo esito del 2005) per reclamare e convocare
una Vita di perdita-assenza che non è affatto, ben ci spiegava
Raboni, “desertificazione o estinzione”; e “interloquisce
nell’ordine degli eventi a una rara e impalpabile relatività di rango
che è la poesia".
Vite che fervono dove le anime rasentano
sterpaglie e condividono una loro esistenza
sotterranea gli insetti sotto le petraie.
Pur giunge la tremula gemma, a rimpinguare,
a rimestare la parola più lieve, ché un’oscura presenza
v’intorbida le radiche del fondo e vi balugina
qualche nuovo turgore, una plenitudine cangiante.

Ma torniamo all’ultima produzione della Di Stefano
Busà, perfettamente confortati dalla sua capacità strenua
e dolcissima di accordare talenti critici tra i più dissimili
ed esigenti: Giovanni Raboni, per l’appunto (“… è poesia
dal profondo. Vi è un’autentica vocazione che la determina
come un flusso magmatico”…); ma anche Marco Forti
(“s’interroga sulla materia cantabile, sull’unicità del concetto
di essere anima/corpo di un tutto drammaticamente
nudo”); Walter Mauro (“È la milizia terrena che combatte
la sua impietosa guerra contro la fuga del tempo”); o il più
giovane Francesco D’Episcopo (“ama trapassare e sorvolare
la terra per cogliere l’universalità”)… Tutti singolarmente
dediti ed adunati in variegato, convinto plauso.
*********
Il sogno e la sua infinitezza sembrava già un rilevante
punto d’arrivo per tornare illesa, ribadisce Ninnj, alla sua
“incandescenza, / alla distanza oscura della notte”.

Ma ecco ora questa nuovissima, breve e ispirata raccolta
– che quest’infinitezza e questo sogno li rimette in gioco,
in nome di un febbrile, rigemmante perché sempiterno
sguardo d’Amore…
Già il titolo, Eros e la nudità, ci rimanda come ad una
struggente, impennata dedica – ideale e concreta – al dio
che ci appassiona: deità da intendersi però, squisito e lenito
paradosso, anche quale suprema, inquieta e sorvolante
categoria dello spirito…
Sorso d’Eros.
dono d’occhi che accende le tenebre.
Nelle più vecchie teogonie, si sa, Eros è considerato come
un dio nato contemporaneamente alla Terra e fuoriuscito
direttamente dal Caos primitivo… Eros resterà sempre,
anche al tempo delle infiorescenze “alessandrine” della sua
leggenda, una forza fondamentale del mondo – primordiale
e raffinata all’unisono… Quell’Amore che assicura non
soltanto la continuità della specie, ma propriamente la
coesione interna del Cosmo…
Anche la Ninnj Di Stefano, sembra dedicare al destino e
alla forza rigenerante di cotale deità (Eros, attenzione, è
nato dall’unione di Poro – l’Espediente – e di Penia – la
Povertà – nel giardino degli dèi, dopo un grande festino al
quale erano state invitate tutte le divinità), la fantasia e il
rapimento come di un’antica leggenda milesia:
L’amore non è né comodo né facile,
ci arde solamente come scintilla vitale,
ci scorre tra le pieghe come istante perfetto
nell’arroganza di solitudini abissali.
Ninnj Di Stefano Busà insegue ora questi istanti perfettiSei al centro della carne, celebri il rito
dell’amore senza tempo né spazio:
come un fiore sbocci dall’oscurità.
*********
Da sempre Eros in qualità di dio dell’Amore presiede
all’essenza stessa della poesia… Giocando come a intervistare
oggi la Anna Achmatova di sempre, di se stessa e del proprio
mito appassionato (cioè a inventarsi delle attuali eppur
fedeli risposte “creative”), Maria Luisa Spaziani, in Donne
in poesia, fa discettare la grande poetessa russa proprio sul
massimo e usuale tema amoroso:
“Ma poi l’amore non è soltanto un fatto di natura. Lo
comprendiamo meglio in seguito, quando il paradiso è
lontano, quando l’intelligenza lo rielabora. L’amore può
essere una pianta selvaggia, ma per un poeta come me è
più probabile che sia un’orchidea rara; bisogna coltivarla,
nutrirla, difenderla dai venti, pensarla, farla durare a lungo,
il tempo che ci vuole per sentirne davvero il profumo, per
guardarla davvero in tutte le sue impercettibili sfumature,
in tutte le espressioni tenere e terribili che le presta la luce
quando ne fa scintillare il velluto rosa e violetto, lo stame
d’oro, quando tenta di penetrarne gli anfratti, di sondarne
le caverne”…
dalla memoria del suo passato fino al dono sognante del
proprio umano, ritemprato futuro. All’interno d’un tempo
senza tempo (quello vero della poesia) che chiede al suo e
certo anche nostro mito, la linfa e le radici delle stagioni più
belle e fulgide della giovinezza:
Fummo fragranza di terre lontane,
vento di passioni, mere effrazioni,
dentro corpi felici.
Era la giovinezza,
o l’onda del mare alterata dal vento
che inondava di spruzzi il nostro viso.
Ed ecco la sua vera, coraggiosa e sapiente modernità: esser
capace di rimare, assimilare le passioni alle effrazioni…
…dalla nostra carne sboccerà l’aurora… evocherà poco più
avanti, in una lirica che davvero volge al contemporaneo il
pudore e l’ardore di antiche classiche elegie…
Ovunque, in tutto il suo libro, Ella invoca dunque la carne,
il Corpo – e ovunque viceversa noi cogliamo, capiamo
altresì proprio il fiore in luce o il buio eroso dell’Anima…

Esattamente quello che fa – peritissimamente – la Ninnj Di
Stefano Busà con questo suo ultimo, ineffabile eppur profuso
Canzoniere… Sguardo continuo, inesorabile all’intima,
tenera luce fluente ondivaga; all’eterno impertinente
Contrasto d’Amore:
È tutto qui… questo il canto amorevole,
sorprende le alchimie senza tempo,
le piccole gioie che catturano i sensi.
Come uccelli di fuoco sorvoliamo il caos.
Nonché all’ombra e al buio suo esatto contrario, smarrimento
e certezza, bruniana coincidentia oppositorum,
enigma e sempre nuova motivazione:
Poi la nostalgia ci prende
e non si arrende al silenzio delle cose,
ai rami spogli, alle stagioni in corsa.
Bussola appunto tenera e terribile, ma a indicare una
stella polare che per fortuna perde sempre la rotta, e la
riassegna…

L’ora è breve, la carne solo una distanza
da colmare, un luogo da raggiungere
quando l’assenza cresce, e il poco è anestesia

che esclude le distanze,
e il fuoco è spento.
Una densa, trasfigurata ansia catulliana le getta in ombra
la breve luce… Ma poi – abissale, spasmodica vertigine
dall’antico al moderno – proprio quell’ansia (ansa) la
riporta a noi, le riassapora l’amaro miele di cui già poetò,
abbandonando per un po’ il romanzo, uno scrittore come
Gesualdo Bufalino, che solo da vecchio (altro sintomatico
paradosso amoroso) licenziò i suoi stessi, immemori e furtivi
versi di giovinezza…
Amore intelligente e selvatico, raro ma quotidiano –
fin troppo… Un paradiso dove l’intelligenza si aggira
inesplicabile, inquieta e irredenta…
Assente è la parola che sorregge il mondo,
si fa miele amaro sul labbro, se la sfiori.
*********
Più complesso il discorso “occidentale” sulla Nudità, che si
apre con la possente agnizione biblica della Genesi, 2, 25
(“Ora, ambedue erano nudi, l’uomo e la donna, ma non
provavano vergogna”), per poi in fondo complicarsi col
’900 e la sua fervida ma inesorabile scienza di Psiche… Otto
Rank, freudiano DOC, dedica al tempo un intero saggio
che scavalca ipoteche, rimozioni, inibizioni, pulsioni… per
esemplificare un grande, disvelante assunto di saggezza:
“…non ci proponiamo di cogliere l’utilizzazione cosciente
che viene fatta del tema della nudità nella leggenda e nella
poesia. L’intento è, piuttosto, di seguire le raffigurazioni
inconsce del motivo che trovano il loro modello nella
corrispondente situazione onirica e la contropartita nella
nevrosi”…
Sì, la poesia si è resa molto esperta nell’addomesticare, nel
domare i liberi destrieri dell’Amore. E da migliaia di anni
ogni lirica ricomincia da capo eppure prosegue come un
unico, stravolgente poema immenso e universale – cui ogni
nuovo poeta presta il suo contributo, aggiunge un verso o
un brano, uno sguardo, una carezza, un silenzio, un sussurro
e un singhiozzo, un sorriso indicibile fuori della poesia…
Ninnj tesse anche Lei quest’arazzo mitico, aggiunge un filo,
un colore, il suo unicamente e poi anche di tutti:
Dimmi, se sai, la luce che rischiaraEppure la distanza resta colmata, l’ora che è sempre troppo
breve riacquista, rimerita lunghissima luce. Quando il nudo
corpo è connubio d’anima, fiore che s’infrutta, complicità
consacrata dalla terra al cielo: “Accanto a te anche il silenzio
ha voce, / e invidia ciò che avviva i sensi”.
Poesia rispecchiante ed esplicata. Dove forse perfino questi
due endecasillabi saldano in trasparenza un solo, duplice
verso – un divino, coniugale duale accordato, umanato.
(Dicembre 2012)
i nostri corpi, il viaggio breve dei ritardi
e dei silenzi, la vita raccolta in una mano,
come un pugno di grano maturo,
del tempo che non lascia spessore
e nasconde il segreto fino all’ultimo iato.
--PLINIO PERILLI -


lunedì 20 maggio 2013

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCA ALAIMO

FRANCA ALAIMO : “Sempre di te amorosa” – Ed. Lietocolle 2013 – pagg. 74 - € 13,00
Il ricordo della madre , il sospiro per la madre, il ritmo per la madre , in un lungo poema , ove il verso lungo tiene possentemente avvinto il lettore per quella sua capacità di aggregare il pensiero alla musicalità della parola.
Il libro di divide in due parti : una prima parte è per il racconto “Tortorici” , di Stefanie Golisch (tradotto da Mimma Albini) , nato dal rifacimento immaginario di una testimonianza memoriale della poetessa e lodevole antefatto per la raccolta. La seconda parte è ricco delle venti composizioni di Frana Alaimo.
Un torrente di emozioni attraversa queste pagine nel riemergere di momenti quotidiani di una fanciulla che non ricorda il viso della madre, perché dipartita troppo presto , quando ella aveva soltanto quattro anni. E le figure multicolori si affacciano tra sogno e realtà, nel rito evanescente della nebbia , quando anche il sorriso ha l’aspetto rigido della morte, “ mentre nuvole grigie tremavano agli orli / di un convulso colore di arancia, / d’improvviso , / il pensiero cadde nella stupefazione dell’ora / che sale dal basso, quando le ombre nascono / come fiori neri e le anime infelici delle cose / si allungano per sfuggire alla terra…”.
Il legame non interrompibile tra madre e figlia riflette un insanguinato strano senso di colpa, quando la propria storia incombe al di là del baratro, nella ricerca affannata di una probabile consolazione, quando l’ascolto sembra errare nella strana inquietudine dell’inconscio. Ricerca del senso profondo della vita da parte dell’io poetante, in una nostalgia controllata, che rappresenta un canto fortemente vincolante , una speranza sussurrata, per emergere ancora una volta dal dire le cose senza mai piangersi addosso, e con un tessuto stilistico personale dalle fusioni particolarmente valide.
ANTONIO SPAGNUOLO ---

giovedì 16 maggio 2013

SEGNALAZIONE VOLUMI = ARIEL VITERBO

ARIEL VITERBO, Dimenticarsi, GDS edizioni, Vaprio d’Adda, Milano, 2012, pag.82, 8 euro.

Viterbo è nato a Padova nel ’65, a vent’anni è emigrato in Israele, dove si è laureato in storia e archivistica e lavora alla Biblioteca Nazionale di Gerusalemme. Ai numerosi studi che ha pubblicato –incentrati, per lo più, su figure e ambienti dell’ebraismo veneto– si aggiunge adesso questa silloge di versi, che raccoglie le poesie che ha scritto dagli anni dell’adolescenza a quelli della maturità. Il volume è introdotto da Francesca Ruth Brandes, che certifica: “il suo scrivere versi è pratica vitale. Usa magistralmente parole semplici; lui, veneto divenuto israeliano, ha scarnificato nel tempo la lingua madre, fino a renderla pulita, salda e rapida”.
“Da quando so scrivere, scrivo poesie”, scrive Viterbo, e dunque il libro è dichiaratamente un resoconto di viaggio attraverso gli anni e non solo, se alla registrazione del tempo che passa si aggiunge, su uno sfondo che ha l’abissalità di un destino, il resoconto della migrazione dal paese di nascita a quello dell’anima, e dunque il racconto di una storia che è insieme sua personale e di un intero popolo.
I versi mostrano così, fin dall’inizio, l’impronta e le cadenze crepuscolari e intimiste dei temi di solitudine e di spaesamento, accompagnati da uno scorato sentimento dell’umana insufficienza: “da piccolo / piangevo per ogni cosa / […] / Ora che sono grande, / l’occhio è secco / […] / Alla fine del tempo / chiederò che nessuno / pianga per me”; ma il poeta, consapevole della consistenza lessicale e sintattica del suo racconto sentimentale, non tarda a passare su un’altra riva del discorso: “Le parole sono ormai consumate / […] nessuno / ne inventa più di nuove, nessuno / ne trova ormai di vecchie, dimenticate”. Il sentimento, ormai vestito di consapevolezza linguistica, si è fatto storia, e così le parole riescono a farsi terra, una terra promessa brulla ma gravida di promesse: “respirerò il sole bollente / all’ombra del fertile deserto”.
La terra promessa è anche conquista di una casa, ma il nome delle cose, all’interno di questa casa, viene pronunciato in una lingua straniera. Il sogno di pacificazione nel ritorno al luogo di appartenenza collide, in queste scritture, con il richiamo della madre lingua: il discorso in versi di Viterbo suona alieno nella nuova patria, e dunque poetico a tutti gli effetti dello straniamento e dell’inappartenenza.
EUGENIO LUCREZI

mercoledì 15 maggio 2013

RIVISTA = NUOVO CONTRAPPUNTO

NUOVO CONTRAPPUNTO - trimestrale di poesia ed arte - aprile-giugno 2013
Sommario :
Paolo Rufflli = Mente , La stanza , Luna piena
Lucio Pisani = Panta rei, Il labirinto
Manrico Murzi = Passeggiando in me stesso , Quando mi cerco
Liliana Avìcerbi Luzzani = Epistolario
Carmelo Pirrera = DNA
Gloria Venturini = Questa sera, Ci sono giorni
Melina Gennuso = Ombre di corallo e sogni, Ora di te mi resta un sorriso
Domenico Camera = Fuochi d'agosto , La scolopendra
Federico Ghillino = 28 ottobre 2012 - Porto Venere, In una giornata di burrascao
Alceo = Epigrammi
Leonida Tarantino = Epigramma
Melissa Declitte = L'aborto della felicità
Recensioni = a firma di Elio Andriuoli e Silvano Demarchi.
Riferimento = elioandriuoli@alice.it

sabato 11 maggio 2013

SEGNALAZIONE VOLUMI = LILIA SLOMP FERRARI

LILIA SLOMP FERRARI : “Ombrìe” – Edizioni del Leone – 2012 – pagg. 96 - € 12,00-
La difficoltà di una lettura, attenta e coinvolgente, dovuta al dialetto viene brillantemente superata dalla “versione” offerta ad ogni pagina di questa silloge pregna e luminosa.
Poesie scritte con il fervore di un poeta che anela al ricordo , alla memoria , alla rivisitazione dei momenti fascinosi di un passato personale , e contemporaneamente tesse, con bagaglio culturale di notevole spessore, quei segnali, quelle ombre , quelle illusioni che la vita quotidiana spazia in ogni luogo, nella proiezione di quel vissuto che rende fortunatamente maturi . Con dolcezza le nostalgie hanno il colore stemperato di alcuni rapporti affettuosi, al di là dei motivi di rimpianto , e quasi sempre vividi per il tremolare del subconscio . “I nostri passi hanno l’estro del vento / quando sa il quadro, la cornice, quel tremolare di inganni nelle stagioni / con gli occhi lustri di malinconia…”
Così anche la gioia di vivere ha la sua consapevolezza nelle variopinte immagini che si alternano nel divenire e nell’apparire , tra metafore cesellate e ritmi particolarmente fluidi, in un crescendo lirico che rende ogni testo un piccolo gioiello nella meraviglia.
ANTONIO SPAGNUOLO

venerdì 10 maggio 2013

SEGNALAZIONE VOLUMI = EUGENIO LUCREZI

EUGENIO LUCREZI : “ Mimetiche” – Ed. Oedipus – 2013 – pagg. 120 - € 10,00
Una lunga , sconfinata sinfonia accompagna il lettore di queste poesie , come per incanto, pentagramma melodico del quale Eugenio Lucrezi è impegnato incantatore.
Il gioco dei “segni” e delle “parole” è qui un richiamo alla scrittura colta , elevata , al procedimento operativo che il poeta tenta con successo, nella centralità della composizione , quale richiamo musicale , profondamente radicato nel ritmo e nella riflessione.
Significativi i rimandi anatomici – patologici di alcune composizioni , come in una lunga poesia dedicata alle due cantanti rock Patti Smith e P.J. Harvei: “...ruotano di tre quarti il busto entrambe/ è uguale la lordosi che dai lombi / s’inerpica , la torsione che ruota e guizza/ verso su, in direzione di una ostensione, busto che ostende la mammella destra/ nel profilo esemplare…” che con allegra sinfonia descrive alcuni stereotipi quasi marmorei.
Perfetto il tono simbolico che attraversa le numerose metafore, particolarmente nella sezione “Ovidiana” , ove i richiami classici si confondono agevolmente con le acute frecce del moderno , tessendo versi lunghi tra gli orli dell’Averno e le ombre delle trasparenze, tra il gioco di Eros o il semitono di Euridice.
Il canto si dipana , a condividere un dolore o una gioia , un’emozione o un sogno , un riscontro accorto del vivere o una distrazione dal profondo, raro dono e raro frutto di lavoro sulla e per la poesia, come levità pensata e sostanza che serpeggia nella illusione degli incontri.
ANTONIO SPAGNUOLO --

SEGNALAZIONE VOLUMI = MATTEO BONSANTE

MATTEO BONSANTE : “Simmetrie” – Ed. CFR – 2013 – pagg. 96 - € 10,00 –
“Poesia di estrema delicatezza sia per le tematiche che per l’espressione linguistica . ---Scrive Raffaele Urraro nella prefazione --– Queste Simmetrie sono poesia densa di spiritualità , che tende a stabilire, come predetto nel titolo, simmetrie tra l’io e il Cielo , tra l’io e il Logos, tra l’io e Dio.”
Profondamente legati alla vita, alla religiosità, alla natura , ai sentimenti , i versi qui si caricano , dunque , di alti valori morali in una dimensione nella quale la vita quotidiana, terrena, cerca punti di incontro per identificarsi nella particolare intensità di vibrazioni.
Vi sono ombre, che sbandano diseguali, alla ricerca di una linfa purissima, che sia capace di elevarsi per risplendere e donare squarci di leggere brezze o di sbalordite galassie. Vi sono figure multicolori che sospinte dal logos scavalcano destini ignoti per cesellare una gioia delicata e sussurrata. Il sogno si riappropria dell’ inconscio per un tremore che accenna qualche sorriso sulle labbra, per dischiudere momenti che riaprono abbandoni , per rincorrere il nostro destino di umani misurati nello spazio che thanatos lascia indefinito.
“Domani sorgeranno nuovi cieli, / nuovi appagamenti, e nuove seduzioni./ E il mio agio, la mia libertà, / sarà di slegarmi e di compararmi/ alle tue leggi e risonanze….”
E la preghiera sembra accennarsi in quel senso nascosto o palese che il pensiero , essenza di vita e radice dell’essere , dissemina per rinnovare la contemplazione e le ansie del sottofondo. Parola scandaglio , parola detta per ritrovare l’eco dell’eternità nel rumore bizzarro dell’esistere.
ANTONIO SPAGNUOLO

martedì 7 maggio 2013

NOTIZIA = PREMIO SANT'ANASTASIA

CONCORSO NAZIONALE DI POESIA “CITTA’ DI SANT’ANASTASIA”
XI EDIZIONE 2013

Il Comune di Sant'Anastasia (Napoli) indice e promuove la XI Edizione 2013 del Concorso Nazionale di Poesia "Città di Sant'Anastasia", avvalendosi dell'Organizzazione e Direzione Artistica dell’Associazione “IncontrArci” di Sant’Anastasia - Circolo Letterario Anastasiano. Al concorso potranno partecipare tutti i cittadini residenti in Italia o all’estero, purché i testi siano in lingua italiana.

SEZIONE POESIA SINGOLA

Si partecipa a questa sezione inviando una o due poesie in lingua italiana a tema libero, di lunghezza non superiore ai 50 versi, in 6 copie, di cui una soltanto completa di generalità, recapiti telefonici ed e-mail, e di una dichiarazione firmata in calce che ne attesti la paternità.
Si richiede un contributo unico per spese organizzative di Euro 10 (dieci) da versare su c.c.p. nr. 63401236 intestato all’Associazione “IncontrArci”, con causale: Concorso di poesia Città di Sant’Anastasia XI Edizione, Sez. Poesia Singola. Fotocopia del versamento dovrà necessariamente essere allegata agli elaborati.

Premi

Soltanto per la sezione a tema libero in lingua italiana, sono previsti i seguenti premi:
1° premio: Euro 600; 2° premio: Euro 350; 3° premio: Euro 250.

SEZIONE POESIA EDITA

Si partecipa a questa sezione con un libro di poesie pubblicato non anteriormente al 2010.
Il libro va consegnato in 4 copie, accompagnato da un foglio che riporti le generalità complete dell'Autore, i suoi recapiti telefonici ed eventuale e-mail.
Si richiede un contributo per spese organizzative di Euro 5 (cinque) da versare su c.c.p. nr. 63401236 intestato all’Associazione “IncontrArci”, con causale: Concorso di poesia Città di Sant’Anastasia XI Edizione, Sez. Poesia Edita. Fotocopia del versamento dovrà necessariamente essere inclusa nel plico.

Premi

Per questa sezione è previsto un unico premio di Euro 500.

I plichi dovranno essere spediti unicamente al seguente indirizzo: SEGRETERIA DEL CONCORSO NAZIONALE DI POESIA “CITTA’ DI SANT’ANASTASIA”, PRESSO UFFICIO POSTALE DI MADONNA DELL’ARCO, 80048 MADONNA DELL’ARCO (Napoli), entro il 15 ottobre 2013. Si prega caldamente di evitare le raccomandate. Per la Sezione Poesia Singola è anche possibile l’invio per posta elettronica all’indirizzo circolo-lett-anastasiano@hotmail.it In questo caso si dovrà allegare anche la fotocopia dell’avvenuto versamento, oppure indicarne gli estremi.
Gli elaborati non saranno restituiti. I libri entreranno a far parte della Biblioteca Comunale. L’Organizzazione non risponde di eventuali disguidi postali o mancati recapiti.

I nomi dei componenti della Commissione esaminatrice, il cui giudizio è insindacabile e inappellabile, verranno resi noti il giorno della premiazione, che si terrà in Sant'Anastasia in giorno e luogo da stabilirsi (comunque entro l'anno 2013). Soltanto i premiati ed i segnalati saranno tempestivamente avvisati.
Gli altri partecipanti potranno conoscere i risultati del concorso sui siti: http://concorsopoesiasantanastasia.blogspot.com; http://circololetterarioanastasiano.blogspot.com, e sugli altri siti letterari, oppure telefonando in Segreteria.
Per eventuali informazioni, è disponibile la Segreteria (081.5301386 ore serali); e-mail: circolo-lett-anastasiano@hotmail.it.


domenica 5 maggio 2013

POESIA = RAFFAELE PIAZZA

A PIERPAOLO PASOLINI

Vedi, Pierpaolo, a Ostia è il
nulla, una culla di pensieri
sciama nel Terzo Millennio
eri felice, Pierpaolo? Saresti
vivo in questo postmoderno
senza usignoli senza la mano
e la manna dell’innocenza
a tessere testi per Garzanti
e sul Decamerone
mirabili pellicole.
Poesia in forma di rosa
un attimo un barlume,
l’esatta verginità morale del tuo
esistere eri l’angelo del nulla
sorridevi
in questo ti differenzi, da Pavese,
tu, profeta sanguato dei giorni
e cosa diresti vegliardo nel 2008?
Pierpaolo angelo
tra penna e cine presa, Corriere
e ragazzi di borgata, privata
felicità nella diversità eri felice?

Ceste di mele di fortuna
ti donerei questi versi
piango come chi crede nell’arte tua

le ceneri tue insieme a quelle di Gramsci
a vedere nel fondo della Storia
un mistico furore di generazioni
senza passato Pierpaolo
oltre la vita e la morte
ai blocchi di partenza e sono morti
Penna e Bellezza e Moravia.

Pierpaolo, in quel chiaroscuro
animale che dà barlumi per esatta
coincidenza era il 1975 il. giorno
dell’infanzia e mia nonna disse
che eri morto, sovrana innocenza
penna nel quaderno di me stesso
a non sapere come nascono i figli.
**
ALESSIA NEL FUTURO ANTERIORE---

Sera d’agosto sul limite
della vita, feritoia, tra adolescenza
e vita a transitare in quel lucore
che dà stellante ansia nell’interanimarsi
dei giorni a poco a poco
dischiuso il calendario ad altri
lidi dell’essenza di ragazza biondo
tinta nell’inalvearsi il fluire
esatto del pensiero e del mare
ad inverarsi in esatta prospettiva
dono gradito di Giovanni una maglietta
rosa sulla mensola di due mesi fa:
e nello stupore rarefatto ad assistere
alla scena sul fondale del tempo
a tinta neutra guarigioni ad ogni passo
per Alessia nel tentare l’onda
a levigarla, salsedine di sempre
e attesa della mail che salvi,
sigaretta di salvezza dopo la preghiera,
il fio a ricongiungere tra il prima
e il poi, giardino verdeggiante
ad appoggiare la parete d’anima.
E’ l’agosto del 1984, trasmigra la mente
e salta il vento di una nuvola grandiosa
sposa un giorno Alessia
già ora felice.
**

AFFRESCO DI ALESSIA

Poi nella nitida aria nella camera
della mente e fisica
squadernata sul Mediterraneo
(la campagna fino al mare
nel degradare in dose di sfumato
azzurro a interanimarsi con il tetto
leggero, diafano di gioia
nel preservarlo un felice
presagio): passi scalzi di Alessia
(dopo aver riso come una donna)

se è sabato salutare nelle acque
nuotate a lambirla di fianco
e di traverso o in quella fisica

gioia di corpo e anima nell’inalvearsi
di un gioco iridato a poco a poco

tutto accade nel tempo che va stretto
sedici anni contati come semi

con i seni accennati in una maglia
fucsia. Tutto accade. Tutto avviene.
Tutto è da ricominciare. Nell’indaco

di una storia di ardesia o carminio

in un trascolorarsi di forme la gioia
è nella spiga per l’erbario o il filo

d’erba o il fiore d’erba

scende Alessia serena i gradini
della sera, imminenza di stella

lambita in quel luminoso accadere

tra la pianta di fragole sul balcone

del limbo che porta al bosco

appare dispare accade.
**

ALESSIA E I VESTITI

Pullover azzurro cielo nei giochi
di Alessia con lo specchio
gonna al ginocchio rosafuxia
fuori la disadorna via serale,
abetaie nel pensiero dove giungere
sul far della sera e del sogno
bello, legato a pioggia amniotica:
fino allo squillo del rosso del
telefono in esatta armonia
con di fuori il tempo nel tempio
della mente da abitare.

E sono dietro ai vetri le rondini
di platino in armonia
di volo sotteso nella nebbia,
in forma di sciarpa trasparente
al collo campito in invisibile
spessore che fa tutto uguale
pari a fabula l’animo di Alessia
nel protendersi al ramo dell’arancio.

E’ il 1984 tocca Alessia i bordi
della mente di vetro
salta l’ostacolo, ottiene
la vittoria.
***

ALESSIA E IL QUADRIFOGLIO

Sera di prato di tanti verdi
spazio scenico del pomeriggio di
settembre . Alessia tocca con i piedi
scalzi l’erba, quasi in prove di
danza, di vita: qualche infiorescenza
rosa come lei da nominare,
un libro smarrito nella camera
della mente. E in men che non si dica
solcare l’azzurro una rondine
di platino come jet a contenere
i nostri figli. Alessia, sedici anni
contati come semi, porta una maglia
blu notte a intessere la pelle,
occhi a scorgere il quadrifoglio
per epifania e non è sogno.

***
ALESSIA E LA LUCE --

Alessia illuminata, plenilunio
mistico e sensuale sulle cose di sempre,
la casa, la stanza, la città
il rosso del telefono. Tutto si ferma.
Tutto accade. Alessia rosavestita
per la vita nell’attesa dell’incontro
tende ai petali del fiore d’arancio,
matrimonio nel futuro anteriore
della vita che la contiene.
Alessia illuminata, sole
ad accendersi sulle guance
spicchi di melarancia,
Alessia è la verità a dimorare
in terre orientali o occidentali
lontane come un guizzo della mente,
una poesia.

Siamo nel 1984, l’auto supera
I cancelli della vita tutto accade
per la prima volta.
Sa Alessia che ci sarà raccolto.
***

ALESSIA E IL VINO

Sera di limbo, disadorna via
serale, casa di Giovanni nelle
cose di sempre. Tavolo con il
bicchiere di vino e il computer
con internet. Beve Alessia
all’inizio della grazia di quel
rosso a scenderle nell’anima
di bella ragazza di vent’anni,
contati come semi. Imminenza
di calda spiaggia tra le mani
la sabbia presa da una mensola,
segnacolo dal mare una rosa
conchiglia ad attenderne
un’altra, dell’amato dono

tra le alghe del tempo ad iridarsi
nel bicchiere rubino acceso
liquido nel trarne gioia e guarigione
in un mentre di stella

fino al viatico di una sola sigaretta
donatale in un fiore di quadriportico
in una gioia infinita nella gola.
***
Raffaele Piazza

sabato 4 maggio 2013

SEGNALAZIONE VOLUMI = ANGELA CACCIA

ANGELA CACCIA: “Nel fruscio feroce degli ulivi” – Fara editore – 2013 – pagg. 92 - € 12,00 –
“Sono testi che nascono in una donna che pensa e ripensa a se stessa – e in primis dunque – ai legami importanti che la abitano . Il padre, il figlio , l’amato. E la poesia - scrive Davide Rondoni nella prefazione –viene chiamata qui , quasi convocata a forza , per poter essere luogo e voce di tale pensare e ripensare , quasi altro discorso che costa sangue ma che unico può testimoniare il tessuto (il fodero) di una vita.”
Il delicato scorrere del tempo qui si immerge nelle vicissitudini quotidiane a donare parole , a volte sussurrate per il tremolio della voce , a volte incise per pietrificare il silenzio che l’ignoto accoglie dopo uno perdita :
“ Non ho parole da regalare / alla tua morte perché mi / affranchi da questo silenzio / se vi cadesse una moneta/ non ne sentirei il tonfo. / Preme alle mie pareti come / spuma di notte ai vetri…”
I colori pacati , i colori fiammanti , i colori stemperati ricompongono pensieri e memorie, insistono nel verso in una sinfonia di chiaroscuri, per disciogliere sguardi e pensieri, per lenire ferite , per ammorbidire incisioni.
Il ricordo di una lettura lascia segni indelebili , ed il ripensamento cancella nebbie insistenti, per straripare inaspettatamente anche in una preghiera.
Il vissuto dunque non è mitologia , ma esperienza di un ritmo ricorrente ed ondoso, vivido per reflussi e dilatazioni.
ANTONIO SPAGNUOLO

INTERVENTO = GIO FERRI

“Il gioco della traduzione”
Per : "Sonetti" di Shakespeare, Ed. Ombra d'Oro Multimedia, 2000, traduzione plurilingue a cura di Giuliana Lucchini.
*
Non si finisce mai (segno che il problema non è propriamente di secondaria importanza) di discutere in convegni, tavole rotonde, interventi critici di traduzione da una autentica lingua d’origine ad una inesorabilmente traditrice lingua di arrivo. E si continua a tradurre.

Ma la questione è sostanzialmente inerente alla traduzione della poesia. La narrazione per lo più, la saggistica (non tutta), il teatro di prosa (non tutto) godono di una facilitazione di fondo: la predominanza dei contenuti, dei significati ed anche dei referenti (per quanto ambigui) rispetto ai significanti.

Ci soffermiamo qui ancora una volta (confidando di non annoiare tanto è manieristica la diatriba) per parlare della traduzione della poesia, non tanto perché ci prema (non ne abbiamo motivo) riprendere un discorso, per l’appunto, forse usurato. Diciamo della traduzione della poesia in quanto vogliamo ancora una volta confermare, per la poesia, l’assoluta valenza della forma. Anche questa è chiacchiera antica che dovrebbe essere già da tempo giunta a una pacifica conclusione. Ma oggi, per l’ennesima volta, il problema della forma in poesia (come in arte e in musica) viene messo in discussione dai prodotti contemporanei della cosiddetta poesia medesima. In cui si vuol assegnare il primato ai facili sentimenti (comuni a chiunque, e in qualunque tempo, senza la specificità d’essere poetici), alle generose ma vane iniziative di ciò che una volta si chiamava impegno, agli stimoli di una banale quotidianità. Tutto ciò che, quando va bene, può essere anche un buon pre-testo, ben poco ha a che vedere con la forma del testo, quella forma fluens che, sola, è materia, originaria, primigenia e, se vogliamo, cosmologica della poesia. Fondante (e chi non lo sa? ma ancora non tutti lo vogliono sapere) del testo poetico quale, nella sua specificità, astrazione totalizzante. In particolare per la sua ambiguità,e plurivalenza,e in-leggibilità come diceva Giuliano Gramigna (cfr. “Testuale”, n.43-44-45 / 2007-2008). Il significato in poesia è non tanto una dichiarazione manifesta, quanto una interiore, profonda potenza della parola e dei suoi silenzi. Delle sue scritture e dei loro spazi bianchi. Il contenuto della poesia (se si può dire di contenuto tuttavia in senso manieristico) è la sua potente assenza, fino al Nulla eckhartiano, di un Dio come Nulla, in quanto impronunciabile, indescrivibile persino a se stesso. La poesia di parola, di segno, di spazio senza tempo, senza parola. Perciò oltre la parola del senso comune, potente parola indicibile.

E’ proprio riprendendo Shakespeare che ci siamo ancora una volta scontrati con il tema della forma e della sua (in)tangibile sostanza. Rileggendo l’incipit del
Sonetto LV anche in relazione ad alcune problematiche traduttive in altra lingua, quando ogni lingua poetica nella sua necessità non fa che rivolgersi al Nulla, nel senso detto, tramite il Nulla. Ma lo fa comunque fondando sulla potenza in-leggibile della parola come materia:
Not marble nor the gilded monuments / Of princes shall outlive this pow’rful rhyme, / But you shall shine more bright in these conténts / Than unswept stone, besmeared with sluttish time.

Allora la parola poetica è marmo più dura del marmo, perciò non è marmo, è potente più dei potenti, è luminoso spazio, libera dal sudiciume del tempo. Ma è già superfluo dire cos’è - è, e basta, nella sua forma unica e nullificata rispetto alla storia e al senso insensato degli orgogliosi contenuti, quando solo in essa sono these conténts:

Not marble nor… pow’rful rhyme… but shall shine more bright…than unswept stone, bemeared with sluttish time…

Not nor… shine more brigt… unswept stone… sluttish time…

La poesia fluisce esaltando gli ostacoli del dire: fa di quelli ostacoli fonici, ritmici, che solo nella propria irripetibile lingua possono rivelarsi e udirsi, gli spazi paradossalmente impercorribili dalla propria fluenza. Come è mai possibile fare
(poiésis) la stessa poesia in altra lingua, con altri segni? Non significano in italiano, per esempio, lacerti materico-fonici, del genere, in una traduzione di Alberto Rossi (Einaudi, 1965):

Né marmo né… versi possenti… ma in questi brillerete di più vivo splendore… che un sasso sconciato dalle sozzure del tempo…

Più onesto e più efficace, del tutto abbandonata la forma dell’originale, Roberto Sanesi (Mondadori, 2000) quando racconta con distesa energia e insieme amorevole, religiosa profezia:

Né il marmo né i dorati monumenti / dei principi potranno sopravvivere / ai miei versi possenti. Ma tu splenderai più luminoso / dentro di loro che su qualche pietra / abbandonata e corrosa da lurido sconcio del tempo.

Non sono versi di Shakespeare, non sono pietre nel tempo del Nulla, non sono ritmi possenti, non sono scansioni spezzate, meteoriti nello spazio cosmologico, non sono
“rime petrose” (solo Dante può esprimere la fatalità del Nulla al duro segno eternale nello spazio): sono i versi di uno dei più sensibili e prestigiosi poeti del secondo Novecento che rispondono alla sua indole pienamente innamorata e languidamente metafisica (i Poeti Metafisici inglesi erano la sua raffinata passione).

Così come definì un poeta traduttore, che si dichiarava dedito a ri-creazioni piuttosto che a traduzioni, parlando di sé avrebbe potuto dire, appunto: “leggo non tanto Shakespeare tradotto-tradito da…, quanto Shakespeare-Sanesi”.

Una scrittrice, poeta, critico, Giuliana Lucchini, ha portato avanti nel tempo una esperienza assai affascinante (cfr.per es. “Sonnets”, Ombra d’Oro Ed.Multimedia, 2000). Fra l’altro ha fatto accompagnare il relativo volume da un CD in cui si registrano voci per Shakespeare e per i traduttori, accompagnate anche dalle interpretazioni musicali di Victor Fenigstein, maestro al Conservatorio di Lussemburgo: accortezza essenziale per valutare la valenza fonico-ritmico-linguistica della pow’rful rhyme.

Proprio con riferimento a questa felice idea possiamo tuttavia non essere del tutto tranquilli su di una affermazione introduttiva di Giuliana Lucchini; “La pretesa di tradurre tali testi – quasi intraducibili per complessità del livello poetico – nasce dalla reverenza e dalla speranza di poter trasmettere in altra lingua, più familiare al lettore (incuriosito forse dalla musicalità di lingue straniere diverse), un tono di poesia che rinfreschi, in qualche modo rinnovi, nella diversità, l’energia dell’originale, e lo renda accessibile a chi voglia usufruirne”.

Non siamo tanto ottimisti per le ragioni che abbiamo appena espresse! Per trasmettere il significato (e non altro) potrebbe bastare una traduzione di servizio, in nota all’originale – per altro anch’essa difficoltosa in quanto i diversi lemmi, seppure o proprio con il sussidio di un buon vocabolario, presentano tradizionali varianti di significati analogici sovente notevoli. Quindi non è propriamente possibile nemmeno la cosiddetta traduzione letterale. Si darebbe comunque per chi legge, con modesta conoscenza della lingua originale, un supporto utile, ferma la necessità di una capacità di lettura di qualche livello. Ma ciò vale, ovviamente, in Europa, almeno per un lettore di lingua latina o sassone: ma, per esempio, che senso ha leggere la traduzione di servizio di un originale in russo, o arabo, o cinese? Se non si conoscano nemmeno i caratteri di quelle lingue? Per chi non conosca il russo la convinzione che Majakovskij sia un grande poeta viene dai traduttori, ma ciò ovviamente non basta in quanto gli stessi trasmettono solamente il senso comune e non il valore della materia di parola. Per chi non conosca il russo Majakovskij sarà un poeta solamente… famoso. Non di più (salvi ovviamente interessi non poetici ma storico-letterari in generale).

Giuliana Lucchini per la sua iniziativa di ricercatrice e linguista (e, ovviamente, poeta) ha affrontato alcuni Sonetti raccogliendone la traduzione – se traduzione
può dirsi – di poeti di diverse lingue: il tedesco Hans Heinrich Meier,
il francese Max Ribstein, lo spagnolo Agustin Garcia Calvo.

Il Sonetto di cui, qui, possiamo dire è ancora il LV al quale già abbiamo accennato. E la lettura nelle diverse lingue le ha fornito l’importante opportunità di esercitare sull’originale una sottile preziosa operazione critico-testuale. D’altro canto, si sa, non si può comunque tradurre prima di una sapiente lettura critica.

Ma leggiamo finalmente l’intero Sonetto:

Not marble nor the gilded monuments / Of princes shall outlive this pow’rful rhytme, / But you shall shine more bright in these conténts / Than unswept stone, besmeared with sluttish time.
When wasteful war shall statues overturn, / And broils root out the work of masonry, / Nor Mars his sword non war’s quick fire shall burn / The living record of your memory.
‘Gainst death and all oblivious enmity / Shall you pace forth: your praise shall still find room, / Ev’n in the eyes of all posterity / That wear this world out to the ending doom.
So, till the judgement that yourself arise, / You live in this, and dwell in lovers’ eyes.

Le osservazioni testuali di Giuliana Lucchini sono innumerevoli e infine essenziali non solo ai rilievi linguistici, metrici e ritmici, ma alla penetrazione del testo, delle sue dismisure altre, del (non)senso profondo, nascosto, della composizione. Forse al di là di certe (lecite e comuni) superficiali piacevolezze di lettura, questo è l’unico modo per metabolizzare quella cosa (nel senso della Kristeva) originaria, prima e ultima, e nullificante per il senso comune, che chiamiamo poesia.

Così fra le acute e diverse osservazioni nota, per esempio che è “impossibile battere i cinque piedi giambici del pentametro inglese sul verso italiano; la prevalenza di parole monosillabiche di origine anglosassone, portatrici di significati concreti e condensati non trova riscontro adeguato nella lingua d’arrivo”. Mentre “il testo d’arrivo in lingua tedesca è perfetto nella ripresa del pentametro giambico [… ]. Quello francese si basa sull’alessandrino con la secca cesura d’obbligo a metà verso [… ]. La versione spagnola perde in enjambement e procede letterale…”.
Nella traduzione italiana di Giuliana Lucchini che riportiamo qui sotto “[… ] si opta per una traduzione interlineare in verso di 13 sillabe (rima piana), il quale, per la sua lunghezza, salva quasi sempre tutto il contenuto [si badi: il contenuto] e, per il ritmo, attutisce il cantabile delle rime, meglio adattandosi a una poesia ‘di pensiero’ oltre che ‘d’amore’.

Seguono nella analisi le problematiche delle rime a fronte delle soluzioni originali, la valutazione delle “parole ‘coppia’ a rilievo dei concetti portanti”. I suggerimenti di alternative, delle varianti in diversi traduttori.

Ed ancora l’analisi delle “peculiarità della lingua che vanno in griglia perdute”. Affermazione importante questa (espressa da Giuliana Lucchini con estrema chiarezza e coscienza), che conferma la complessiva intraducibilità (oltre che per la forma anche per i contenuti) della poesia in transito (rischioso d’ostacoli) dalla lingua originale - superfluo dirlo ancora una volta, la sola autentica per forme, appunto, e sensi. Periglio indubbiamente assai minore per la prosa (purchè non sia prosa poetica, o estremamente sperimentale, o affidata al plurilinguismo e al flusso di coscienza: ciò che vale per Joyce e Gadda, per esempio).

È questa situazione che ci fa optare per il concetto di ricreazione rispetto a quello di
traduzione. Ciò equivale ad un viaggio, a un trasferimento pregno di incognite.
Tuttavia il fascino sta proprio in queste ambigue incognite, questi ostacoli insuperabili ma aggirabili tramite (talvolta squisite) inventive, innovative parafrasi.

Leggiamo il testo di Giuliana Lucchini, meglio, per dirla alla Sanesi, di Shakespeare-Lucchini che, soprattutto nel rispetto della griglia delle rime, tanto abilmente si avvicina, in… avventurosa lontananza, all’originale:

Non il marmo, né di principi i monumenti / Aurei sopravvivranno alla potente rima / Ma tu brillerai, più splendente in questi accenti / Che in pietra in incuria, il Tempo laido la inquina. / Se devastante guerra statue atterrerà, / E orde scalzeranno opere di muratura, / Né Marte di spada né incendio brucerà / Il vivo segno di te a memoria futura. / Contro morte e tutte le obliose avversità / Procederai, tua lode trova spazio infine / Negli occhi ancor di tutta la posterità / Che porta questo mondo a destinata fine.
Così fino al giudizio, ché risorgerai, / Vivi in questo, e in occhi d’amanti abiterai.

La soluzione complessiva appare pregevole, tuttavia solamente per stare all’ultimo verso, risulta ovviamente irripetibile la sonorità seppur concisa di quel … dwell in lovers’ eyes. E anche l’immagine non può darsi con gli stessi presumibili, immaginabili sott’intesi, con le stesse ambiguità: abitare (nel rispetto della rima ricreata) è prammatico, quotidiano, logistico; potrebbe valere invece essere, o stare, o vivere o trovar spazio (senso già preannunciato) in un luogo, il Luogo, quello della poesia, indescrivibile, innominabile, introvabile se non fuori dal Tempo. Un Non-luogo.

Ricreare ha un senso inventivo ed epifanico infine originario: nasce una nuova poesia, un novella poetica.

Che senso può avere invece tradurre secondo tradizione ed uso? Possiamo forse giustificare il titolo di questa non esaustiva breve nota: il gioco della traduzione. Si tratta di un gioco intrigante e, lo abbiamo visto, insieme rischioso per il traduttore. E, altrettanto, con il testo a fronte, per il lettore. Un gioco archeologico che ci fa scoprire solamente alcuni mondi nascosti dell’infinitezza del testo poetico originario. La poesia, per sua natura primigenia, assolutamente inutile, perde molto di sé, ma pur tuttavia ci offre, con la traduzione tradizionale, una utilità, se vogliamo didattica, memoriale, comunque sapienziale, ancorché talvolta, se il traduttore è pure un poeta, piacevole. La ricreazione – che qui abbiamo visto con raffinatezza sfiorata, per esempio, da Roberto Sanesi e da Giuliana Lucchini – riprende l’originale come un tema musicale non solo rivisitato, bensì fatto fiorire da un seme antico. La musica ci fornisce infinite prove in proposito. Possiamo ricordarne una, sublime, fra le tante: il Requiem tedesco di Brahms, dal tema di una cantata di Bach.
*
GIO FERRI

venerdì 3 maggio 2013

NOTIZIA = PREMIO MONTALVO

PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE “JUAN MONTALVO”
Tra i 30 finalisti estratto anche un viaggio in Ecuador

Il Consolato Generale dell’Ecuador a Milano e il Centro Ecuadoriano di Arte e Cultura a Milano, in collaborazione con i Dipartimenti di Lingue e Letterature Straniere e di Scienze della Mediazione Linguistica e di Studi Culturali dell’Università degli Studi di Milano. Rinnovano l’appuntamento con la cultura, bandendo il Premio Letterario Internazionale “Juan Montalvo”. Un evento culturale giunto alla sua terza edizione e che quest’anno è dedicato alla figura di Montalvo, prestigioso esponente della letteratura ecuadoriana dell’800.

Il tema di questa edizione è: storie, geografie, paesaggi, migranti, salvaguardia del medio ambiente. Tre le sezioni previste: “A” Poesia, “B” Racconto, “C” Fotografia. Tre anche le giurie, composte da nomi illustri della cultura italiana e internazionale.

Poesia: Gianni Turchetta (Presidente), Vivian Lamarque, Ninnj di Stefano Busà, Maurizio Cucchi, Franco Loi, Davide Rondoni, Roberto Malini, Corrado Calabrò, Alessandro Quasimodo.
Racconto: Emilia Perassi (Presidente), Sveva Casati Modignani, Nicoletta Vallorani, Maria Vittoria Calvi, Gianni Vattimo, Haidar Hafez, Don Alessandro Vavassori, Adrián Bravi.
Fotografia: Maria Jijón (Presidente), Lorry Salcedo Mitrani, Marco Carraro, Giampiero Piretto, Enrique Sepúlveda, Andrea Dynners.

La partecipazione al premio è gratuita e tutte le indicazioni per iscriversi e inviare la propria opera sono reperibili sul sito www.integrazioneculturale.com. I lavori vanno inviati entro il 31 maggio 2013.
Oltre alla vittoria del premio, anche un sorteggio che regalerà, ad un fortunato tra loro, un viaggio di sette giorni in Ecuador con la possibilità di visitare il famoso Parco Nazionale Yasuni, vero paradiso della biodiversità.
La cerimonia di premiazione avrà luogo a Milano il 22 novembre 2013

Info www.integrazioneculturale.com ---- premioletterarioga@hotmail.com

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIULIANA LUCCHINI

GIULIANA LUCCHINI: "NON MORIRE MAI" LC Poesia, 2012
Il titolo, "Non morire mai", è un’esortazione al sé, ma poi anche (p. 7) ai visi visti e agli sguardi incontrati, il che potrebbe essere lo stesso, a dire che il viso, siddetto in quanto la persona vi si dà a vedere immettendosi nell’essere, e lo sguardo, che non solo perciò è il portatore dello stesso essere , sono l’uno e l’altro e l’uno nell’altro i luoghi così della morte come della non morte. Si veda come qui già si compia un’operazione di poesia, che però non è ancora quella rivitalizzante, o quella che ci eterna, com’è intimata nel titolo; trattasi di un processo che per sua natura deve compiersi nelle cellule, e per ora queste restano fuori di riga, non sono ancora visitate e trapunte a che si orientino a vita e a rifiuto di morte.
Il processo simile sembra che possa attivarsi nell’esergo luziano di pag. 9, pagina che in base al titolo dovrebbe essere una ianua invocationis, ma per ciò che segue è piuttosto una porta Inferi, perché oltre essa si trovano passi verso buio ed ombra, a partire dalla sovrapposizione di tre distinte figure, ciascuna con le sue caratteristiche entitarie: la sera nebulosa e perciò avviata a buio, che è il suo modo d’essere, la Vergine con la sua santità statuaria, e la donna, innominata na che s’indovina da tratti di eccentricità vestiaria (pag. 11), e non solo. È la sera che, avvolta in veli trasparenti, in piedi fra ceri offre aria di grazia e sulle pie mani porge ai supplicanti il frutto della fede ardente (“bacche di fiamma”): è una santificazione del sé questa della sera, che si muta in Vergine Maria, schiaccia sotto i piedi il male rappresentato dal serpente e, intorno, come supplici, s’indovinano donne, che ora la Vergine impersona come detentrici di purezza e di amore, che però dilania a colpi d’ascia, come a cancellare quell’immagine nella quale il mondo ha sempre immobilizzato la donna e che ha sempre violato: è dunque una storia di donna che procede da luce ad ombra a buio, da che pareva da buio a luce. Ché tutta la vita, in specie della donna, sembra essere una fuga da indifferenza e anonimato: «siamo rondini in fuga», dice la Lucchini in una lassa in cui si performa un levarsi in volo, anche lì a partire dall’ombra, verso un cielo che lei stessa, la volante, viene istoriando di luce in un intento di personale sublimazione, e invece poi finisce col trovarsi chiusa in una corona di fuoco, anziché insignita di una corona di stelle, come la Beata.
Tanto vale accoglierla, la sera, come ospite gradita. È a partire infatti dalla sera che si intravede l’eternità, «quando batte l’angelus il ponente». Che poi è tutta una storia levantesi verso l’amore, che però finisce sempre ad essere niente altro che amore di carne, «dove si esalta infine il corpo/ del non sapere». Se si arriva in alto è per piangere, che in alto è «il nido delle lacrime». Le palpebre sono «fatte d’acqua» (lacrimale), finché si chiudono per sempre.
La sommità stellare te la puoi dipingere in camera, aiutando la fantasia coi miti antichi, così luminosi. Deve essere in rapporto a questo che un lui, con un mantello di stelle, si gettò nel fiume e le stelle si spensero in tutta la città, da doverla poi ridisegnare d’accapo, come sulla pietra di un’arca dopo il diluvio. Su quella pietra, come su quella di una tomba, la donna prega la sera di scrivere il suo nome, vale a dire di imprimerla nel nous, come costituita di quelle stesse componenti che hanno sempre segnato il cammino della sua esistenza: letizia, spavento, dolore.
Così la preghiera è esaudita e si chiude la Porta Inferi. Si chiude dietro di noi, che siamo dentro, in interiore homine, e perciò da qui in poi si inalberano Interni. Il fuori è cancellato, non ne resta che poco di dentro, un cartello avverte avverte che personaggi e fatti accaduti in quel fuori, sono solo assunti a tecnemi onde attivare la poesia. E il primo di questi Interni, benché nella sua delicatezza sia dedicato ad una ‘Carolina’, in paronomasia fa intravedere un Caronte «nella sua barca bianca attaccata al molo», all’inizio e alla fine, come una minaccia, né vale che il colore bianco della barca, sulla scorta del dantesco «un vecchio bianco per antico pelo», richiami con tanta evidenza la testa canuta di «Caron dimonio con occhi di bragia», che immette «nelle tenebre eterne in caldo e in gelo. Con il che si spalanca uno spettacolo di burrasca, tutto vi precipita, soprattutto una donna, con la sua bambina, tappandosi le orecchie per non udire l’urlo di lui, ché vi precipita anche un lui. Di tagliente ironia risuona l’incipit del Decalogo, «Io sono il Signore Dio tuo, non avrai altro Dio fuori di me». A questo punto, la citazione da un rondeau di Guillaume de Machaut (1300-77), «Ma fin est mon commencement, et mon commencement ma fin», tirandovi dentro l’allusione alla ripresa che ne fece l’Eliot («In my beginning is my end» Four Quartets, East Coker, I, 1, 14), porta avanti d’un buon grado l’arrembaggio sarcastico. Mentre infatti il de Machaut annota, con reverenza di fedele, che già nel momento della sua creazione il Creatore aveva inscritto nella creatura il suo destino di morte, l’Eliot precisa che ciò discende, non da un disegno creativo, ma per pura conseguenza logica dal fatto che

Time present and time past
Are both perhaps present in time future
And time future contained in time past.
(Ivi, Burnt Norton, I, 1-3).

Infatti, se il presente ed il passato, dove si trova il suo inizio, sono compresi nel futuro, dove si trova la sua fine, la sola conclusione possibile è che principio e fine coincidano. Nella logica dell’esistere, non si dà inizio che non includa una fine, anche perché, e per altro verso, inizia solo ciò che è destinato a finire e finisce solo ciò che ha avuto un inizio.
E poi la poesia fa una sua mossa, che tu non ti aspetti, come di danza che esca di regola così per capriccio o golio di stranezza:
Così da lontano veloce
ti sei fermata qui, musica,
con la luce
che ti stende prima una lontananza, e poi la cancella con la parola “veloce”, perché si stava parlando di fine, e c’è qualcosa che finisce, si ferma, che cosa?, la musica si ferma, la musica della vita, ed ecco qui, si viene a sapere che la vita è una musica in viaggio, e qui si ferma, e quando si va a capo ci si accorge che quella musica era con la luce, ma l’accapo è uno stacco netto come un taglio, tanto che taglia via anche il rapporto di comitanza, sostituendolo con quello di identità, e la poesia crea così una entità nuova, la musica-luce, la vita come musica-luce, una musica che si presenta sotto la specie di luce con tutti i suoi “colori sfaccettati”, quasi un “caleidoscopio celeste”, o una luce che ha esiti musicali... che esiti?... mah!...vallo a chiedere agli amanti, che muoiono e rivivono l’uno per l’altro e l’uno nell’altro, o alla puerpera che si riversa tutta nello sguardo al suo bambino, fin lì avvertito solo come un pulsare di amore nel suo ventre, e adesso eccolo lì davanti, nei suoi occhi... o vallo a chiedere all’artista appena libratosi nella sua creazione... Di queste alchimie di li a poco altre ne sgranella giù a cascata la poesia, per es. applicando a fare oro tecnemi fonologici con parole in cui tutta la portanza semantica finisce consumata: un raro caso in cui si assolutizza la funzione poetica quale operatività, e l’oro che ne risulta poi... che oro... quale... è la bellezza l’oro, la bellezza dell’amato, la goduria celeste che l’amante sa trarre dalla vita, quale acqua salvifica, dove s’identifica il divino della nostra terrestrità.
Qui si adombra l’idea che l’intimazione del titolo fosse diretta all’amante, ché si susseguono composizioni ove la poesia celebra il punto sommo del rito di Eros, il divino Eros ove il se-stesso e il tutto viene a significarsi. Infatti si continua l’assolutizzazione del poièin, con esiti altissimi, in cui la poeta spende tutta se medesima e soltanto se medesima, vale a dire l’universo che è in lei, con il quale si depone tutta nell’amante. E di lì ne contempla l’andare dalla “motivazione instabile”, “il tappeto volante dei suoi pensieri”, “la sua animula in moto”.
Che l’amore sia totalizzante forza creatrice si performa in modo specifico a pag. 28, nella stupenda preghiera per i figli, che sembra rivolta all’amante e al Creatore insieme, onde per grazia di poesia le due figure finiscono per coincidere (Fecondazione assistita). Ne risulta una figura sola. Sembra che si parli d’essa in Terra. E vedete con che miracolo di poesia essa venga ad essere, soprattutto nel distico finale:
Nel petto colta come alabarda
l’apparizione.
Nel petto. Nello spazio del cuore. Colta. Come un frutto maturo. La vita. Ma col dolore che costano i parti di vita. Da somigliare a quelli della morte. Perché la vita è dalla morte e la morte dalla vita, a far meravigliosa l’avventura dell’esistere. Così che brilli in qualche mente. D’un qualche Uno. Così stabilmente da riempire l’eternità.
In siffatto scenario, si rappresenta poi, in Quête, l’uscita di scena come alla ricerca di qualcosa, una quête appunto, dentro il sé che è un mare, e vedete con quanta maestria creativa, onde la scomparsa è rappresentata da una barca di pescatore “che non c’è più”. Era lì a pescare e adesso non c’è più. Scomparsa. E il mare resta vuoto d’acqua e di pesci, come una scena di teatro ove cali il sipario.
Ma che fine ha fatto la forza vitalizzante, o rivitalizzante, di questa poesia, quella forza che ci eterna? Finora è sembrato che fosse, più che altro, una discesa en abîme, e tuttavia se si va a vedere, in quel che pareva una descensio, forse s’intravede almeno uno sguardo in su, dietro il quale altri occhi sono spinti a guardare in su. Come sotto quelle stelle di Astro/ labio dipinte nella stanza, quell’Alzati in volo, mio cigno, e la stanza scompare con la terra e tutto, e già il cielo tocca i suoi capelli, e poi s’apre a Via Lattea, e se, lui gettandosi nel fiume, tutte le stelle si spengono sulla città, è perché lui le ha raggiunte, vi si è assimilato, tutto il suo umano consumando via via nell’ascesa. Ecco dunque che cosa la sera diviene - «Pàrlaci allora/ sera» - un attingimento d’infinito, un infinito che parla, ed è il solo in grado di raccontare le storie, tutte le storie terrestri, perché serba un’impronta di terrestre, come una stigmate che ne lo solleva e lo fa divino dotandolo di veggenza.
Questa forza agisce anche in forma d’una ninna-nanna esistenziale che scioglie i contrasti e le ansie arrivistiche e adagia nell’essere con la tranquilla sicurezza che «lì si ritrovano insieme riconciliati/ l’andare e il restare// in reciproco abbandono». E intanto tu «abbassi a terra il peso da portare» e, incrociando gesti e solitudini, tutto si conclude in quella che è la più riposante culla esistenziale, l’amore, che c’immette gli uni negli altri, e che qui s’interpreta, con un verso lungo simile all’apertura di due braccia e affrancato da cure poetologiche, insomma nella stessa lieta quietudine che si vive nell’ «intorno della tavola dove eravamo tutti quanti insieme».
Poi ci sono formule dal potere magico da usare alla bisogna. Per es., a far risorgere i volti dimenticati («volti di tutte le tombe del petto»). Al suo risuono si aprono in noi le tombe in cui abbiamo sepolto tutti volti che abbiamo incontrato nella vita, e che ora risorgono e si riaprono al sorriso. Molte ne occorrerebbero di queste formule, ma la civiltà non ha ancora toccato questo culmine di saggezza e, come in un’eterna prigione, rinchiude l’immortalità in una tonda cornice sui marmi delle tombe, dove si estingue anche il volto dell’Altissimo, padrone dell’eternità, e a monito di tale sempiterna esclusione, c’è sempre un morto che di sera ti scaldano in TV.
Siano qui appena lampeggiate altre formule consimili: «nascerà da te/ il futuro» (p. 50), ove la poesia colloca in ogni io la sorgente del futuro, e s’intende con quale segno di potenza e, insieme, di terribile carico di responsabilità; «la dama... che scrive poesie/ sulle bare» (p. 51), con l’idea – per altro posta, come sembra, a base di questo libro – che la poesia possa vincere la morte; «lui la lasciò./ Per amarla.» (p. 54), perché – la poesia sussurra – solo restando lei «per sempre in quella luce», immune dalla violenza del tempo mondano, egli poteva continuare ad amarla.
E vi sono anche scongiuri palindromi, per così dire, come l’Assente che «di sera/ serra tutte le porte e si compiace/ di esserci, tra libri antichi sugli scaffali,/ le candele accese»... vedete... è un vero e proprio rito con buio e candele e libri antichi, palindromo perché da un Assente che si compiace d’esserci, viene evocato il suo reciproco, un Essente. Poi si salta alla pag. 86 e, nel comparto Congedi, si trova un palindromo che è una poesia intera, che va nel nulla e dà luogo a un tutto, e dal silenzio trae qualcosa come «la tua voce».
Finiamo questa rassegna di centri d’energia risorgiva, segnalando appena Io sono, titolo che assomiglia ad altri di chi scrive, ancora inediti, e che, manco a dirlo, sono raccolti sotto il titolo complessivo di Riti ontologici.
E con ciò basti. Si chiuda con l’invito a leggere. Un libro la cui macro-operazione di poesia traluce bene da un esergo di Goethe, che invita a godere della vita “prima che il Lethe fatale bagni/ il tuo piede fugace”.
DOMENICO ALVINO

mercoledì 1 maggio 2013

SEGNALAZIONE VOLUMI = NINNJ DI STEFANO BUSA'

NINNJ DI STEFANO BUSA' : “Eros e la nudità” Ed. Tracce – 2013 – pagg. 95 - € 15,00 –
La ricchezza di metafore , che affollano deliziosamente questa nuova silloge , è il sussurro colorato che trasforma la poesia in un canto sempre più musicale e penetrante.
Ninnj Di Stefano Busà non è nuova nell’agone contemporaneo , e rappresenta senza alcun dubbio una delle figura più impegnate sia nella ricerca della scrittura , che la distingue per oculatezza e poliedricità , sia nel campo culturale sociale , per la sua dedizione quotidiana alla diffusione della poesia stessa.
Le tre prefazioni che aprono il volume, a firma di Walter Mauro , Plinio Perilli e Arturo Sachwarz , avviano alla lettura in maniera pacata e pregnante, dotate come sono di quel sottile impegno critico , che scava , con intelligenza ed emozione frenata , per evidenziare i pregi di un lavoro condotto in maniera estremamente equilibrato.
Eros ripete in queste pagine ogni suo discreto ed indiscreto piacimento , sfruttando l’improvvisazione della sfida , o la pungente intensità del desiderio , per divenire luce abbagliante e accattivante:
“Fomentare la luce, immaginarla
tra le pieghe del corpo: scivolarvi dentro,
intonarvi una canzone mai indossata,
(udita solo in sogno):
un battere d’ali in un remoto altrove,
oltre i giorni quieti della nudità,
come se fosse l’ultima volta.”
E la nudità, che a volte lo stesso Eros richiede impertinentemente, si presenta cauta e ingenua, per prestarsi ad una verità conosciuta e mai reinventata , per rincorrere come un lieve pensiero gli anfratti che le pieghe della pelle riescono a comporre.
“ S’intreccia ora all’azzardo
quel vento che odorava di cielo,
come un suono dolcissimo che ti abbandona,
un lembo di carne che si ripiega
nel sonno e coglie il sensuale desiderio
dei corpi.”
Gli elementi schietti che si rapportano all’umano sentire , intenso e a volte reso mitico perché soggiogato dalla memoria , sono desideri non immaginari o virtuali ma reali e frenetici che si susseguono tra i versi più trasparenti e impegnati.
ANTONIO SPAGNUOLO -