Poetrydream
venerdì 24 settembre 2021
giovedì 23 settembre 2021
INTERVENTO = SCIASCIA
***La Sicilia nel cuore di Sciascia***
Che la scrittura sia un modo liberatorio e indipendente, per proiettare, indagare, capire, credo che lo comprendiamo tutti.
Eppure, qualcuno ha pensato che Leonardo Sciascia, più che amare la Sicilia, l’abbia denigrata agli occhi del mondo; che, per parlare così tante volte di determinate realtà, in fondo, doveva sentirsi attratto dal fascino esercitato dagli uomini d’onore e dalla loro pseudo-moralità.
Tutto ciò, pare il pensiero legittimo di chi non si è ancora posto il problema di cosa significhi essere siciliani e di come il siciliano medio coltivi in sé un certo orgoglio per le sue radici multietniche e per le tradizioni. Orgoglio che oserei definire nazionalista e che, per certi versi, risulta inattaccabile dall’esterno. Tuttavia, tale orgoglio diventa illegittimo e, a volte, strumentale, se si diparte da un frutto maturo e capace di indagare in sé e attorno a sé.
Diversa è, difatti, la chiave di lettura dell’opera Sciasciana, in quanto è impossibile non valutare che ogni siciliano onesto (e, quindi, anche Sciascia), seppure contesti fortemente certe logiche malate esistenti nell’ambiente, avverte, in fondo, di essere legato alle proprie radici ed al proprio vissuto su quest’Isola e, al tempo stesso, nutre un sentimento di abbandono ulteriormente accentuato dal potere mafioso. Ciò rende ogni abitante della Sicilia luce ed ombra, respiro e tragedia di un contesto difficile, in cui amore, odio, difficoltà esistenziali e ostentazioni di ricchezza si intrecciano e confondono la parola, sino a farla diventare un canto ora dolente, ora rabbioso.
Un canto asciutto che, certamente, traspare dall’opera dell’autore racalmutese e che si riallaccia perfettamente al vissuto di tutti gli isolani e, specialmente, dei perdenti dell’Isola. Si legge nella Notizia, le pagine introduttive di Occhio di capra (un libro che racchiude una folta sequenza di espressioni dialettali racalmutesi): “[…] La mia terra, la mia Sicilia non ha fiumi; e dal mare è lontana come fosse al centro di un continente”. Ed ecco che, in poche righe, lo scrittore ci induce alla sofferta conclusione a cui approda qualsiasi siciliano di intelligenza, che scruta e analizza le cose, dilatando il concetto di isola, sino a sentirsene costretto e, infine, ricondurlo a se stesso. Ma, proseguendo in codesta lettura, ecco che troviamo la nota dolce e quasi orgogliosa di Sciascia, riferita al suo paese natale: “[…] Isola nell’isola, come ogni paese siciliano di mare o di montagna, di desolata pianura o di amena collina, la mia terra, la mia Sicilia è Racalmuto, in provincia di Agrigento”. Paese questo, da cui lo scrittore, non si distaccherà mai completamente, perché ogni suo più piccolo pregio o difetto è profondamente radicato nel suo animo, così come sono radicati in lui i volti e i modi di essere della nostra gente. E, per capire ciò, basta notare come Sciascia fa parlare uno dei suoi personaggi in questo brevissimo brano de Gli zii di Sicilia: "Io credo nei siciliani che parlano poco, nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che ci salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli…Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice."
Ancora, nella parte introduttiva di Occhio di capra, l’autore dice: “Si ama più tacere che parlare. E quasi che i lunghi silenzi davvero servano a fortificare il raro parlare, quando si parla si deve essere precisi, affilati, acuti ed arguti”.
In tal modo, riallacciandoci al concetto iniziale della scrittura come modo per proiettare, indagare, capire, notiamo, soprattutto nella parte finale dell’ultimo brano, che l’autore, più che il modo di essere dei concittadini, vuole rivelare al mondo il proprio modo, la propria capacità di tacere, di mettersi in disparte e di osservare. Non per nulla chi ha conosciuto l’autore siciliano lo ricorda come un uomo riservato e avaro di inutili parole. Dice di lui Lucio Zinna nell’articolo Quel tenue filo con Leonardo Sciascia, apparso nell’ottobre-dicembre dell’89 sul trimestrale di cultura Insieme nell’arte: Il mio rapporto con Leonardo è stato lungo ed intenso, ma fatto più di silenzi che di parole. Ci siamo incontrati poche volte, per lo più in occasione di qualche cerimonia letteraria palermitana, a cui lo scrittore partecipava, benché di rado. Io amavo allora andare in giro per la città, frequentare centri culturali e gallerie d’arte. Poi (anche sull’esempio di Sciascia) ho imparato a gestire il mio tempo con maggiore parsimonia […]. O vai in giro o scrivi. […] Una volta, a Montesilvano, conversando col poeta Mario Luzi, il poeta ebbe a dire; “Ricordiamoci che noi poeti dovremmo anche scrivere”. Pare proprio, come notano diversi studiosi, che il posto in cui si cresce tracci contorni indelebili sul carattere dell’individuo ed anche sul destino di un letterato. Infatti, conoscendo l’autore dell’articolo, credo che anche lui sia solito alimentare quei lunghi silenzi che servono, non solo ad allenare la mente, ma anche a fortificare il raro parlare. Per di più, la Racalmuto di Sciascia fa parte di quel triangolo geografico (che comprende sia la realtà del latifondo, che quella della zolfara e che va da Agrigento a Caltanissetta a Palermo), in cui Tomasi di Lampedusa, De Roberto, Pirandello, Brancati e altri hanno individuato un evidente malessere esistenziale. La Sicilia: una terra in cui, come scrisse Pirandello nel Berretto a sonagli, ognuno ha nella testa le sue corde: la seria, la civile, la pazza. A tale proposito Sciascia pubblica nel Settanta una raccolta di saggi, intitolati La corda pazza, come a sottolineare che è specialmente su questa che intende soffermarsi, cioè sulla potenza che può sprigionarsi dalla ragione e sulle contraddizioni dell’Isola, sul passato e sul presente da lui visitato con veemente ed accorata attenzione. “Una terra difficile da governare perché difficile da capire” sostiene lo scrittore in questo libro. Una terra che tuttavia, a mio avviso, nel suo bene innamora e plasma i suoi figli anche a quel male che ramifica dipendenze mafiose e costringe a vivere nell’incertezza del domani. Una terra, forse, per questo tagliata fuori, atollo sperduto per molti, isola nell’isola da cui, però, pare quasi impossibile liberare l’anima nell’indistruttibile, eterno alternarsi di realtà e ricordi. Tornano, così, alla mente alcune parole intrise d’amore per la Sicilia in una descrizione che Sciascia fa della campagna di contrada Noce a Racalmuto, ne Gli zii di Sicilia: "Tutta la campagna era […] silenziosa e splendente. […] Di frutti c’erano le mandorle con la scorza verde e aspra, dentro bianche come il latte […] e le prugne maggioline che allampavano la bocca, verdi ancora e agre."
Nondimeno, è specialmente con il suo riallacciare la memoria ai fatti ed ai misfatti vissuti e sentiti a Racalmuto (da lui convertito in Regalpetra) in Le parrocchie di Regalpetra lo scrittore intreccia il suo indissolubile legame col paese. Legame istintivo che mai escluderà dalla propria esistenza, come possiamo stabilire dal suo costante ritorno estivo e dalla sua capacità di trarre ispirazione per la scrittura proprio da quei particolari momenti. Difatti, questi rientri in contrada Noce hanno rappresentato per lui una sorta di lavacro spirituale in cui si ridestavano il cuore e la mente ed in cui ha scritto buona parte delle sue opere. Emerge da tale ricerca di pace e di silenzio il carattere schietto e di poche parole di un figlio della Trinacria apprezzato da molti e di cui ho voluto parlare in questo breve articolo, mettendo in evidenza quanto la Sicilia gli sia stata nel cuore. Leonardo Sciascia, un uomo di coraggio, uno scrittore che non ha scritto solo di mafia, ma del travaglio di un popolo e che, grazie al suo razionalismo e all’interesse per l’Illuminismo, al suo stile nettamente fondato sulla chiarezza e sulla semplicità espressiva, è stato tra i più interessanti del panorama letterario che va dagli anni Cinquanta, al 198sino a dopo la sua morte, avvenuta nel 1989. Un uomo che certamente ha lasciato un vuoto nel panorama culturale italiano e che ha saputo portare la sicilianità nel mondo grazie a quello che lui stesso è stato, scegliendo un percorso di vita che non si può sicuramente definire porto franco. Ma, probabilmente, solo a pochi di noi siciliani è stato dato avere un’esistenza, per così dire, porto franco, in quanto, sin dall’età della ragione, abbiamo sentito bisbigliare o strillare di mafia. Abbiamo imparato a convivere con essa e a scegliere se schierarci con essa o con lo stato, abbandonando a priori la speranza di una vita equa e realmente tranquilla. Forse, chi, come Sciascia, sente fortemente la propria sicilianità e prova a discostarsi dalla realtà dell’aggressione e della forza, non può fare altro che battere e ribattere sugli stessi temi, divenendo al tempo stesso un nichilista, nel costatare l’emarginazione sempre più evidente in cui si è catapultata la Sicilia grazie a questo stato di cose e la volontà politica di mantenere pressoché inalterato l’andamento di due Italie ben distinte tra loro: quella del nord e quella del sud. Forse, chi, dopo tanto vagare, ha chiaro in lui il gioco delle parti, non spera più in un reale mutamento di questa terra di luce e di miseria. Concludendo, voglio che sia lo scrittore a parlare a voi: Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di avere dato il senso di quanta lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. Mariolina LaMonica
mercoledì 22 settembre 2021
SEGNALAZIONE VOLUMI = ROCCO SALERNO
***Una originale silloge poetica di Rocco Salerno: "DOLCE, MISTERIOSA ESSENZA DELL’ UNIVERSO"
La memoria di Bambolo, “creatura celestiale”, anima questi versi-palpiti di cui Rocco Salerno – illustre poeta, saggista e critico – alimenta la deliziosa silloge Dolce, misteriosa essenza dell’universo (Macabor, 2021). Alla dedica (“A Rita Agresti e a quanti amano gli animali”) fanno significativo riscontro le frasi offerte in esergo: Paolo VI ci annuncia che “un giorno vedremo di nuovo i nostri animali nell’eternità di Cristo”; Brina Mauer (nom de plume dell’acuta prefatrice Claudia Manuela Turco) deplora che “hanno strappato l’anima alla parola animale” quelli che non amano nemmeno l’uomo; Dostoevskij esorta ad amare gli animali, “a cui “Dio ha donato i rudimenti del pensiero e una gioia imperturbata”, di cui non dobbiamo privarli, così come l’uomo non deve vantarsi “di superiorità nei confronti degli animali”.
L’amore di Salerno per Bambolo si rivela suggestivamente nel compiaciuto stilema kerigmatico che apre la raccolta: “Il gatto claudicante - se randagio o padronale - / salvato dai malanni / chiamato Bambolo ha una casa”. Mirabili per delicatezza, tenerezza e ammirata dipintura sono i versi che seguono: Viene di sottecchi, / il cibo attende, / striscia i piedi, / si gira come un piumino / innevando il cortile / su cui pure ha lasciato / qualche avanzo / della sua grazia. // Si ritrae, timoroso ancora / di frasi accarezzare / dalla ferinità degli umani . // Poi, senza farsi notare, / scompare, / con passo felpato / e svagato / come il suo indifeso sguardo”. Una descrizione che si continua nel secondo componimento (Occhi fosforescenti) ove Bambolo, “statua greca”, accoccolato alla porta attende il “pesce succulento”, leccandosi i baffi, guardando incantato come se volesse “parlare, ringraziare”, per dileguarsi con i suoi “occhi fosforescenti”.
Risaltano, nei versi successivi, i segni della mutevole condotta di Bambolo, del suo apparire e sparire “come un gioco tormentoso”, con il suo sgranare gli occhi come per ringraziare con la parola tacita, lo sguardo silenzioso, porgendo al poeta la zampetta con sinuosa dolcezza. Il piatto d’acqua su cui si china diviene “la purezza”, la sua anima lo sguardo della sua bontà, e Rocco si perde nei suoi occhi : “unico sogno / di questa vita / tempestosa” e lo prega di non allontanarsi perdendosi “nelle quotidiane meschinità”. Di verso in verso, mentre si infittiscono l’ intensità dell’affetto e l’impegno nella protezione di quella creatura indifesa, si costruisce l’ immagine piena della creatura felina come icona perfetta della Bellezza celestiale, “musica eterna” e “melodioso silenzio”, riflesso di “un’isola divina”, armonia che invade le iridi ”come un’infinita atarassia”. E i vari gesti, movimenti, riti quotidiani di Bambolo, osservati dal poeta, divengono altrettante tappe di un itinerario di assimilazione della sensibilità del poeta a quella del felino: “Ormai siamo / la stessa anima / incarnata, / lo stesso fiato…”. Una miriade di immagini, di metafore, di variazioni sul tema del rapporto con il gatto nella chiave della sua dimensione celestiale, che si dispiegano nel numero vario e duttile del verso libero e nella loro cangiante e geniale mobilità, nutrita di morbidezze melodiche come di aspre dissonanze, esorcizzano ogni rischio di monotonia.
Il pensiero corre ai “sereni animali / che avvicinano a Dio” di Saba, alla sua “capra dal viso semita” in cui sente “querelarsi ogni altro male, / ogni altra vita” ; a “Cirì belle”, l’uccellino conforto alla solitudine di Albino Pierro e in genere al “palpito umano delle bestie” da lui cantato; al “compito più alto di un uomo” additato da Emile Zola nel “sottrarre gli animali alla crudeltà”; e anche all’istintiva naturalezza con cui ogni essere diverso dall’uomo esprime la propria natura (correre, volare, nuotare) di cui parla nella Naturalis Historia Plinio il Vecchio (che ad essa contrappone il nihil scire dell’uomo, che invece ha bisogno di insegnamenti per poter parlare, camminare, mangiare). E il monito dostoevskijano all’uomo a non vantare la propria superiorità sugli animali che in filigrana pervade il dipanarsi del tessuto lirico mi fa pensare (anche senza doverne accogliere tutte le conclusioni) alla corrente di pensiero del postumano contemporaneo (massime al bel saggio di Leonardo Caffo Fragile umanità) che contesta la tesi della superiorità dell’uomo sulle altre forme di vita (lo specismo) e prefigura l’avvento di una nuova specie umana, fatta di individui dotati di una sensibilità diversa e un diverso approccio al mondo in cui vivono e agli altri esseri viventi, umani e animali, considerati parte di una stessa sostanza (“…diventiamo un immenso noi con il mondo vivente”). Riferimenti, questi, che, se valgono a valorizzare e nobilitare la sensibilità di Rocco Salerno verso l’animale, non esauriscono, certo, la pienezza, ricchezza, e assolutizzante sublimazione di quel rapporto, una sorta di felineo stilnovo, che esalta appunto il potere di Bambolo di elevare l’animo di chi lo ama oltre ogni ”terrestre limo”, farlo “rinascere a un’altra Alba”. Donde la gratitudine che pervade la sua apostrofe “Unica luce, sogno, certezza / in questa scialba esistenza / che tu elevi a musica eterna. // Sento vibrare in me quand’io ti carezzo / la dolce essenza dell’Universo / nelle vene scorrere / parole di freschezza / dal tuo melodioso silenzio / aperto ai concerti angelici / come Alba sulla mia anima beata…”. A mitigare, poi, l’amarezza per la sua sparizione vale la certezza della “celeste presenza” di lui che, pur invisibile, guida la sua vita ”nelle quotidiane bufere”: “Non sei più ritornato / facendo piangere anche / l’alba // qualcuno avrà spezzato / la favola // ma tu vivi per l’eternità / come una persona amata”. Parimenti la dimensione singolare di questa sublimazione del rapporto affettivo con Bambolo si snoda con naturalezza, singolare leggerezza di tocco, policromia di scene, metamorfosi di sensazioni ed emozioni, fragranza di francescana purezza che si riflette dal gatto all’uomo: Quando stiamo insieme / è come se vivessimo nell’Eden, / nella perfetta innocenza…”. Così come la riflessione assiologica e la meditazione esistenziale non infirmano, in genere, la trasparenza e l’eleganza del dettato lirico, avvalorato da un “lessico moderno e accattivante”, opportunamente rilevato dall’illustre postfatore Antonio Spagnuolo. Donde la lettura della silloge, mentre riesce suggestiva per chi, come me, ama gli animali e per tutte le persone pensose della condizione animale, può riuscire fonte di soddisfazione e di conforto anche per i giovanissimi che amano gli animali, li accolgono, li allevano, li proteggono: Ron e Stella, due splendidi gatti, hanno anch’essi una casa, in virtù delle pronte e amorevoli premure prodigate loro dai miei nipotini! Grazie, allora, a Rocco Salerno per questo canto originale in cui ha tradotto il suo generoso messaggio di solidarietà e di amore per gli animali.FRANCO TRIFUOGGI
lunedì 20 settembre 2021
SEGNALAZIONE VOLUMI = SALVATORE QUASIMODO
**Salvatore Quasimodo: "Tutte le poesie" Ed. Mondadori 2021 - pagg. 618- € 26,00
Curato in maniera impeccabile da Carlangelo Mauro appare nella collana mondadoriana "Oscar moderni Baobab" un volume corposo e denso che ripresenta tutte le poesie del premio Nobel 1959.
Una ricognizione puntuale e dettagliata quella di Carlangelo Mauro, con pagine che avviano verso una interminabile escalation di cultura e di coinvolgimento emotivo, ricche come sono di rimandi ed informazioni tali da avvolgere il lettore in un avvincente viaggio attraverso testi e testimonianze, spunti critici e relazioni, sublimazioni di riferimenti e particolari illuminazioni del percorso.
Salvatore Quasimodo trova la sua collocazione creativa giusto al centro del secolo scorso, nell'atmosfera caotica che ha incendiato la storia del nostro paese tra gli anni della dittatura fascista, gli eventi della seconda guerra mondiale ed infine nella vertigine del dopoguerra.
La corrente ermetica che lo ha battezzato afferma la necessità di una nuova poetica ed egli riesce ad esprimere la realtà tradizionale con il segnale coraggioso dell'innovazione.
Il volume offre numerose pagine dedicate ad un percorso di lettura attraverso la poesia del nostro, un percorso dettagliato e suggestivo tracciato da Carlangelo Mauro con una destrezza unica che riesce a rischiarare il recupero delle trasfigurazioni e la sublimazione del simbolo.
Un registro nel quale vengono proposte suggestioni e richiami capaci di rivendicare quella eredità sapienziale che amplifica il fascino del canto.
ANTONIO SPAGNUOLO
venerdì 17 settembre 2021
POESIA = FRANCESCA LO BUE
**Presentazione di Amore e Morte
La poetessa affronta, in modo enigmatico, il crepaccio dell’esistenza, tematizzato dalla cultura contemporanea in varie modalità, ovvero scientifiche, narrative ed ermeneutiche relative al grande tema eros e thanatos ereditato nella cultura occidentale dalla tematizzazione mitica dell’antica Grecia. L’originalità di questa composizione poetica consiste in un legame singolarmente affascinante tra la concettualizzazione del problema affrontato e il giuoco musicale della dinamica linguistica che ne caratterizza l’espressione comunicativa. La nostra autrice infatti riesce in questa breve composizione ad associare le due modalità narrative dei suoi contesti poetici: quella dei racconti accennati e interrotti e quella dei significati allusivi, spesso nascosti nelle parole utilizzate per codificare l’espressione altamente interrogativa delle questioni affrontate. Il suo è un modo singolarmente efficace per rivolgersi al mistero dell’inconoscibile e per reperirne le tracce nell’inquietudine dell’esistenza.
Aurelio Rizzacasa
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"Amore e Morte"
Qual è il centro del mondo?
Dove è lei, anima dei miei giorni brevi.
Dove è fuggita, bruciata dall’acqua ardente dei desideri.
Dove sei andato, amore mio profumato?
Pane e pace della mia spada giustiziera,
brama di afflizione, solitudine e parole.
Nei disegni scabri dei monti,
tra l’ansietà dell’abisso e il sogno del cielo,
mi svelerai il miraggio della vita e della morte.
Dove hai portato il tuo fiore intramontabile?
Precarietà rigogliosa nella danza dei crepacci.
Ti nascondi dagli uomini cupi,
ti nascondi dalle loro bugie,
cavalcando nuvole d’acciaio fra ali iridescenti di pietra.
Perché non mi chiami alla soavità dei tuoi occhi di rugiada?
In quale stella errante fuggisti?
In che eremo di pena e sacrificio, in quale gloria di nebbia,
potrò ritrovare un tuo accenno?
Sei il Re potente dei nimbi,
tuona la tua voce dal trono trasparente,
lì tra le vette nelle cime dell’estasi.
A te rivolgono la parola gli orfani della terra,
il popolo prigioniero della terra arida
radunato nel tributo di sangue e fame,
in attesa dell’eredità senza destino.
Titano dei giorni sfusi, enigma dell’abisso,
raccontami la pagina antica del Mondo,
dove precipita l’Amore e si cela la Morte.
*
FRANCESCA LO BUE