giovedì 23 settembre 2021

INTERVENTO = SCIASCIA


***La Sicilia nel cuore di Sciascia***
Che la scrittura sia un modo liberatorio e indipendente, per proiettare, indagare, capire, credo che lo comprendiamo tutti.
Eppure, qualcuno ha pensato che Leonardo Sciascia, più che amare la Sicilia, l’abbia denigrata agli occhi del mondo; che, per parlare così tante volte di determinate realtà, in fondo, doveva sentirsi attratto dal fascino esercitato dagli uomini d’onore e dalla loro pseudo-moralità.
Tutto ciò, pare il pensiero legittimo di chi non si è ancora posto il problema di cosa significhi essere siciliani e di come il siciliano medio coltivi in sé un certo orgoglio per le sue radici multietniche e per le tradizioni. Orgoglio che oserei definire nazionalista e che, per certi versi, risulta inattaccabile dall’esterno. Tuttavia, tale orgoglio diventa illegittimo e, a volte, strumentale, se si diparte da un frutto maturo e capace di indagare in sé e attorno a sé.
Diversa è, difatti, la chiave di lettura dell’opera Sciasciana, in quanto è impossibile non valutare che ogni siciliano onesto (e, quindi, anche Sciascia), seppure contesti fortemente certe logiche malate esistenti nell’ambiente, avverte, in fondo, di essere legato alle proprie radici ed al proprio vissuto su quest’Isola e, al tempo stesso, nutre un sentimento di abbandono ulteriormente accentuato dal potere mafioso. Ciò rende ogni abitante della Sicilia luce ed ombra, respiro e tragedia di un contesto difficile, in cui amore, odio, difficoltà esistenziali e ostentazioni di ricchezza si intrecciano e confondono la parola, sino a farla diventare un canto ora dolente, ora rabbioso.
Un canto asciutto che, certamente, traspare dall’opera dell’autore racalmutese e che si riallaccia perfettamente al vissuto di tutti gli isolani e, specialmente, dei perdenti dell’Isola. Si legge nella Notizia, le pagine introduttive di Occhio di capra (un libro che racchiude una folta sequenza di espressioni dialettali racalmutesi): “[…] La mia terra, la mia Sicilia non ha fiumi; e dal mare è lontana come fosse al centro di un continente”. Ed ecco che, in poche righe, lo scrittore ci induce alla sofferta conclusione a cui approda qualsiasi siciliano di intelligenza, che scruta e analizza le cose, dilatando il concetto di isola, sino a sentirsene costretto e, infine, ricondurlo a se stesso. Ma, proseguendo in codesta lettura, ecco che troviamo la nota dolce e quasi orgogliosa di Sciascia, riferita al suo paese natale: “[…] Isola nell’isola, come ogni paese siciliano di mare o di montagna, di desolata pianura o di amena collina, la mia terra, la mia Sicilia è Racalmuto, in provincia di Agrigento”. Paese questo, da cui lo scrittore, non si distaccherà mai completamente, perché ogni suo più piccolo pregio o difetto è profondamente radicato nel suo animo, così come sono radicati in lui i volti e i modi di essere della nostra gente. E, per capire ciò, basta notare come Sciascia fa parlare uno dei suoi personaggi in questo brevissimo brano de Gli zii di Sicilia: "Io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli…Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice."
Ancora, nella parte introduttiva di Occhio di capra, l’autore dice: “Si ama più tacere che parlare. E quasi che i lunghi silenzi davvero servano a fortificare il raro parlare, quando si parla si deve essere precisi, affilati, acuti ed arguti”.
In tal modo, riallacciandoci al concetto iniziale della scrittura come modo per proiettare, indagare, capire, notiamo, soprattutto nella parte finale dell’ultimo brano, che l’autore, più che il modo di essere dei concittadini, vuole rivelare al mondo il proprio modo, la propria capacità di tacere, di mettersi in disparte e di osservare. Non per nulla chi ha conosciuto l’autore siciliano lo ricorda come un uomo riservato e avaro di inutili parole. Dice di lui Lucio Zinna nell’articolo Quel tenue filo con Leonardo Sciascia, apparso nell’ottobre-dicembre dell’89 sul trimestrale di cultura Insieme nell’arte: Il mio rapporto con Leonardo è stato lungo ed intenso, ma fatto più di silenzi che di parole. Ci siamo incontrati poche volte, per lo più in occasione di qualche cerimonia letteraria palermitana, a cui lo scrittore partecipava, benché di rado. Io amavo allora andare in giro per la città, frequentare centri culturali e gallerie d’arte. Poi (anche sull’esempio di Sciascia) ho imparato a gestire il mio tempo con maggiore parsimonia […]. O vai in giro o scrivi. […] Una volta, a Montesilvano, conversando col poeta Mario Luzi, il poeta ebbe a dire; “Ricordiamoci che noi poeti dovremmo anche scrivere”. Pare proprio, come notano diversi studiosi, che il posto in cui si cresce tracci contorni indelebili sul carattere dell’individuo ed anche sul destino di un letterato. Infatti, conoscendo l’autore dell’articolo, credo che anche lui sia solito alimentare quei lunghi silenzi che servono, non solo ad allenare la mente, ma anche a fortificare il raro parlare. Per di più, la Racalmuto di Sciascia fa parte di quel triangolo geografico (che comprende sia la realtà del latifondo, che quella della zolfara e che va da Agrigento a Caltanissetta a Palermo), in cui Tomasi di Lampedusa, De Roberto, Pirandello, Brancati e altri hanno individuato un evidente malessere esistenziale. La Sicilia: una terra in cui, come scrisse Pirandello nel Berretto a sonagli, ognuno ha nella testa le sue corde: la seria, la civile, la pazza. A tale proposito Sciascia pubblica nel Settanta una raccolta di saggi, intitolati La corda pazza, come a sottolineare che è specialmente su questa che intende soffermarsi, cioè sulla potenza che può sprigionarsi dalla ragione e sulle contraddizioni dell’Isola, sul passato e sul presente da lui visitato con veemente ed accorata attenzione. “Una terra difficile da governare perché difficile da capire” sostiene lo scrittore in questo libro. Una terra che tuttavia, a mio avviso, nel suo bene innamora e plasma i suoi figli anche a quel male che ramifica dipendenze mafiose e costringe a vivere nell’incertezza del domani. Una terra, forse, per questo tagliata fuori, atollo sperduto per molti, isola nell’isola da cui, però, pare quasi impossibile liberare l’anima nell’indistruttibile, eterno alternarsi di realtà e ricordi. Tornano, così, alla mente alcune parole intrise d’amore per la Sicilia in una descrizione che Sciascia fa della campagna di contrada Noce a Racalmuto, ne Gli zii di Sicilia: "Tutta la campagna era […] silenziosa e splendente. […] Di frutti c’erano le mandorle con la scorza verde e aspra, dentro bianche come il latte […] e le prugne maggioline che allampavano la bocca, verdi ancora e agre."
Nondimeno, è specialmente con il suo riallacciare la memoria ai fatti ed ai misfatti vissuti e sentiti a Racalmuto (da lui convertito in Regalpetra) in Le parrocchie di Regalpetra lo scrittore intreccia il suo indissolubile legame col paese. Legame istintivo che mai escluderà dalla propria esistenza, come possiamo stabilire dal suo costante ritorno estivo e dalla sua capacità di trarre ispirazione per la scrittura proprio da quei particolari momenti. Difatti, questi rientri in contrada Noce hanno rappresentato per lui una sorta di lavacro spirituale in cui si ridestavano il cuore e la mente ed in cui ha scritto buona parte delle sue opere. Emerge da tale ricerca di pace e di silenzio il carattere schietto e di poche parole di un figlio della Trinacria apprezzato da molti e di cui ho voluto parlare in questo breve articolo, mettendo in evidenza quanto la Sicilia gli sia stata nel cuore. Leonardo Sciascia, un uomo di coraggio, uno scrittore che non ha scritto solo di mafia, ma del travaglio di un popolo e che, grazie al suo razionalismo e all’interesse per l’Illuminismo, al suo stile nettamente fondato sulla chiarezza e sulla semplicità espressiva, è stato tra i più interessanti del panorama letterario che va dagli anni Cinquanta, al 198sino a dopo la sua morte, avvenuta nel 1989. Un uomo che certamente ha lasciato un vuoto nel panorama culturale italiano e che ha saputo portare la sicilianità nel mondo grazie a quello che lui stesso è stato, scegliendo un percorso di vita che non si può sicuramente definire porto franco. Ma, probabilmente, solo a pochi di noi siciliani è stato dato avere un’esistenza, per così dire, porto franco, in quanto, sin dall’età della ragione, abbiamo sentito bisbigliare o strillare di mafia. Abbiamo imparato a convivere con essa e a scegliere se schierarci con essa o con lo stato, abbandonando a priori la speranza di una vita equa e realmente tranquilla. Forse, chi, come Sciascia, sente fortemente la propria sicilianità e prova a discostarsi dalla realtà dell’aggressione e della forza, non può fare altro che battere e ribattere sugli stessi temi, divenendo al tempo stesso un nichilista, nel costatare l’emarginazione sempre più evidente in cui si è catapultata la Sicilia grazie a questo stato di cose e la volontà politica di mantenere pressoché inalterato l’andamento di due Italie ben distinte tra loro: quella del nord e quella del sud. Forse, chi, dopo tanto vagare, ha chiaro in lui il gioco delle parti, non spera più in un reale mutamento di questa terra di luce e di miseria. Concludendo, voglio che sia lo scrittore a parlare a voi: Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di avere dato il senso di quanta lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. Mariolina LaMonica

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