SEGNALAZIONE VOLUMI = ANTONIO SPAGNUOLO
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Antonio Spagnuolo: "Futili arpeggi" - Ed. La valle del tempo 2024 - pag.120 - € 14,00
Ad introduzione della silloge Futili arpeggi, edita da la Valle del Tempo, l’autore Antonio Spagnuolo chiede e si chiede cosa mai sia la poesia. Le molteplici risposte ad un quesito tutt’altro che semplice finiscono col riassumersi nella definizione, che lo stesso Premio Nobel Eugenio Montale diede a Stoccolma “la poesia è principalmente musica, ritmo”, “per esprimere, per comunicare” esperienze, sentimenti, ma non solo: la poesia riesce, al pari di altre arti, a dare voce all’inespresso e all’inesprimibile. Partendo dal vissuto, la poesia sa guardare oltre le tangibili apparenze e, attraverso impalpabili trasparenze, viaggiare e far viaggiare al di là del tempo, in un lontano infinito, in cui il genio Leopardi trovava la vera sostanza della parola poetica.
Musica, ritmo, mistero dell’inesprimibile, l’indefinito di una lontananza, sono sicuramente elementi determinanti della poesia di Antonio Spagnuolo. In essa i caratteri di un ermetismo, non stagionale e datato, ma pregno di vive simbologie, emergono nell’essenzialità di parole nude, avulse da ogni retorica, spesso persino prive di elementi connettivi, figlie, verrebbe da dire, di una scogliosità, che ne costituisce una delle caratteristiche dominanti.
La stessa esistenzialità, che ogni tanto si incrocia con il messaggio civile (Fusioni di guerra), resta anch’essa una delle note fondamentali di un io, che vuole emergere, forte e struggente, dalle onde di un inconscio che rischierebbe altrimenti di sommergere il poeta, se non intervenissero sensazioni e ricordi, capaci di salvare, ungarettianamente, il poeta da un naufragio senza scampo.
Una poesia matura è questa, in cui gli anni giocano un ruolo non secondario; non di rado, infatti, ed è opportuno sottolinearlo, il poeta fa cenno a quell’autunno della vita, che, invece di oscurare, meglio delinea i contorni della realtà visibile e invisibile, quella dominata da Fantasmi, vissuta con la consapevolezza del tempo che fluisce inesorabile ma anche dell’eterno che, oltre il tangibile, consente soffici abbandoni: “Affondo nell’eterno ad occhi chiusi, / soffice abbandono per il corpo invecchiato” (Solfeggi).
I ricordi, i volti e i gesti, che riemergono dalla foto di un passato mai ingiallito e che del mistero della vita rappresentano i tratti più eloquenti per, come recita il poeta, “sentirsi noi immortali” (Tra foto e digitale), costituiscono il fil rouge nel tessuto delle parole in un cercare incessante tra luci e ombre, tra un passato, che imbriglia, perfino il dialogo amoroso, e un presente, colmo di assenze: “Si smorza la malia e non ci sei” (Furore).
Siamo così dinanzi a una poesia che vive anche i sentimenti forti, come il furore o lo struggimento “per quel tempo andato ormai distrutto” (Stralcio), con la consapevolezza del distacco, inevitabile nella legge inesorabile del tempo, e lo straniamento, che la creatività esige per una distanza necessaria dalla realtà.
Ma la finezza e l’eleganza di questa poesia sono tutte nella musicalità con cui le parole si rincorrono, in un gioco di allitterazioni, di assonanze e consonanze, che tessono arpeggi, ovviamente tutt’altro che futili, per la bellezza che sanno donare a un lettore, il quale, prima ancora di cogliere il senso riposto e nascosto in una treccia di simboli, rimane rapito proprio dal ritmo morbido e avvolgente, in cui il poeta stempera i colori delle sue sensazioni.
Mi piace terminare questo breve excursus tra le pagine di questa silloge, a conferma di quanto affermato, con le parole stesse del poeta, riportate nel bel saggio critico di Carlo Di Lieto: “Ed è così che la forma poetica, rincorrendo le figure che si affacciano al nostro sguardo misterioso, è stata per me sempre connessa a quella strettamente musicale, considerando la sillaba non solo come nesso ortografico ma anche come suono, un ritmo che si sviluppa in crescendo, per agganciare i profili che ritornano alla mente”.
Parole e figure si confermano in una fusione simbiotica, che non è solo forma ma aristotelicamente sostanza, proiettata ad attingere il suono, per creare un canto che provi a imprigionare il mistero dell’esistenza.
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Maria Gargotta
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