venerdì 28 aprile 2023

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO


**
“Baccello”
Vorrei credere adesso! Dove si ritrovano
turchine officine di abbandono,
lo scoppiettare in gola di un tormento,
i sui pensieri selvaggi nell’affanno,
l’ansiosa bocca riportata al petto,
sopra uno scoglio o tra le rive accese
morbida forma di coppa spumeggiante.
Finalmente immensa piramide
voglio sciogliermi e diventare nettare
in deserto, strano grembo,
perché le pietre si stacchino
per seppellire la macchina di ferro
che tempesta i miei giorni.
Ruota traverso i capelli fremente
il battito furtivo come trottola
sino a farmi scoppiare all’improvviso
quale risposta delle allucinazioni
serpentine come fiore strozzato.
Il vigoroso sogno del dubbio
che di nascosto cerca di insidiare
il bocciolo serrato tra le labbra
vibra come sciame di vespe.
Druido arrotolato nei baccelli
inseguo una rossa luna ormai fuggente
lanciato come spruzzo nelle riposte passioni.
*
“Risvegli”
Ogni risveglio è nuvola vagante,
attimo di affanno e pura nostalgia
per le viole appassite, per sottili fiammate
che nella notte invocano bagliori.
Al tempo delle dita sottrarre dismisure
giusto appena incrociate a pagine di punta,
per un secondo ancora verso incanti
slittati al corpo, soavissimo stupore.
Sciogliemmo impazziti il cielo nei profumi
ed un filo argentato imprigionò
riassunti di memoria.
Ripropongo il velo con premura
per dare ombra ad imperfette illusioni.
*
“Tregua”
Solo uno sguardo e la tenerezza
si avvolge a tratti nuda,
un po' stanca della romantica scorza
che l’incastra.
Incantato quell’ultimo perché
sembra l’ozio che un padre
adagia con i suoi motti leggeri,
ma d’amore sorprende
tormentando l’aria che piange
assieme a tanto urlare.
L’amore più lontano è assente
dai rumori,
mentre mi affanno insonne
nel tuo vago profilo, conosciuto
in azzurro
per ricomporre la grazie dei vent’anni.
Si perde nella luce ancora un bacio,
tregua del mio vagare.
*
ANTONIO SPAGNUOLO *

giovedì 27 aprile 2023

SAGGIO = EDOARDO SANGUINETI


** Edoardo Sanguineti : Il Poeta , l’Intellettuale, l’Artista di Giovanni Cardone**
In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Edoardo Sanguineti apro il mio saggio dicendo: Scrittore e critico, nasce Genova e diviene Professore universitario nel 1970, ha insegnato prima a Salerno, e ora a Genova. Collaboratore di Paese sera, eletto deputato al Parlamento (1979) nella lista ligure del Partito comunista. L'opera di S. nasce e si svolge sotto il segno della neoavanguardia alle vicende della quale partecipa dalla collaborazione al Verri fino al Gruppo 63. La tecnica combinatoria di oggetti-segni ingranditi, dilatati, esemplata su procedimenti musicali, da Schönberg a Berio, caratterizza Laborintus (1956), monologante resoconto di una discesa agl'inferi che rappresenta al tempo stesso un superamento di Jung attraverso Freud. L'ossessione filologica, il poliglottismo, il plurilinguismo in funzione ironica, grottesca, secondo lo schema di un erotismo trattato in chiave onirica e visionaria, dà vita a Erotopaegnia 1961, pubblicato insieme con Laborintus sotto il titolo di Opus metricum. In Purgatorio de l'Inferno 1964; insieme con Laborintus ed Erotopaegnia sotto il titolo di Triperuno emerge, dopo l'immersione nel formalismo e nell'irrazionalismo compiuta con l'Opus metricum, la nuova figurazione la realtà storica, la funzione ideologica del linguaggio. Si prolunga nella prosa narrativa con Capriccio italiano (1963) la storia di quell'itinerario dalla morte alla vita tracciato in Triperuno, modulata però questa volta su un linguaggio basso, povero, degradato, condizionato da una forma di percezione onirica; come onirico è lo spazio in cui vengono collocati i geroglifici grotteschi di Il Giuoco dell'oca (1967), staccati da contesti culturali eterogenei a mimare il caos della realtà. A una complessa operazione di riscrittura in chiave di provocazione carnevalesca passa successivamente Sanguineti con Il Giuoco del Satyricon (1970). Importante anche nella sua opera la produzione di testi per il teatro, a partire da quella sorta d'iterativa seduta psicanalitica rappresentata in K nel 1962, da Traumdeutung e Protocolli ambedue in Teatro, 1969, insieme con K e Passaggio in cui si realizza una totale desemantizzazione della parola trattata in maniera esclusivamente strumentale sul modello di una partitura, alla riduzione teatrale dell'Orlando Furioso del 1970 smembrato in caselle chiuse e indipendenti offerte simultaneamente al pubblico sullo stesso spazio scenico secondo un giuoco della simultaneità indipendente che torna anche in Storie naturali del 1971. Non c’è ovviamente bisogno, in questo consesso, di giustificare la rilevanza di un approccio visivo all’opera di Sanguineti; e, di conseguenza, il valore strategico del passaggio (ove poi, come vedremo, di passaggio in effetti si possa parlare) delle sue predilezioni artistiche tra l’una e l’altra delle poetiche citate nel sottotitolo di questo mio intervento: Informale e Nuova Figurazione. Abbiamo del resto appena ascoltato l’acutezza dell’indagine di Niva Lorenzini – una vera e propria quête riguardo alle «serie» Dürer e Mantegna di Varie ed eventuali e va sottolineato come in generale le ekphrasis esplicite, nell’opera poetica di Sanguineti, siano progressivamente cresciute d’importanza ed estensione, con continuità, di raccolta in raccolta . Ancora più marcato l’aspetto visivo il che è assai significativo, considerando quanto sto cercando di mostrare è poi nell’opera narrativa: nel Giuoco dell’oca e, come abbiamo sentito nel fine intervento di Epifanio Ajello, nel (forse) terzo romanzo L’orologio astronomico. Non è un caso che, fra gli interpreti più acuti di Laborintus, diversi abbiano proposto riferimenti artistici: assai precoce per esempio da parte di Niva Lorenzini il cenno alla «lezione di Pollock», in nome dell’analoga «tempesta materica» e della comune matrice junghiana; il coevo sodalizio coi pittori «nucleari» in effetti decisivi, come vedremo, ma soprattutto per gli sviluppi successivi della poesia di Sanguineti è stato poi attentamente vagliato da Elisabetta Baccarani penso poi, ancor più di recente, al richiamo di Erminio Risso alle «plastiche di Burri» per le figurazioni selenografiche sempre del poema d’esordio . Lo stesso corso «neofigurativo» poi opportunamente circoscritto, nell’insieme dell’opus, da Antonio Pietropaoli fu tale definito per primo, a proposito di Purgatorio de l’Inferno, da uno dei primi capitoli della lunga fedeltà di Fausto Curi (apparso sul «verri», nel ’64), proprio a partire dal nesso con la poetica della «nuova figurazione» di Enrico Baj (e dal testo che Sanguineti l’anno precedente, come vedremo fra poco nel dettaglio, appunto alla Nuova figurazione aveva dedicato) . Ma soprattutto non è un caso che facesse per tempo riferimento a una poetica delle arti visive sia pure con un punto interrogativo dall’evidente valore di caveat, e ribadendo nella stessa sede come più pertinenti fossero comunque da considerarsi i riferimenti musicali – il testo di poetica che, per datazione e sede di pubblicazione, si può considerare il più strategico, ancorché ambiguo (o proprio perché ambiguo, piuttosto), fra quelli di Sanguineti. Figura infatti, Poesia informale?, come “allegato” agli specimina poetici antologizzati da Alfredo Giuliani in quello che resta l’atto editoriale più importante del nostro secondo Novecento – l’antologia pubblicata nel 1961 col titolo I Novissimi. Poesie per gli anni Sessanta. Non so quanto sia stato notato come datazione e successione di questi testi disegnino un preciso arco autocanonizzante e autostoricizzante: dal più antico, La sintassi e i generi di Pagliarani che figura datato 1959 ma il cui nucleo risale in realtà al ’57 , passando per quelli di Porta e Balestrini (corrispondenti alle rispettive risposte a un questionario della «Fiera letteraria» del 1960), ai più recenti di Sanguineti e Giuliani che sono del ’61 e, si può dunque supporre, già consapevolmente stesi in previsione del loro utilizzo nella strategica sede dell’antologia. Ipotizzando che l’ultima sede attribuita alla Forma del verso di Giuliani sia dovuta, se non a bon ton, alla natura “tecnica” e in qualche modo ancillare di questo suo testo essenzialmente di metrica, ha un senso preciso mostrare di prendere le mosse dal più “antico” del gruppo, Pagliarani (il primo dei cinque ad avere esordito, nel ’54) , e di concludere il percorso col più “nuovo” e, insomma, il Novissimo al quale oltretutto, come pure è noto, si deve il titolo del libro appunto Sanguineti. Inoltre, dei suoi due saggi due, a differenza degli altri: come a controbilanciare la predominanza di Giuliani curatore dell’antologia ed estensore della sua introduzione, s’inverte la posizione rispetto all’ordine cronologico: come a sancire uno status più “avanzato” del secondo, Poesia e mitologia, uscito in realtà prima di quello che nei Novissimi gli viene preposto: appunto Poesia informale? Questo testo appariva per la prima volta, infatti, a ridosso della pubblicazione dell’antologia, nel giugno del ’61 sul terzo numero di quell’annata cruciale del «verri». Il numero in questione era per intero dedicato appunto a L’Informale e, diversamente dalla consuetudine, non recava all’inizio l’editoriale del fondatore e direttore Luciano Anceschi. A quattro saggi organici, a firma di Giulio Carlo Argan, Renato Barilli, Enrico Crispolti e Umberto Eco, faceva séguito per le cure di Crispolti una silloge di scritti dei principali artisti e dei loro più immediati sodali (da Pollock a Dubuffet, da Fontana a De Kooning; il primo è un testo di Ponge su Fautrier, l’ultimo uno di Sweeney su Burri) e, nell’ultima parte, una serie di interventi brevi di critici più “esterni” rispetto alla rivista (da Arcangeli a Calvesi) o meno connotati come critici d’arte. Poesia informale? di Sanguineti, ultimo della serie, era l’unico di uno scrittore che riflettesse sulla propria esperienza altri, da Cesare Vivaldi a niente meno che Samuel Beckett, che scrive di Bram Van Velde, sono presenti come più o meno occasionali critici d’arte. Un intervento, questo di Sanguineti, per molti versi anomalo e non allineato, siglato com’è dal punto interrogativo che manterrà sin nei Novissimi. E in effetti, se si confronta questo testo con quelli dei critici organici della nascente neoavanguardia, Umberto Eco e Renato Barilli (pagine destinate a figurare nelle raccolte saggistiche dei due, rispettivamente Opera aperta e Informale oggetto comportamento), entusiasticamente vòlti ad annettere le allora trionfanti esperienze artistiche appunto dell’Informel ai rispettivi progetti estetici l’“apertura” appunto, nel senso della teoria dell’informazione, da un lato; la fenomenologica “intenzionalità” nei confronti del mondo, dall’altro , non si possono non notare riserve e distinguo di non lieve portata. Anzitutto Sanguineti si risolve a discorrere di un possibile riferimento all’Informale, per la propria poesia, solo perché in tal senso provocato da altri (Cesare Vivaldi e Francesco Leonetti, nella fattispecie); poi, dopo la petizione di principio della non sovrapponibilità di nozioni come informale, pittura d’azione ed espressionismo astratto, è soprattutto quest’ultima che discute; e, comunque, esclusivamente rispetto a Laborintus. Se di «poesia autre» si può insomma parlare così impiegando un ennesimo quasi-sinonimo, quello imposto sul mercato dell’arte da Michel Tapié , è solo per evidenziare che con Laborintus ci si distanziava dalla tradizione data, si configurava «un diverso dalla poesia assolutamente intesa». E quasi si scusava, il Sanguineti di Poesia informale?, per i «riferimenti intenzionali a talune situazioni tecnico espressive di altre arti», necessitati dall’insufficienza degli «esemplari poetici contemporanei, in quegli anni 1951-1954». Aveva insomma valore strumentale, secondo il diretto interessato, la fase “informale” di Sanguineti: «si trattava per me di superare il formalismo e l’irrazionalismo dell’avanguardia (e infine la stessa avanguardia, nelle sue implicazioni ideologiche), non per mezzo di una rimozione, ma a partire dal formalismo e dall’irrazionalismo stesso, esasperandone le contraddizioni sino a un limite praticamente insuperabile, rovesciandone il senso, agendo sopra gli stessi postulati di tipo anarchico, ma portandoli a un grado di storica coscienza eversiva» (è appena il caso di segnalare come questa dicotomia, fra rivolta anarchica e storica coscienza rivoluzionaria, resterà un chiodo fisso della successiva riflessione di Sanguineti in sede strettamente politica. Tanto è vero che glossando per l’occasione una delle proprie formule più note, peraltro a sua volta ricavata dall’ideario delle arti visive, cioè da Cézanne chiarisce Sanguineti che, nell’Enfer dell’Informale, ha passato in effetti una sola Saison: Fare dell’avanguardia un’arte da museo significava gettare se stessi, subito, e a testa prima, nel labirinto del formalismo e dell’irrazionalismo, nella Palus Putredinis, precisamente, dell’anarchismo e dell’alienazione, con la speranza, che mi ostino a non ritenere illusoria, di uscirne poi veramente, attraversato il tutto, con le mani sporche, ma con il fango, anche, lasciato davvero alle spalle. Quella del fango che ci sta alle spalle il fango alludendo naturalmente a quello della Palus, appunto è un caso curioso di, diciamo, autocitazione prolettica: se è vero che proviene dall’explicit della diciassettesima e ultima sezione di Purgatorio de l’Inferno, raccolta a quell’altezza ancora lontana dall’essere pubblicata (lo sarà solo nel ’64, nella prima “raccolta di raccolte”, Triperuno, come ad appunto chiudere il ciclo di Laborintus ed Erotopaegnia): «[…] ma vedi il fango che ci sta alle spalle, / e il sole in mezzo agli alberi, e i bambini che dormono: i bambini che sognano (che parlano, sognando); (ma i bambini , li vedi, così inquieti); / (dormendo, i bambini); (sognando, adesso):» Ma soprattutto l’immagine serve a dichiarare infine che, al netto delle cautele dialettiche, dall’Informale si era ormai usciti una volta per tutte: «Per questo la poetica stretta dell’informale era naturalmente destinata ad essere tradita, al di là del Laborintus, ma sulle mani sporche permangono, e certo permarranno, le buone macchie di melma» . E, in senso lato, questo salvifico stigma d’impurità resterà a marchiare le successive scelte artistiche di Sanguineti. Se in generale e da un punto di vista strettamente linguistico, s’è detto, i riferimenti più stringenti sono alla coeva scena musicale, non si può in alcun modo sottacere l’importanza avuta, sin dalle origini della sua traiettoria, dal mondo dell’arte: prima di tutto inteso come concreta frequentazione di ambienti e persone. È circostanza nota ma non mi pare ancora studiata, per esempio, quella per cui il primissimo esordio poetico di Sanguineti si consumi non su una sede letteraria bensì su «Numero», rivista d’arte «non figurativa» aperta nel 1949 a Firenze da Fiamma Vigo sulla quale uscirono nel ’52, appunto, le prime lasse di Laborintus ambiente, questo fiorentino, che ebbe pure in sorte di patrocinare la presto abortita attività pittorica di una coetanea di Sanguineti che, come poetessa, si affermerà molto dopo di lui: Amelia Rosselli . La circostanza è stata ampiamente ricordata, da Sanguineti, nell’ampia e preziosa intervista che su questi temi ha concesso nel 2004 a Tommaso Lisa. Il primo contatto fu con l’artista Gianni Bertini che gli venne presentato da Albino Galvano, artista scrittore e traduttore di Artaud che com’è noto sul giovanissimo Sanguineti, suo allievo al Liceo di Torino, ebbe fondamentale influenza: Allora in redazione c’era un responsabile della parte letteraria, ma chi decideva, alla fine, era Fiamma Vigo. Ci fu una curiosa storia, non lieta nel senso che incontrai a Firenze questo responsabile letterario, il quale disse che queste cose, ossia alcuni dei primi testi di Laborintus, così d’avanguardia, non lo interessavano, benché la rivista fosse molto “aperta”, e a quei tempi una rivista “aperta” voleva dire in Italia, e a Firenze massimamente, essere “non figurativa”. Era infatti il momento dello scontro fra “arte astratta” e “arte figurativa”. Finito il colloquio, disse che se Fiamma voleva pubblicare i miei testi, lui si sarebbe dimesso. Questo accadeva nel 1951; io consegno quelle poesie che poi vengono pubblicate ugualmente, da Fiamma Vigo, nel 1952. A dispetto di questo primo passo «non figurativo», le frequentazioni artistiche di Sanguineti a Torino Carol Rama, a Milano i “nucleari” con in testa Enrico Baj, appunto a Firenze Antonio Bueno, a Napoli Mario Persico e il “Gruppo 58”; proprio Baj e Persico resteranno i suoi sodali più fedeli sono sin dall’inizio contrassegnate da una distanza notevole, rispetto alle premesse dell’Informale. Parla in tal senso chiaro la firma da lui apposta in calce al Manifesto di Napoli del gennaio ’59, che Baj avrà modo di definire un’«aperta dichiarazione di guerra all’astrattismo» . Tale impressione trova ora piena conferma dalla ricca, ancorché non esaustiva, sezione sulle «Arti» nella recente edizione semi-postuma dei saggi di Cultura e realtà, con scrupolo messa assieme da Erminio Risso, che finalmente ci rende in grado di leggere in modo organico i – non molti, sempre occasionali, ma in questa fase non meno che strategici – scritti dedicati all’arte da Sanguineti . Già nella breve nota su Fautrier all’Apollinaire, uscita sul «verri» nel ’59, a proposito di uno degli artisti-simbolo appunto dell’Informel allora in mostra a Milano sul quale di lì a poco il vecchio Ungaretti farà la sua ultima scommessa a tema artistico , Sanguineti riporta in forma velata dalla cifra del cognome «le parole acerbe, impietose» dell’amico pittore «B.» (Bueno? Baj?) contro la «scaltra cucina artistica» di Fautrier; per parte sua rincarando la dose col parlare di «una bellezza crudele e senza energia», di «una disposizione umana, virtuosamente indifferente e viziosamente intelligente, che si consuma senza riscatto e senza speranza», e insomma condannando l’artista francese a sia pur splendido stendardo di quella che è ormai da considerarsi una retroguardia: «È un’intera stagione della storia francese, insomma, quella di cui Fautrier celebra, con così discreta eleganza, gli affascinanti funerali» . E si può ben aggiungere considerando il valore di riconoscimento che la stagione dell’esistenzialismo aveva indicato proprio nell’artista degli Otages – che quella «stagione» non era solo da intendersi entro la «storia francese»: bensì nella storia dello stesso Sanguineti . Nel medesimo ’59 ancora sul «verri» – intervenendo sulla mostra Arte Nuova curata al Circolo degli Artisti di Torino proprio dall’apostolo dell’Informel, Michel Tapié – Sanguineti condanna risolutamente, nella «tebaide» della recente arte «non-figurativa», «il consumarsi della libertà artistica in libertà calligrafica» seppur facendo ampia parentesi dei «padri solenni» Pollock e Wols, e salvando altresì – fra «i soli artisti autentici» ivi incontrati De Kooning e, si noti unico italiano, Alberto Burri. Passano quattro anni e la “svolta” artistica di Sanguineti se poi davvero di svolta è dato parlare – è ormai conclamata. Di nuovo è «il verri» la sede strategica: nel cruciale 1963 esce un nuovo numero monografico dedicato all’arte, il 12, che sin dal titolo complessivo – Dopo l’Informale – si presenta come prosecuzione, ma anche parziale sconfessione, della pressoché unanime euforia di due anni prima. Anche qui tre saggi organici, a firma di Enrico Crispolti, Filiberto Menna e Renato Barilli, tratteggiano le principali poetiche prese in esame; mentre testi più brevi li precedono una sorta di “editoriale allargato” di Gillo Dorfles, e poi Calvesi e Tadini e li seguono; fra questi l’intervento di Sanguineti, intitolato Per una nuova figurazione, è ora tutt’altro che isolato o emarginato al suo seguono quelli di Cesare Vivaldi, Alberto Boatto, Marisa Volpi e un intervento del gruppo “Arte e Libertà”. Il piglio è ora tutt’altro che esitante, e il titolo non certo interrogativo; soprattutto l’estensore non sottace più il riferimento ai “Nucleari” e a Baj, come aveva fatto invece nel testo di due anni prima. Il suo tono è ora assertivo e (a partire da quel per esordiale) “manifestante”: nel sancire superata la deformazione espressionistica nonché la matrice primitivista e infantilista. L’occasione è data dalla mostra intitolata appunto Nuova Figurazione, tenutasi a Firenze nell’estate di quel ’63 e ispirata a una omonima tenutasi a Parigi due anni prima. Nel suo catalogo, Sanguineti si sofferma sull’opera di due artisti torinesi, Piero Ruggeri e Sergio Saroni; nel commentarla poi sulla rivista di Anceschi, Sanguineti dà per assodato il «superamento dell’informale» e ne ricorda i prodromi nella mostra milanese, di dieci anni precedente, organizzata dai Nucleari (Baj, Dangelo, Colombo e Mariani) allo studio B, col quanto mai eloquente titolo Prefigurazione; e poi appunto nella «protesta figurativa ormai matura e ferma», che poteva permettersi «il lusso di un completo distacco ironico e divertito» , del Manifeste de Naples del gennaio 1959 (con Baj che si unisce ai Biasi, Di Bello, Del Pezzo, Pergola, Persico: insieme alle significative firme di Balestrini e, come già ricordato, dello stesso Sanguineti) «non si tratta, insomma, di deformare il veduto nel senso dell’incontaminato, ma di informare di significati l’abbecedario ottico delle cose che si offrono, degli oggetti del vissuto» . La contrapposizione con l’età d’oro dell’Informel non potrebbe essere più evidente ancorché mantenuta, qui, implicita. Veniva dichiarata a piene lettere, invece, all’esordio di un poco vulgato testo uscito all’inizio del ’62, ma in realtà scritto da Sanguineti due anni prima ancor prima dunque, stando almeno alla datazione d’autore, di Poesia informale?, dedicato all’antico maestro Albino Galvano. In esso si dà per assunta, con polemica assai esposta, la possibilità che «una pittura densa di valori illustrativi, o addirittura letterari, ci appaia assai più radicalmente autre, dico in assoluto, che quella che oggi si etichetta con tale nome» . Sicché non dovrebbe far specie come invece, confesso, non manca di farmi l’apertamente programmatico explicit di un altro poco noto testo del ’63, compreso nell’antologia da Sanguineti curata assieme a Luigi Carluccio ed Ezio Gribaudo, Disegni e parole: «per i poeti più nuovi, per i novissimi appunto, il discorso muta già di accento e di prospettiva, credibilmente . E mentre ormai si scatena la querelle della nuova figurazione, presso le tavole dipinte, ecco che ci è possibile suggerire a chi legge una questione di simmetria espressiva ancora tutta inedita. E siamo al ragionamento, appena iniziato in qualche testo, di un aperto neocontenutismo» . Con l’esplicita menzione dei Novissimi e del loro appena iniziato ma, sin d’ora, quanto mai trasgressivo aperto neo-contenutismo, la simmetria espressiva della neoavanguardia letteraria con la nuova figurazione, indirizzo in quegli anni ormai rampante, pare giunta a un punto di non ritorno. E se le immediate vicende poetiche di quella metà anni Sessanta possono invece dar l’impressione di un po’ inerzialmente proseguire l’impulso in certa misura definibile (con tanto di punto interrogativo, magari) “informale”, che come s’è visto aveva caratterizzato i tardi Cinquanta e l’inizio del decennio seguente, pare proprio di poter antivedere invece, in queste righe sorprendenti, l’indirizzo sempre più apertamente “figurativo” degli anni Settanta e seguenti: non solo del Sanguineti di Reisebilder e Postkarten ma anche del Porta “allocutivo” e corporeo dell’ultima parte di Quanto ho da dirvi e di Passi passaggi, per non parlare del Balestrini didascalico, epico e allegorico delle Ballate distese e delle altre avventure della Signorina Richmond. Tenendo a mente questo successivo decorso della vicenda, varrà allora la pena di tornare sullo scritto del ’61 dal quale si sono prese le mosse: quel laconico e, come s’è scoperto, abbastanza reticente Poesia informale? che concludeva su una cadenza d’inganno, per così dire, il numero del «verri» sull’Informale; per poi entrare nei Novissimi a seminare un dubbio sottile – ma, come s’è visto, destinato presto a ingigantirsi – sui destini “visivi” dell’avanguardia letteraria italiana. Come spesso nei testi di poetica sanguinetiani, vi si possono rintracciare più o meno cifrate pointes polemiche. L’unica esplicita, e infatti citatissima, è quella nei confronti di Andrea Zanzotto: alla cui battuta, riportata da terzi, su Laborintus come «sincera trascrizione di un esaurimento nervoso» Sanguineti replicava trattarsi semmai di un «oggettivo “esaurimento storico”» . Ce n’è però una di portata ben più sostanziale forse, che, senza nominarli, fustiga due opposte (ma in qualche modo solidali) classi di contendenti: e lo fa proprio in relazione alla vexata quæstio dell’«informale, dell’action-poetry (o dell’espressionismo astratto)». Da un lato dunque coloro che, volontaristicamente negando tale “crisi”, si trovavano a «scavalcare à rebours il terreno “franco” dell’avanguardia europea» e, «rifuggendo più addietro», così «riurtavano comunque nell’inevitabile scoglio dell’irrazionalismo». Dall’altro, e in qualche modo appunto simmetricamente, coloro che nella Palus, nella “condizione informale” per così dire, persistevano senza mostrarsi in grado di compiere quell’attraversamento critico-dialettico, col «fango lasciato davvero alle spalle» , che Sanguineti annuncia invece d’aver completato. Se i primi avversari, tacciati d’irrazionalismo regressivo, sono identificabili nei neosperimentali officineschi in quel Leonetti, dunque, in abbrivo evocato dubbioso quanto al carico «informale», appunto, di Laborintus; era stato del resto proprio Leonetti, in una spigolatura apparsa in forma anonima appunto su «Officina», a riportare il giudizio zanzottiano sull’opera prima di Sanguineti , è a Zanzotto e a (quelli che Sanguineti poteva allora considerare) dintorni che mi pare rivolto, proprio, il secondo strale sanguinetiano. Non è un caso che, nella replica da Zanzotto affidata l’anno seguente alle colonne di «Comunità», nel punto in cui risponde alla battuta di Sanguineti a lui rivolta, faccia curiosamente capolino un termine che ormai è per noi un tormentone ma che davvero, in un contesto simile, non manca di sorprendere. Zanzotto rimprovera al contendente «una mancanza di rispetto non tanto da guariti ed esorcizzati ancora irreale, ma da non pienamente contagiati». Per aggiungere poco oltre: strano in Sanguineti il persistere della riverenza per l’arcistoria stessa proprio nel momento in cui appare sempre più netta la “storia informale”, quando cioè la vecchia storia (con tutte le sue provvidenze e dialettiche) quasi si dissolve nella propria infinita e velenosa coda, e perciò tende a configurarsi addirittura come storielle, nugae, mito di aree depresse. E ciò sia detto senza togliere alla storia quel che è della storia. Il tema della Storia ridotta alle proporzioni minimali della storiella (o, come arriverà a dire nella Beltà, della «microstoria») è di lunga durata, nella riflessione di Zanzotto qui più interessa, però, la connotazione quasi “tecnica” della storia informale: che non potrebbe intendersi fuori dal contesto artistico, appunto. In quel fango – la Palus della condizione informale, appunto si vedeva invece pienamente sprofondato, a quell’altezza, proprio Zanzotto. La volontaristica pretesa di uscirne, nella Beltà com’è noto, verrà da lui amaramente irrisa con l’apologo del Barone di Münchhausen che dal fango, per l’appunto, crede di potersi tirare fuori per i capelli. E nello stesso ’62, nelle IX Ecloghe dopo lunga elaborazione pubblicate, non mancano riferimenti a «l’informe mondo, l’informale sete nel quale il soggetto deversa il proprio ormai inarrestabile «esaurimento». Si potrà altresì notare come, per quest’aspetto, il rapporto fra i due acerrimi rivali si configuri come un chiasmo. Se Zanzotto come finemente ha mostrato Gian-Maria Annovi usa una stilizzazione informale in funzione sfigurante, sino a tendere alla cancellazione di ogni referenzialità oggettuale, di contro Sanguineti, partendo da una registrazione del magma necessariamente operata valendosi dei paraphernalia dell’informale, negli stessi anni recupera con sempre maggiore decisione una sia pur stravolta figuratività umana. Non è un caso che nel “manifesto” del ’63, Per una nuova figurazione, Sanguineti ricordasse la «presentazione-manifesto» di Enrico Brenna alla già ricordata mostra dei pittori “nucleari” dieci anni prima intitolata Prefigurazione: «la loro materia tende a prendere una forma che, se non è ancora definita, lo è in divenire». Per concludere il percorso, all’altezza del ’59, col Manifeste de Naples: quando, «si capisce, si trattava ormai, non di prefigurazioni, ma di nuove figurazioni, precisamente» . Volendo insomma sintetizzare al massimo: se per Zanzotto la figurazione umana sprofonda nell’informe, per Sanguineti ne emerge. Così infatti suonava, già nel ’61, la cadenza finale di Poesia informale?: «la forma non si pone, in nessun caso, che a partire, per noi, dall’informe, e in questo informe orizzonte che, ci piaccia o non ci piaccia, è il nostro» . Rispetto a queste posizioni, parallele ma anche speculari (a chiasmo, s’è detto), chi si trova decisamente fuori asse, fuori luogo, è Emilio Villa. Lui sì, decisamente, Autre. Non è ipotesi peregrina che la pointe sanguinetiana, contro chi indulgesse a permanere nel fango informale senza industriarsi al suo dialettico e materialistico attraversamento, fosse rivolta soprattutto a lui, per quanto innominato (secondo la strategia del silenzio che Sanguineti ha sempre adottato, del resto, nei suoi confronti). E in effetti – come ho provato a mostrare in altra occasione nessuno più di Villa aveva i numeri per rappresentare, nello stesso torno di anni o di mesi, il più genuino informel poetico: perché era proprio lui – al di là della tendenza artistica così battezzata, a suo stesso parere ormai esauritasi in una precoce museificazione – l’unico scrittore risoluto ad accedere alla dimensione che, sulle orme di Bataille, Yve-Alain Bois ha definito dell’informe. L’accezione nella quale comunemente viene intesa la categoria di informale è per Bois, infatti, «proiettiva»: nell’informe cercando cioè, più o meno consapevolmente e più o meno intenzionalmente, nient’altro che la forma, appunto . Così, proprio, era per Sanguineti: per il quale come abbiamo visto la forma si pone a partire dall’informe. Ed è a partire dall’informe cioè recando sempre lo stigma delle buone macchie di melma sulle mani sporche di chi s’è lasciato il fango alle spalle che Sanguineti legge appunto i suoi artisti davvero prediletti. Quelli sui quali non a caso nel canone di Cultura e realtà (fissato, come testimonia Risso, dall’autore) sono accolti più interventi in successione. Si tratta di Carol Rama, Antonio Bueno ed Enrico Baj. La cifra comune a questi tre esemplari è più o meno agli antipodi dall’Informale, e si può riassumere semmai come aveva del resto già fatto il primo e pionieristico contributo che su questi temi si deve ad Angelo Trimarco una elementarizzazione della figura di gusto primitivista, più vicina a matrici surrealiste che espressioniste. Sintomatico il testo del ’64, su Carol Rama, nel quale Sanguineti delinea un decorso che ci appare a questo punto pensando oltretutto a quanto aveva contato, l’artista, nella sua primissima formazione modellato sul trasparente del suo personale: un «ritorno all’“oggetto”, nella sua nuda empiricità immediata, che è la dominante suprema delle più vive esperienze dell’arte attuale», ma che trova la propria matrice nella macchia. La storia di Carol Rama si lascia così riassumere nel passaggio da una dimensione astratta e tachiste, dall’«antico pathos espressionistico» e dall’«impeto psicologico», insomma da una «proiezione sentimentale» (tutti residui di un «test informe, o informale»), «tutte cose bruciate in una tessitura squisita e definitiva, che non ammette etimologie di ordine patetico». E spende, Sanguineti a proposito di Carol Rama, una categoria ingombrante e per lui problematica: quella di classicità. Seppur «così disforme dai canoni» . Una classicità fondata su quella che, citando l’opera allora recente di LéviStrauss sul Pensiero selvaggio, Sanguineti definisce «poesia del bricolage»: quella che «“parla” non soltanto con le cose, ma anche mediante le cose», così rappresentando «il carattere e la vita del suo autore» . Per questa via, nell’ampio scritto su Antonio Bueno del ’74, Sanguineti giungerà all’elogio non solo dei «contenuti», ma addirittura di quella che definisce una «pictura humana» e persino – seppur con buona dose d’ironia sovrapponendo l’accezione psicanalitica, di ovvia matrice junghiana, alla più vieta formula romantico-idealista – della «storia di un’“anima”» . E così sarà, per Baj in un testo del ’67, parlando di un «pittore di “personaggi”» e, aggiunge Sanguineti quasi stupito di se stesso, «se non addirittura “psicologico”, nel suo psicologismo grottesco e derisorio» . Se a proposito di Baj Sanguineti un po’ celiando parla di «neoclassicismo da bomba A» è sulla solo in apparenza paradossale e comunque per noi ovviamente problematica notazione di classicità attribuita a Carol Rama (in una dialettica di «esodo e riconciliazione» che in uno scritto del 1985, significativamente intitolato L’esilio e il ritorno, viene estesa a «immagine di destino che è genericamente umana, e che concerne tutti») che occorre a questo punto tornare – muovendo alle conclusioni. C’è una formula che ricorre in due punti strategici, di questo repertorio, che parodia e capovolge la definizione aristotelica di metafora, questo è quello. Nel già citato scritto su Bueno del ’74, Sanguineti ha buon gioco, commentando l’ossessione dell’artista sodale per l’oggetto-pipa, a confrontarlo con la celebre pipa surrealista di René Magritte e in specie al titolo Ceci n’est pas une pipe (a proposito del quale con una certa sufficienza Sanguineti commenta «da cui Foucault ha ricavato tutto quello che c’è da ricavare, penso») . Al contrario di Magritte, sostiene Sanguineti, Bueno avrebbe potuto scrivere su un cartiglio «Questa è una pipa»: «il piacere dell’osservatore ritrova la sua etimologia, quando nasce dalla constatazione che “questo è quello” – anzi, al limite, che “questo è questo”» . Proprio Questo è questo è il titolo dell’intervento di Sanguineti su Bueno. Ma è una formula che viene da lontano: da un raro intervento pubblicato esattamente dieci anni prima sul numero 6-7 di «Marcatrè» ma scritto già nel ’62 per presentare, insieme a Giulio Carlo Argan alla libreria Einaudi di Roma, la monografia dedicata ad Alberto Burri da Cesare Brandi . E si noterà anzitutto come sia questo, a parte la precoce stroncatura di Fautrier, l’unico scritto da Sanguineti espressamente dedicato a un artista dell’Informale. E quale artista! In ambiente italiano almeno altrettanto simbolico e feticistico di quanto Fautrier potesse essere considerato per quello europeo. Si ricorderà, intanto, come proprio Burri fosse stato l’unico italiano “salvato”, da Sanguineti, all’interno dell’Arte Nuova presentata da Tapié nel ’59. Quel che conta in Burri, e che secondo Sanguineti lo distanzia dal paradossale (ma, come s’è visto, non così tanto) calligrafismo del «registro astratto-informale» (la libertà calligrafica a suo tempo imputata a Fautrier), è la «violenza immediata dell’opera» che – come sottolineato dallo stesso Brandi – non viene mai cancellata dalla sua «sublimazione estetica». La “resa” di Brandi di fronte all’«evidenza materiale» del valore di Burri del quale non è possibile alcuna lettura in chiave di “risarcimento” e appunto “sublimazione” dovrebbe conseguentemente, secondo Sanguineti, mettere in crisi l’«idealismo» del suo “sistema” nonché, più in generale, «ogni lettura idealistico-romantico-borghese della grande pittura dei maestri del XX secolo». Il gusto, l’educazione di Brandi recalcitrano di fronte alla «cattiveria», alla «scoperta malignità» di materiali che, «come quei sacchi, quei ferri, quelle plastiche, rifiutino, vogliano bene rifiutare, ogni innocenza»: «le sue pagine più belle, Brandi le detta precisamente quando ci fa sentire il suo ribrezzo, la sua ripugnanza di fronte alle materie che Burri esibisce» . Ma quello che davvero soggioga Brandi, in Burri, è appunto ciò che il medesimo Sanguineti di lì a poco si troverà a riconoscere in Carol Rama: «la sicurezza formale di Burri, e chiamiamola pure la sua classicità». Una classicità altrettanto paradossale e «disforme dai canoni» di quella di Rama: se è vero che «verte sopra l’ambivalenza fondamentale tra squisitezza e ripugnanza, tra elementi eleganti e sanguinosi, e insomma» questa la formula memorabile con la quale Sanguineti definisce la gloria dell’artista – su «quel tipo di perfezione ferita e dolorosa che è proprio della pittura di Burri» . Al contrario dell’«abolizione del tempo e della storia» postulata da Brandi, la strada indicata da Burri è quella del «ritrovamento di una più profonda ed autentica storicità» . Dove si manifesta dunque, nei termini neo-contenutisti del Sanguineti di questi anni, «precisamente l’essenza della dialettica dell’arte attuale: il carattere irredimibile dei contenuti». Altro che «innocenza formale», allora! Non può certo spacciarsene detentrice quella cosa di cui quasi mai fa il nome Sanguineti, nei suoi scritti sull’arte, ma che qui individua invece senza esitazioni: «L’avanguardia storica aveva il miraggio dell’innocenza. L’avanguardia della seconda metà del nostro secolo, come nel caso di Burri, verifica l’impossibilità di questo miraggio, verifica la caduta di ogni illusione di innocenza». Perché è venuta meno di schianto l’«arte catartico-aristotelica della nostra più ferma tradizione neutralizzata» (quella che si continua a praticare nei «termini più schiettamente reazionari della concezione estetica romantico borghese»), ma anche quell’indirizzo di «forme aperte» che secondo Sanguineti (senz’altro alludendo a Opera aperta di Eco allora fresco di stampa, e precisamente al modo in cui quel saggio, come s’è visto, si annetteva anche la tradizione dell’informel) altro non è che un «modo meramente rinfrescato, oggi storicamente fruibile» , di quella stessa catarsi. Non si dà nessuna catarsi, dunque: e infatti chiamato in causa da Sanguineti, stavolta, è direttamente l’iniziatore teorico di tale tradizione: È nella poetica di Aristotele, precisamente, che si legge, a proposito della redenzione operata dalla mimesi, con un cadavere, un insetto ripugnante, piacciono se dipinti, e piacciono nella misura in cui riescono riconoscibili intellettualmente: nella misura in cui concedono di dire: «che questo è quello» (oti outos ekeinos) . Ma dal momento che «la pittura di Burri è chiaramente antimimetica», in essa siamo chiamati a riconoscere perpetuamente, rifiutando quella metafora che è naturalmente, in un orizzonte aristotelico, l’essenza della poesia, siamo chiamati a riconoscere «che questo è questo»: che il sacco è sacco, che il ferro è ferro, che la plastica è plastica . Tutto questo, però, a proposito appunto di Burri. Il quale a differenza di Rama, Bueno e Baj se nulla concede alla mimesi neppure può essere ascritto alla nuova figurazione. Proprio nel mostrare a giorno, e ostendere anzi, le ferite e appunto le macchie, le buone macchie di melma dei suoi contenuti irredimibili. Si dovrà allora concludere che quanto davvero contasse in arte per Sanguineti al netto delle diverse scelte di contenuto è proprio la sicurezza formale, e chiamiamola pure la classicità: di artisti così in apparenza distanti come Carol Rama e, appunto, Burri. Non pretendo certo di trasporre questa categoria, sic et simpliciter, dal Sanguineti lettore d’arte al Sanguineti artista. Ma se oggi legittimamente lo consideriamo un classico contemporaneo credo sia proprio in virtù di questo salutare paradosso: che l’unica classicità degna di un tempo come il nostro è quella appunto che non nasconda sulle proprie mani sporche, onestamente sporche le macchie di melma: le buone macchie di melma. Infine Edoardo Sanguineti disse: Insieme, io e Baj, abbamo fatto molte varie altre cose, essendo entrambi anche membri del Collegio di Patafisica. Jarry era un idolo di Baj, che a me non dispiaceva affatto, e lui era il direttore del Collegio Patafisico di Milano, ma “direttore” è detto male, perché non è il gergo patafisico, era piuttosto l’Imperatore Analogico. Io fui nominato dapprima Faraone Poetante, a Milano. Poi però ci fu, dietro pressione di Baj, un’infornata parigina di patafisici, un paio d’anni fa, in occasione della quale ci fu la mia nomina a Satrapo, che è la massima carica (anche se poi c’è anche una specie di Supersatrapo Universale, cosmico, patafisico, che sta sopra a tutti). E così a Parigi, in quell’occasione, si fece un’infornata di tre Satrapi - Umberto Eco, Dario Fo e io - una sera, in casa di Arrabal; e Arrabal stava su una specie di macchina della tortura, su cui sedeva solennemente, proclamando i Satrapi, o meglio, Satrapi Trascendentali dell’Ordine della Grande Ghiduglia, che è quel segno spiraliforme, guiduille in francese, che deriva da Jarry e ritorna in certe opere di Baj. La mia appartenenza all’OPLEPO (OPificio di LEtteratura POtenziale) è piuttosto un “effetto” che una “causa” della mia ricerca intraverbale, dei miei testi acrostici. Cioè, benché io poi ne sia anche Presidente, però, non è che né l’OULIPO originario francese, né l’OPLEPO, che in qualche modo è la sua continuità in qualche modo italiana, mi abbiano influenzato particolarmente. Originariamente io non avevo stretti rapporti con la letteratura potenziale. Ma poi, siccome io scrivevo questi testi, di gioco e di manipolazione dei materiali verbali in senso virtual-sperimentale, mi assegnano un premio, durante uno dei convegni a Capri, un anno che il tema era “Il Labirinto”, e in seguito mi nominarono addirittura Presidente (secondo le regole, chi ottiene questi premi favorisce poi la nomina di altri - è stato il caso di abj e Berio, tra i diversi cooptati - ogni anno ci sono due artisti che vengono premiati, di cui uno di norma è uno scrittore che è interessato a giochi linguistici o di letteratura potenziale). La “ricerca intraverbale”, di cui parlava Barilli, ecco, emerge evidente, per me, nella maggior parte dei casi in cui il testo è scritto per una occasione determinata, in stretta connessione con una circostanza precisa. L’idea prima che ha motivato il gioco formale è di rendere evidente la connessione tra “testo” e “opera”, e credo che la prima poesia da me così costruita fosse per Mario Persico. È un testo à contrainte e s’intitola Ballata delle controverità, e nacque per un catalogo d’esposizione, nel 1961. Questa Ballata delle controverità, finisce con una strofa che forma, in acrostico, il suo cognome, Persico, e iniziava «Piccolo Bosch...». Mario Persico è il pittore napoletano col quale ho collaborato maggiormente, del quale sono diventato amico negli anni Cinquanta, assieme con altri pittori napoletani. Con Persico continuo a lavorare ancora, per degli «omaggi», l’anno scorso a Goethe, e quest’anno in occasione della mia traduzione di nove sonetti di Shakespeare. A Napoli, quando ho conosciuto Persico, si era creato questo gruppo, diciamo di “nucleari napoletani”, ammiratori di Baj, al quale si scoprirono vicini nella loro ricerca. Ci fu insomma una grossa intesa tra il nuclearismo milanese e i pittori napoletani. Il gruppo nuclearista napoletano faceva inoltre a quel tempo una rivista, il “Gruppo 58”, che usciva a Napoli, molto bella. Uno di questi pittori, al quale pure ero molto legato, era Guido Biasi, che andò a Parigi e poi morì precocemente; un altro pittore del gruppo è Lucio Del Pezzo, che è vissuto a Parigi e ora risiede a Milano, col quale anche ho lavorato molto. Ma quello con cui ho lavorato più costantemente è stato appunto Persico, anche se poi ci sono stati altri pittori per me importanti, specie della generazione più giovane, come Antonio Fomez, o Geppino Cilento. Cilento lo conobbi negli anni di Salerno, quando eravamo tutti e due molto legati al Partito Comunista; ci siamo incontrati credo per un’occasione politica, perché abbiamo fatto insieme dei manifesti, come quello per la Federbraccianti e quello per il Primo Maggio. Tra me e Cilento si è trattato di una conoscienza “politica”, che poi divenne amicizia, ma quello che ci avvicinò fu questo, una serie di occasioni “impegnate”. Fomez l’ho conoscito anche lui negli anni salernitani, ma credo che l’amicizia sia cominciata successivamente, in quanto lui è più giovane di Persico e di Biasi; lo conobbi, credo, a Salerno, dopo il ’68. E Salvatore Paladino; ma Paladino lo conobbi poi indipendentemente, forse anche lui quando ero a Salerno, comunque in un periodo posteriore. La mia prima poesia per Lucio Del Pezzo risale al 1963, e si intitola Tavola ricordo. Nel 1984 Del Pezzo fece una serie di cose che si ispiravano all’Hypnerotomachia, e mi chiese se volevo scrivere qualcosa a riguardo. Io allora il testo lo scrissi, e lo lessi per la prima volta a Milano, ma quel testo è una cosa di infernale difficoltà, costruito tutto su parole e modi e locuzioni del Polifilo, e ha continuato a variare questi temi polifileschi anche in quadri recenti, riprendendo le figure allegoriche della piramide, dell’elefante, della sfera, emblemi tratti dalle straordinarie illustrazioni del libro, che è facile dire se è più interessante per le incisioni o per il testo. L’idea di partire dal Polifilo era sua; mi chiese solo di scrivere qualcosa, e io accettai, e lo feci prendendo materiali verbali del Polifilo e rimontandoli, con il titolo di Erothypnomachia. Il Polifilo era comunque già entrato nella mia “poetica”, era un testo che amavo molto già da tempo. Mi ricordo che la prima volta nella mia vita che ne ho visto un esemplare originale ero a Parma, ero un ragazzino. È stato un incontro indimenticabile per me.
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GIOVANNI CARDONE

mercoledì 26 aprile 2023

SEGNALAZIONE VOLUMI = ANTONIO SPAGNUOLO


**Antonio Spagnuolo: "Riflessi e velature" Ed. La valle del tempo -2023 -pag. 76 - € 10,00
--Lettura di Carla Malerba. =
In questa raccolta della maturità della vita, Antonio Spagnuolo compie una severa introspezione su se stesso. Egli deve fare i conti con i fantasmi dei ricordi:
“immagini che sono ragnatele/ dipinte nel cristallo che batte alle tempie”.
Tre sono le sezioni dell’opera: Circostanze, Visioni, Frammenti e in esse la meditazione ne rappresenta la centralità , una meditazione che, specie nelle ore notturne, quando le parole paiono rimbombare, quasi incaglia il poeta mentre la visione amata trascolora fino a dissolversi. La presa di coscienza dell’impossibile si fa netta:
“Le nostre sere più non torneranno/ perfezione che avviava all’infinito”
I segni quindi non sono di conforto, ma sono spirali anguste che delineano crudamente la verità.
Sembra al poeta che il rimpianto, non più alleggerito dalla speranza, nel tempo che lo raccoglie, tutto acquieti. Ma forse è un’impressione, perché si leva l’invocazione, egli chiede solo un momento per un ritorno impossibile, agognando altrove un ricongiungimento ideale con la persona amata.
Pur profondamente amaro nella sua debolezza, Spagnuolo cerca un palliativo al dolore dell’esistenza in un colloquio che non si interrompa mai: così il lettore cerca una blanda parvenza di pace, ma i versi si rincorrono e le immagini si fanno dolorosamente nitide in una alternanza di dolcezze e di rimpianti e culminano nella parola poetica:
“nel tentativo di un commiato/ ricamo note/ per una melodia d’addio”
Improvvisamente la sezione Visioni apre a descrizioni di opere d’arte che hanno ispirato il visitatore facendo scaturire versi preziosi dove si incontrano cromie e appunti derivanti dalla bellezza delle opere osservate. L’atmosfera di attesa definisce parole dal lessico preciso:
“altro spazio, altro tempo filtra da reti/dove l’oblio cerca nuovi colori…”
I momenti di contemplazione sono nitidi flashes, impressioni cromatiche, ricami dagli intrecci in cui sempre si insinua la memoria.
Anche in Frammenti, l’ultima delle sezioni di “Riflessi e velature” ricorrono parole quali illusione, desideri, frammenti, rovi, petali: qui Spagnuolo esprime gli stati d’animo con musicalità sapiente, ricorrendo a memorie che non tacciono, rivolte ad un’attesa che rimane indefinita, ma che a tratti, ma solo a tratti, dona un’amara rassegnazione.
*
CARLA MALERBA

domenica 23 aprile 2023

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO


** “ Onde”
Il mare su di noi per affogare
azzardando lontananze,
sottraendo acuminate frecce dal fianco
e risarcire desideri a fantasie,
trascorse nelle magiche forme di illusioni.
Tale è il pensiero che potrà fermare
quella prima alba sul letto imprudente
ad opera di un filtro reso leggenda.
Il riposo spezzato
dove ha origine il cristallo della mano.
Errabondo nella immorale ambrosia
intreccio il vuoto dell’amante!
Piantato nel cerchio della sottile malizia
ho sbrindellato tutte le passioni
per diventare demone ad un tempo
e capelli di fiamma che tradisce.
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ANTONIO SPAGNUOLO

sabato 22 aprile 2023

POESIA = FRANCESCA LO BUE


**
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Grido secco-Grito seco
Chi ha ascoltato il grido dell'umanità? Di solito suole mascherarsi per non essere ascoltato. Si veste di verde a primavera, alle volte risplende in estate. Ma il grido perdura in un ghigno silenzioso: grida lo strappo del male, grida il suo sconforto, il suo malessere; grida il tradimento e il sangue versato. È grido di bocca aperta; grido prolungato e non udito.
“!Será siempre desprecio!
!y no serà olvido ni lo tendrà!”
"E sarà sempre spregio.
E non ci sarà dimenticanza".
Il male originale del dolore striscia nel sotterraneo della carne, divora l'esistenza.
“el fantasma de ojos vagos... Y es espacio seco, tierra muerta, siembra inútil”
" il vuoto fantasma dagli occhi vaghi
Ed è spazio secco, terra morta, semina inutile".
Ghiaccia il respiro umano.
“Caen los caràmbanos del amanecer,
se fijaron y fue fuego helado: erizado nudo tembloroso de culpa, soledad y silencio.
Flores negras de maldicion, conjuros y desafio,”
“Caddero stille all’alba,
Si fissarono e fu fuoco gelido: nodo tremante irto di colpa, solitudine e silencio.
Fiori neri di maledizione, congiuri, sfide,”
Ansima la luce e il respiro:
*
“Jadea el lucero triste de la madrugada,
?Expía el sauce solitario, en lágrimas secas el rubor fragante de la mañana?”
“Ansima la stella triste del mattino,
espia ,in lagrime acre, il salice solitario, il suo luccichio fragrante”
Fino alla negazione più totale. Il male silenzioso arriva al suo apice e balla la sua Danza macabra.
*
“El, el Mal Silencioso, coágulo punzante de aquelarres,

Apúrate acecha la muerte, llega,
y es el fin, la ceguera sin bordes,”
“Lui, il Male Silenzioso, punzecchiante grumo di tregende

Spia la morte, di fretta arriva,
ed è la fine, la cecità completa,”
*
Però il male perdura.
“Serà siempre, como la mueca tenaz del sufrimiento,
en vez del olvido sereno en la inmortalidad sagrada.”
“Sarà sempre come il ghigno tenace della sofferenza
invece dell’oblio sereno nell’immortalità sacra.”
*
"Intorno alla lingua madre italiano-spagnolo di F. Lo Bue"
Non è innovazione linguistica né velleità accademica quella di Francesca se non un sentimento che lo spagnolo esprime e vive, e l'italiano rincorre fino al parossismo.
Il sentimento è doppiamente profondo e dolente.
Come spiegare questo sdoppiamento? Sdoppiamento nella unità, lo chiamerei.
Perché mi pare che, sebbene Francesca viva la quotidianità in Italia, la sua anima si proietti nel vivere di Mendoza. Allora ogni azione e ogni sentire è magnificato al suo doppio. E da questo non può staccarsi. La traduzione della sua propria poesia, già scritta in spagnolo, denuncia questa sensibile e peculiare caratteristica.
*
Aurelia Rosa Iurilli
***
Grido secco, il male che permane
*
Nebbie di ruscelli sulfurei,
sudore fumoso di muraglioni di stagno,
serpi scarlatte per i sotterranei di pietra,
e sarà sempre spregio!
E non ci sarà dimenticanza… Minaccia la Montagna arroventata dai boschi incendiati,
il vuoto fantasma dagli occhi vaghi…
Ed è spazio secco, terra morta, semina inutile.
Caddero stille all’alba,
si fissarono e fu fuoco gelido: nodo tremante irto di solitudine e silenzio.
Fiori neri di maledizione, scongiuri, sfide,
freddi incensi lividi che vacillano e piano si spengono,
per l’irata freddezza, per l’ostinato indecifrabile rifiuto.
Ansima la stella triste del mattino ?
Espia, in lagrime acre, il salice solitario, il suo luccichio fragrante?
Inchioda il suo cuneo, affonda il suo becco,
Lui…il Male Silenzioso, punzecchiante grumo di tregende.
Il male assetato e supplicante è lí da sempre,
fili crudeli tessono le innumerevoli pantomime delle mummie.
Lí va, serpeggia per le vie, si muove coi suoi ceppi per abitacoli grigi,
irradiante mistero in lacrime nascoste.
E’ questo?
Può essere questo?
Spia la morte, di fretta arriva,
ed è la fine, la cecità completa.
Sarà sempre, come il ghigno tenace della sofferenza
in vece dell’oblio sereno nell’immortalità sacra.
E pozzi perenni di calce, incisioni di impronte di cenere, addii inamovibili di quarzi screziati,
il male denso che rimane, finisce, riappare e non è dimenticato.
*
Grito seco, el mal que permanece
*
Neblinas de arroyos sulfúreos,
sudor humoso de murallones de estaño,
por subterràneos de piedra, entre serpientes escarlatas.
¡Serà siempre desprecio!
¡y no serà olvido, ni lo tendrà.
Es la candente Montaña que amenaza desde bosques incendiados,
el fantasma de ojos vagos...
Y es espacio seco, tierra muerta, siembra inútil.
Caen los caràmbanos del amanecer,
se fijaron y fue fuego helado: erizado nudo tembloroso de soledad y silencio.
Flores negras de maldición, conjuros y desafío,
fríos inciensos morados de ramajes que vacilan y se apagan,
por el ostinado indescifrable rechazo.
Jadea el lucero triste de la madrugada,
¿expía el sauce solitario, en làgrimas acres, el rubor fragante de la mañana?
Acuña su cuño, hinca su pico,
Él, el Mal Silencioso, coàgulo punzante de aquelarres.
El mal sediento y suplicante està allí desde siempre,
hilos crueles entraman las innumerables pantomimas de las momias.
Por ahí va, serpentea por aceras anónimas, se mueve con sus estacas por habitaciones grises,
irradiando misterio de furtivas làgrimas.
¿Es esto?
¿Puede ser esto?
acecha la muerte, llega,
y es el fin, la ceguera sin bordes.
Serà siempre, como la mueca tenaz del sufrimiento,
en vez del olvido sereno en la inmortalidad sagrada.
Y seràn pozos perennes de cal y marcadas huellas de cenizas, adioses inamobibles de
cuarzos.
Él es extinción, caída y persecución, el mal que se queda y no acaba, reaparece y no es olvidado.
*
Francesca Lo Bue

giovedì 20 aprile 2023

SEGNALAZIONE VOLUMI = DONATELLA NARDIN


**Donatella Nardin: “L’occhio verde dei prati” – Fara editore – 2023 - pag.144 - € 13,00
Sviluppata in maniera del tutto personale la parola che dà vita ai versi scorre in una ricchissima rete riportando nei margini razionali quelle emozioni che rimbalzano segnando impegni di luccichii e di impazienze nel prisma delle emozioni e delle riflessioni.
Scrive Carla De Angelis in prefazione: “La sacralità della natura è tutta in questi versi attenti ad ogni cenno di risveglio. Sono le madri a custodire e raccogliere e nutrire, soprattutto ad amare. Sono versi che si leggono d’un fiato tanta è l’armonia e la delicatezza/dolcezza che li contraddistingue. Orizzonte aperto perché il compito è continuare a vivere in attesa di una gioia o di ripetuti silenzi, mentre la natura ci nutre di colori e luce e ci disseta. Versi importanti che hanno la penna in mano e lo sguardo rivolto alla madre (natura).”
Con testo a fronte, sapientemente ed egregiamente tradotto in inglese da Ivano Mugnaini, ogni componimento ha una sua ragione di elevarsi, per lo scorrere rapido delle figure e per il ritmo serrato che accarezza la musica. Tra lo stupore delle meditazioni e la sottile arte dell’esplorazione, tra le riflessioni razionali e gli inaspettati rimbalzi del sogno, tra i “profumi impazziti” dei ciliegi e “l’imbronciata attesa di un mattino”, tra le corde misteriose della memoria e la meraviglia di un incontro, ogni accento ripete con sicurezza l’intensità del risalto, anche nel crogiolo di quelle ombre che si affacciano nella quotidianità.
“Ringraziare ogni risveglio che sia/ sassopietra o nuvolafiore,/ nell’attimo essere immensamente/ grati – ai prati, al mondo, fosse/ pure ai respiri affannati –/ prima che il verde esca dagli occhi/ come le vite care divenute/ allo sguardo pura nostalgia.”
Donatella Nardin ha la poetica capacità di percepire “il crepitio del buio”, di sbirciare per “vedere una fulgida rosa/ attraversare il tempo muto/ del non ritorno per lenire/ lo strazio del mondo”, di immaginare “l’impasto di parole per l’occhio interiore” in grado di palesare anche il mistero.
Scrittura che contrassegna una salda preparazione culturale, decisamente e luminosamente scrostata da inutili stereotipi, che purtroppo abbondano nei fugaci tentativi di molti giovani che si affacciano impreparati alle falde del Parnaso.
*
ANTONIO SPAGNUOLO
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Donatella Nardin è nata e risiede a Cavallino Treporti (VE). Dopo gli studi classici, ha lavorato nel settore turistico. Sue poesie e racconti, premiati in numerosi concorsi letterari, sono stati inseriti in antologie di diverse case editrici (LietoColle, Empiria, La Vita Felice, Puntoacapo, Terre d’ulivi…), in alcune riviste anche straniere, in siti web e lit-blog. Alcune sue liriche sono state tradotte in inglese, francese e giapponese. In poesia ha pubblicato: con Il Fiorino la silloge In attesa di cielo e la raccolta di haiku Le ragioni dell’oro; con Fara Terre d’acqua e Rosa del battito. Sue sillogi sono state di recente premiate e inserite nei volumi: L’altra metà del cielo Ibiskos Ulivieri 2021), Distanze obliterate (Puntoacapo 2021) e Premio di Poesia Città di Mestre 2022 (Mazzanti Libri). In uscita la raccolta poetica Il dono e la cura (Aletti Ed.) con versione in arabo di Hafez Haidar.

mercoledì 19 aprile 2023

SEGNALAZIONE VOLUMI = CLAUDIA PICCINNO


**Claudia Piccinno: “Implicita missione” – Ed. Fara editore – 2023 – pag. 80 - € 12,00
Lo scorrere policromatico di interrogativi riesce a trascinare il pensiero in una ininterrotta corsa verso rielaborazioni di istantanee fulminazioni.
La voce sussurra quelle armonie che dalle ombre riescono a svelare singulti, intermittenze, domande, indecisioni, sospetti, albeggiare di illusioni, “disperata ricerca di senso, una microstoria di ordinario dolore”.
Sottotitolo: "La fotosintesi della memoria" quasi ad accompagnare il lettore all'emblema distintivo di un preciso codice
Claudia Piccinno è docente, attenta e illuminata traduttrice, autrice di numerosi volumi di poesia, impegnata spesso in prefazioni e saggi critici, e dimostra, con questa sua ultima raccolta, una limpida capacità di usare “la parola”, sia nel cesellare immagini evocative “rincorrendo chimere”, sia nel proporre qualche adagio filosofico per “giocolieri al crocevia di un desiderio”, sia per improvvisi innalzamenti del registro anche quando “perso è il dialogo dei sognatori in odorosi nidi di anime pellegrine”.
“E la missione implicita della poesia di Claudia – scrive Emanuele Aloisi in prefazione – diventa consapevole strumento di amore e difesa nei confronti della donna.” In una evidente passione letteraria che trova contagio nella stessa apertura esistenziale del poeta, a volte ripercorrendo tappe del passato, a volte immergendosi nel brillio del ritmo, profondità e vigore dei suoi versi, a volte celebrando colori di una inaspettata forza rigeneratrice, lontana dalla tentazione panica e avvolta in una realtà per la quale “ è una certezza nella vita dare valore a chi ci è stato accanto.”
Scrittura privilegiata la sua, per un testo elegantemente suddiviso nelle quattro sezioni: “Poesie varie”, Haoku”, “Taurogrammi”, “Dediche”, che si susseguono come un variegato diario sempre molto attento alla musicalità del dettato.
*
ANTONIO SPAGNUOLO .

martedì 18 aprile 2023

MAURO GIANCASPRO CI LASCIA

****Il mondo culturale napoletano, e non solo, è in lutto: se n'è andato a soli 73 anni Mauro Giancaspro, per diciannove anni solerte ed intelligentissimo direttore della Biblioteca Nazionale, animatore di eventi e dibattiti, autore di libri e raffinato collaboratore per quotidiani e riviste. La sua prestigiosa firma era di spicco negli agoni più disparati e nella creatività di varie esperienze. Amico sincero e lampegginate, collaboratore di molte imprese culturali che ci hanno visto fianco a fianco.

domenica 16 aprile 2023

PRESENTAZIONE DEL VOLUME "RIFLESSI E VELATURE"

sabato 15 aprile 2023

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO


**poesia tradotta **
-
El árbol del amor aún me turba
con sus hojas, casi delirio
entre la linfa y el corazón extraviado.
Como antigua aparición las ramas
han acogido el grito de la súplica
en el débil rayo del ocaso,
y la raíz a la alegría entre verdades enloquecidas,
contra las noticias del día
contra la multitud de esperanzas
que quisieran calentar los huesos de los difuntos…
inmóvil se separa desde lo profundo
la palabra que huye.
Por eso cada día en Ti
aprieto las sombras de la fe
con los brazos en cruz
esperando de romper el silencio.
*
Traduzione Francesca Lo Bue
Del volúmen “ Yo te seguiré” 1999, prefacio, Gennaro Matino
*
**L'albero dell'amore mi turba ancora
con le sue foglie, quasi delirio
tra la linfa e il cuore randagio.
Come un aspetto antico i rami
hanno accolto il grido di supplica
nel debole raggio del tramonto,
e la radice della gioia tra le verità folli,
Contro le notizie del giorno
Contro la moltitudine di speranze
che vorrebbe scaldare le ossa del defunto...
immobile separa dal profondo
la parola che fugge.
Ecco perché ogni giorno in Te
Stringo le ombre della fede
con le braccia incrociate
in attesa di rompere il silenzio.
ANTONIO SPAGNUOLO
DAL VOLUME " IO TI INSEGUIRO' " DEL 1999 - PREFAZIONE GENNARO MATINO.

SEGNALAZIONE VOLUMI = LORENZO SPURIO


**Il critico Lorenzo Spurio raccoglie in Il tuffo di Colapesce saggi e recensioni sugli autori siciliani
Il tuffo di Colapesce, dal nome della celebre leggenda popolare marinara di Messina (della quale si hanno varianti), superbamente cantata dall’indimenticata Maria Costa – poetessa dello Stretto – propone un ricco compendio di saggi, articoli, interviste e testi critici che Lorenzo Spurio – apprezzato critico letterario marchigiano, uno dei maggiori studiosi lorchiani del nostro Paese – ha raccolto nel corso degli anni studiando e approfondendo alcuni classici siciliani (Sciascia, Tomasi da Lampedusa, Brancati, Vittorini e non solo), tra poesia (tra cui quella del “poeta in piazza” Ignazio Buttitta) e narrativa, giungendo a numerosi contemporanei per i quali ha scritto prefazioni e recensioni.
In lungo e in largo si ripercorre le varie “punte” della bella Trinacria, luogo a lungo e ripetutamente visitato dall’autore nel corso degli anni – come ricorda in un avvincente “Diario di bordo” inserito nel volume – intrattenendo rapporti con poeti, scrittori e artisti di questa regione che lo affascina e che considera come una seconda casa. Disamine attente sono rivolte anche nei riguardi dell’impegno di alcuni esponenti noti per il loro attivismo anti-mafioso (Danilo Dolci, Peppino Impastato e Maria Saladino). Non da ultimo, l’attenzione del critico è rivolta pure verso gli sperimentalismi letterari che negli ultimi anni sono nati proprio in Sicilia: il dittico poetico (Emanuele Marcuccio), la corto poesia italiana (Antonio Barracato e Dorothea Matranga), la poesia sculturata (Giovanna Fileccia) e la quarto-poesia, il trinismo e la “scalenata” (Rosario Loria).
La vicenda di Colapesce – a cui il bagherese Renato Guttuso dedicò uno dei centoquarantatré pannelli decorativi installati nella volta del Teatro Vittorio Emanuele di Messina e il cui motivo del “tuffo” è richiamato, seppur in forma stilizzata nella copertina del libro di Spurio – ha a che vedere con la leggenda (divenuta mito) che narra della triste storia di un certo Nicola, figlio di un pescatore, la cui grande abilità nel nuotare e la cui simbiosi con le acque del mare, lo vede trasfigurato (ed è questa l’avvincente icona che gli si lega e si tramanda) in una figura chimerica di uomo-pesce. Viveva placidamente nel fondo del mare, ma quando il re lo chiamò sulla terraferma per implorarlo di aiutarlo e consegnarli una missione, non si fece attendere. Il sovrano, infatti, derelitto e impaurito, (secondo un’altra variante il Sovrano, invece, lo sfidò tendendogli delle prove sott’acqua, via via più difficoltose) gli comunicò che la sua Regione (sorretta da tre pilastri, con uno in imminente disfacimento) era in procinto di sprofondare e così Colapesce accettò di tuffarsi per cercare di sorreggere la Sicilia. Da allora è là sotto: secondo alcuni è morto, non essendo più risalito in superficie, secondo altri, invece, con spirito sacrificale oltre ogni limite, è ancora là, fattosi colonna perpetua, come un marmo incorruttibile, a puntellare la Sicilia che, proprio grazie a lui, è salva e persiste. Seguendo questo tracciato popolare tramandatosi nel tempo secondo alcuni i movimenti sismici che si percepiscono nella zona Messina-Catania sono da imputare proprio a Colapesce che, sott’acqua, per cercare di riposarsi del grande peso che porta, ogni tanto cambierebbe la spalla su cui tutto grava. Non è la prima volta che Lorenzo Spurio dedica un libro alla poesia di questa regione del nostro Meridione: nel 2019, infatti, aveva curato un elegante volume antologico (Viaggio in Sicilia) con poesie di poeti siciliani contemporanei che nel corso del periodo 2015-2018 avevano preso parte ai reading poetici da lui organizzati e promossi, con l’Associazione Euterpe, in Sicilia. In quel caso ciascun testo poetico era anticipato da una nota bio-bibliografica degli autori e l’opera si componeva di alcuni brani in ricordo e commemorazione di illustri esponenti delle Lettere della Trinacria venuti a mancare. Volume che, pur stampato a tiratura limitata in raffinata veste editoriale, ottenne importanti adesioni – in termini di riconoscimento del lavoro e di Patrocinio morale – da parte di distinti centri di cultura (Università di Palermo, Accademia Federiciana di Catania, Istituto di Cultura Siciliana di Catania, Centro Studi “Maria Costa” di Messina, etc.), oltre che di amministrazioni locali.
Il tuffo di Colapesce, libro che conta circa quattrocento pagine, ordinabile in tutte le librerie online, inaugura la collana “asSaggi”, interamente dedicata alla critica letteraria, all’interno del Gruppo Letterario Culturale Edizioni (G.C.L. Edizioni) di Pulsano (TA) diretta da Gian Carlo Lisi.
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giovedì 13 aprile 2023

SEGNALAZIONE VOLUMI = CARLA MALERBA

***Carla Malerba : “La milionesima notte” – Fara editore – 2023 - € 12,00
Quasi il ventaglio di una frammentazione del pensiero in quella atmosfera che affonda con le immagini per rincorrere le onde e immergersi nelle luminosità della folgorazione. L’esistenza si rispecchia nel ritmo della quotidianità, prima di abbandonare illusioni, e: “Solo per questo/ lettere di fuoco/ non bastano/ a dire che è sogno/ si sia potuto vivere/ o morire/ come estratti da una lotteria”.
Alessandro Ramberti scrive in postfazione:
“C’è una intensità concreta e saggia nelle poesie di Carla, e se il suo sguardo appare abbastanza disilluso (“guardarci attorno / non ci basta a vivere”, p. 21) non è mai però venato di pessimismo: si constata certo con piglio qoethiano la realtà, ma gli occhi sanno percepire altro e infondere una speranza senza enfasi eppure, di fatto, illimitata per cui, se “Sembra caduto il cielo / su di noi”, la poetessa libico-aretina non si perde d’animo, ma ci ricorda con fiducia a p. 53 che “siamo stelle destinate / a effondere parabole di luce” e che (p. 52) “La solitudine dell’anima si allarga / eppure è solitudine compagna” (v. anche la poesia introduttiva di sezione a p. 28).”
Il flusso dei ricordi ricama versi di una plasticità del tutto personale e si rincorrono ritmi che attraggono l’attenzione per considerazioni strettamente legate alle figurazioni e alle metafore che invitano ad una sorta di visione aperta in chiave ideologica.
La poesia diventa il respiro profondo, la chiave segreta ed ideologica, fedele alle radici che non possono più nascondere profonde risonanze e policromatici ritocchi. Mentre l’assedio dei giorni non riesce a segnare determinati confini “il silenzio regala spazi lucenti….sull’orlo evanescente del sogno”, e il sussurro diviene testimone, che con la parola scritta riesce a modulare schegge e piccole incursioni per un itinerario che potrebbe essere prestabilito dalle emozioni.
Il tocco ha delle chiuse che riescono a riportare il lettore alla realtà che incombe, al pensiero del nulla che siamo, alle atmosfere sospese dei sentimenti, all’alternarsi delle vicende, che scorrono tra la fulmineità di un’incisione e la massima disponibilità della ricerca. Scompaiono e ritornano i fotogrammi, in una serie di dissolvenze incrociate o nelle particolarità di un cesello, così come il vento contro i vetri rimbalza in un impeto che ritorna al cielo.
L’improvviso cobalto del pennello traccia sorprese ed ombre ed invade le stanze tra pareti discrete, capaci di sospendere anche l’ansia dell’amore.
*
ANTONIO SPAGNUOLO
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Qui la postfazione di Alessandro Ramberti
**
“fino a trovare la gloria della luce”
È molto femminile la voce di Carla Malerba, si sente che ha vissuto, viaggiato, incontrato, assaporato, amato …il suo canto vola alto e leggero e si abbassa dolcemente per incoraggiare, per donarci quel luogo prezioso che è lei stessa, bussola necessaria a non perdersi, anzi ancora di più a ritrovarsi, a riscoprire in sé stessi risorse latenti e dimenticate, ad accettare e curare le ferite lasciate da eventi funesti.
La notte è lo spazio in cui i pensieri si rincorrono, si fissano sulla tela effimera dei sogni, si intersecano a pulsioni, sentimenti, desideri, in un gioco chiaroscurale, in cui si crea quella tensione che ci mette a un po ’a nudo, con amorevolezza, come abbiamo, ad esempio, appena visto nell’ultima poesia della raccolta,
Al buio scrivo parole
che la mente illumina
e guida la mano
il pensiero del nulla che siamo.
o in quelle alle pagine 17 e 18 da cui stralciamo i brani seguenti
La notte era flusso
di maree
si consumava l’amore
fino allalba’
le barche parevano
smarrite in alto mare.
La notte come uno sposo
mi accudisce
mi circonda
col suo silenzio
mi regala spazi lucenti.
C’è una intensit àconcreta e saggia nelle poesie di Carla, e se il suo sguardo appare abbastanza disilluso (“guardarci attorno / non ci basta a vivere”, p. 21) non è mai però venato di pessimismo: si constata certo con piglio qohletiano la realtà, ma gli occhi sanno percepire altro e infondere una speranza senza enfasi eppure, di fatto, illimitata per cui, se “Sembra caduto il cielo / su di noi”, la poetessa libico-aretina non si perde d’animo, ma ci ricorda con fiducia a p. 53 che “siamo stelle destinate / a effondere parabole di luce ”e che (p. 52) “La solitudine dell’anima si allarga / eppure è solitudine compagna ”(v. anche la poesia introduttiva di sezione a p. 28).
C’è dunque un timbro musicale mozartiano diffuso in questa Milionesima notte che dispiega immagini radiose ed altre senza infingimenti, con le loro asperit àe crudezze, ma al contempo, con la sua musica, il flusso poetico riesce a riscattare la negatività, ci offre il modo di considerare le situazioni nella loro impegnativa e a volte dolorosa complessit à(evidenti, ad esempio, i riferimenti alle restrizioni imposte dalla pandemia) e a farne memoria, dunque a reagire. Gi àla condivisione e il ricordo sono infatti un modo per non restare inerti in una passiva accettazione, ma per sentirsi in relazione, membri di una comunità, consapevoli di essere sulla stessa barca. Abbiamo davvero bisogno di recuperare i tratti di una umanit àche non isoli le persone e non dimentichi di essere frutto di un tessuto di incontri, di vicendevoli gesti di attenzione e di amore (rileggiamo in tal senso la splendida poesia a p. 23, “Se dopo la notte / ci fosse un giorno estremo…”).
Anche la morte, se abbiamo amato, se ci siamo donati, viene accolta come avvenimento naturale che apre a una nuova incognita e folgorante dimensione, (cfr. la poesia dedicata Ad Alfredo R.):p. 49
È ’lultimo giorno
avido di vita.
Quanto vicino al nostro
il morire del fiore
quando sapremo
di quell’ultimo giorno
’lestremo suo fulgore.
*
Rimini, 21 febbraio 2023

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCESCA LO BUE


***I Canti del pilota*** I Canti del pilota è il titolo del penultimo libro pubblicato dalla poetessa italo-argentina Francesca Lo Bue, una delle voci più originali del panorama letterario degli ultimi anni.
Uscito nel 2019 a Roma, presso la Società Editrice Dante Alighieri, non ha fino a questo momento incontrato tutto l'interesse che merita (a parte alcune puntuali segnalazioni, come quella firmata da Raffaele Piazza sulla rivista online “Literary”, 1,2020); la causa di questa lacuna, a cui si vuole ora rimediare, va ricercata essenzialmente nella brusca interruzione delle attività e delle iniziative di carattere culturale, nonché dei contatti personali (meglio conosciuta come lockdown ) che ci ha colpiti tra il 2020 e il 2021 in seguito alla pandemia del Covid19.
L'elegante volumetto, che la poetessa ha dedicato ai suoi tre figli: Giovanni, Nicolò e Rosa, contiene 98 componimenti in versi liberi, presentati in una doppia redazione bilingue, di cui la prima in spagnolo seguita dalla versione in italiano; quest'ultima, tuttavia, non deve essere interpretata semplicemente come una traduzione letterale della prima: per chi conosce la scrittura di Francesca Lo Bue sa che entrambe le stesure sono il frutto di una ispirazione contigua in cui una lingua va incontro all'altra e dove è soprattutto il piano fonico a dettare la scelta delle parole, ed è proprio questo il tratto distintivo del suo fare poesia ( aspetto sul quale si tornerà più avanti). Le poesie sono precedute da una folgorante introduzione intitolata Pizia ovvero della metafora poetica: vero e proprio accessus all'intero corpus poetico: l'autrice, come novella Pizia - la sacerdotessa di Apollo - ci trasmette un messaggio oracolare di difficile decifrazione: “La poesia, con gli enigmi che ci pone, con le sue metafore, con l'espressione pura di parole-visioni, folgorazioni e sinestesie ci apre all'oscurità del mistero”.p. 9. Tra le 'soglie' del testo vengono riportati in epigrafe i bellissimi versi di Commiato di Giuseppe Ungaretti a Ettore Serra:“Quando trovo/in questo mio silenzio/una parola/ scavata è nella mia vita/come un abisso” (cuando encuentro/en mi silencio/una palabra/excavada está en mi vida/como un abismo). Può sorprendere la presenza di Ungaretti ( un poeta in fondo lontano dall'orizzonte intertestuale di Francesca) di cui, però viene accolta e fatta propria l'accezione di miracolosa scoperta che comporta la ricerca della parola poetica. Non va dimenticato che il titolo di una delle sue prime raccolte è proprio L'emozione nella parola (por la palabra, la emociòn), Roma, 2010.
Dopo queste precisazioni il lettore è preparato a non aspettarsi da questo nuovo libro di Francesca Lo Bue una poesia accogliente, di facile comprensione; il linguaggio dei Canti del pilota è visionario, spesso oscuro, teso ad esplorare una condizione esistenziale sepolta in un passato lontano e talvolta traumatico che solo la parola poetica è in grado di riportare alla superficie. La nozione di 'scarto' mediante la quale dai poeti simbolisti in poi si definisce la lingua poetica rispetto alla lingua comune è forse quella che meglio si adegua alla sua poesia ed è visibile fin dalla scelta del titolo dove la parola 'pilota' non sta ad indicare come vorrebbe la lingua standard la persona posta alla guida di un veicolo ( comunemente ci si riferisce al pilota di aereo, al pilota automobilistico), quanto colui che anticamente dirigeva il corso di una nave o di un'imbarcazione, come si ricava dall'illustrazione posta in copertina che riproduce una raffinata pittura murale di provenienza egizia. 'Pilota' è un termine dal sapore arcaico che peraltro, nella forma maschile, compare, ad esempio, nei Sepolcri di Ugo Foscolo: “Felice te, che il regno ampio de' venti/ Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!/ e se il piloto ti drizzò l'antenna/oltre l'isole Egée...” (vv.213-215). Nel nostro caso il 'pilota' è l'alter ego dell'io lirico al quale presta la voce guidandolo attraverso un viaggio simbolico nelle acque lontane e misteriose della memoria ( “Il pilota della lontananza,/il pilota del Sur, viene con ali vittoriose nel capo”/ El pilota desde lejos venía/ con alas victoriosas en la cabeza” si legge nella poesia Andromeda, pp.84-85).
Ci sembra indispensabile, per un inquadramento critico più preciso della sua poesia, dedicare uno spazio alla biografia di Francesca Lo Bue. La futura poetessa è arrivata, poco dopo la laurea, nel 1979 a Roma dall'Argentina, in particolare da Mendoza ( dove la sua famiglia emigrò nei primi anni Cinquanta dalla Sicilia quando era bambina ). L'Argentina è stata per tutta l' infanzia e la giovinezza la sua patria: qui è cresciuta, qui ha appreso la nuova lingua, qui ha studiato laureandosi brillantemente in Lingua e letteratura spagnola presso l'Università di Cuyo, fino a quando, per un imprevedibile gioco del destino, è ritornata in Italia con una borsa di studio del Ministero degli affari esteri. Quello che doveva essere un periodo limitato ai due anni di durata della borsa ( durante i quali ha frequentato i corsi presso l'Università “La Sapienza” per poi specializzarsi in Filologia Romanza sotto la guida di Aurelio Roncaglia) ha finito per diventare un tempo indeterminato della sua vita e Roma- dove nel frattempo si era stabilita- una seconda patria. Questo distacco ha richiesto molti anni per essere elaborato dentro di lei. Nella poesia Fato / Hado p.76-77 leggiamo:” Quel che ti danno prendilo,/il destino è una mano esperta (Lo que te dan, tòmalo/el destino es una mano experta), un congedo sapienziale che dice molto di quanto le è accaduto.
Dovrebbe ormai essere chiara la ragione per cui Francesca Lo Bue ha scelto di scrivere le sue poesie nelle due lingue che le appartengono: lo spagnolo e l'italiano, entrambe due lingue necessarie, a nessuna delle quali può rinunciare, pena l'afasia che, per ammissione della stessa, l'ha colpita per anni, fino alla scoperta 'salvifica' della parola poetica: grazie alla poesia è iniziata la sua rinascita e, in seguito, anche il suo esordio letterario, avvenuto piuttosto tardi, nel 2009, ma che da allora è stato continuo e che ci auguriamo proseguirà nei prossimi anni.
I Canti del pilota si presentano come un libro unitario, non come una semplice raccolta di testi; i componimenti sono infatti legati da uno stretto rapporto di coesione e di coerenza dove si possono facilmente rintracciare affinità di ispirazione e di significato. Al centro vi è il tema del viaggio mediante il quale la poetessa ricostruisce le proprie radici, definendo anche la propria identità per tanto tempo spezzata.
Tra i testi che sviluppano questo motivo di fondo, ricordiamo Exodo/ Esodo:“En éxodo huì/hacia paredes bruñidas de gotas celestes,/lumbre remota de lágrimas” ( “In esodo partii,/verso pareti gemmate di gocce celesti,/lucore remoto di lagrime”), pp.18-19, a cui possiamo aggiungere La casa avita /El hogar pp,58-59 entrambe incentrate sul motivo dell'esilio: “Abrir la casa del nacimiento,/sus murallas esperan,/Están los rostros de los mayores,/doliente humanidad/que clama continuidad, voz, destino” - Aprire la dimora della nascita/con le sue mura che attendono./ Ci sono le tracce dei maggiori,/la dolente umanità/ che chiama continuità, voce, destino”. Molto significativi risultano alcuni componimenti che traggono origine e forza dal mito, come Ifigenia, pp.14-15, figlia di Agamennone destinata ad essere l'innocente vittima sacrificale per placare la collera di Artemide, ma all'ultimo salvata dalla dea stessa, Ulisse, pp.42-43 l'eroe del nostos, del desiderio sofferto di ritornare a Itaca, fino al bellissimo racconto lirico sviluppato in Andromeda, pp.84-85, disseminato di scoperti elementi autobiografici. Il mito racconta che la figlia del re dell'Etiopia fu condannata a restare legata a una roccia come vittima espiatoria di un insulto divino fino alla sua liberazione per mano dell'eroe Perseo:” legata alla roccia luminiscente, “sognava. Sognava un promontorio lontano. Sognava l'orizzonte della sua patria sanguigna”- “atada a una roca luminiscente. Soñaba un promontorio lejano. Soñava el horizonte de su patria” . Centrale è anche il tema della ricerca della parola poetica che affiora nella poesia L'acqua/El agua, posta significativamente nelle pagine iniziali (10-11) e ancora nel sorprendente componimento Il gioco della campana / Rayuela, pp.74-75 : “Cerco l'innocenza delle parole,/gioiosa calligrafia dei gessi bianchi /Quando scendevano uguali a sé stesse,/uguali a me /alle mie risa e ai miei timori/Quando scivolavano succose come tenere pesche” -Busco busco la inocencia de las palabras/risueña caligrafía de tiza blanca...” dove l'autrice, ripensando a quel gioco infantile, ritrova come per incanto, la fluidità e la felicità di scrittura a lungo desiderate.
La navigazione che il 'pilota' ha intrapreso nella regione del lontano “Sur” in Egitto si conclude nelle calme acque dei canali veneziani. Alla città lagunare Francesca Lo Bue dedica, con il titolo Venecia/Venezia (pp.120-121) una delle poesie più paradigmatiche della sua ispirazione che vogliamo esaminare nel dettaglio nella versione in lingua italiana. La poesia è costituita da 22 versi liberi, con alternanza di metri brevi e lunghi, che trascinano il lettore in un “caleidoscopio infinito” grazie al potere immaginifico delle parole. Venezia viene evocata mediante una serie di metafore di primo grado, come ad esempio al v.2 “opalescenza di stelle e riverbero di plenilunio”; v.14 “Venezia, libro di viaggi”, v.17 “Venezia, sentiero di cielo”; v.18 “tepore di lucignolo”; v.19 “ ombra di fuoco perenne”, che si intrecciano al tessuto metaforico dell’intero enunciato poetico in cui le immagini-visioni emergono da un fondo magmatico ( v.5 Il naviglio che scende nel labirinto del sangue; v.8 C’è Medea che chiama tra muraglie di piombo ) creando un forte contrasto con la luminosità (“opalescenza di stelle, v.2; C’è una lagrima di brina, v.7; “mentre lo straniero mangia acini d’argento”, v.9, “negli occhi d’ambra della sera “v.10) che pervade il testo.
Al centro della poesia, come dell’intera raccolta, vi è l’idea del viaggio, rappresentato visivamente dal “naviglio”, v.5 (laddove la stesura in spagnolo predilige il termine ‘bajel’) e successivamente dalla ‘gondola’, evocata dall’elegante immagine del ‘cigno’, v.15: “fra i tuoi ponti il cigno/nel ventaglio delle onde” (la parola ‘cigno’ ricorre anche nella poesia Astronauta (p.39) in un contesto totalmente diverso): a Venezia, città di marmo, l’io lirico (il pilota) approda dopo un lungo viaggio (“Spume antiche mi portano alle tue soglie”, v.11) per prendere coscienza della propria pena: “nelle tue maschere,/la pena ancestrale del mio viso”, vv.21-22. Forti per intensità i richiami al mito greco degli Argonauti, al loro viaggio nella Colchide e al tragico amore di Medea (evocata, come ricordato sopra al v.8) per Giasone.
La struttura sintattica del componimento è prevalentemente nominale, le forme verbali sono piuttosto ridotte e ad esse è affidata la funzione narrativa appena percettibile nel testo. Quello che colpisce in questa poesia, e che, a mio parere, costituisce la cifra stilistica più rappresentativa della produzione di Francesca Lo Bue è l’uso di un lessico estremamente colto e ricercato attraverso il quale la poetessa ci restituisce, come impronte (“parole-orme”), le tracce del proprio vissuto. Il tutto è tenuto insieme con grande perizia dal tessuto fonico delle parole dove allitterazioni, ripetizioni e assonanze conferiscono musicalità a una poesia certamente poco melodica.
Attraverso i fenomeni della ripetizione si creano dei grappoli di fonemi che si propagano di verso in verso come rintocchi di passi e fanno pensare al viaggiatore che si inoltra con cautela nel dedalo delle calli veneziane ( e non sarà casuale che la parola ‘labirinto’ vi ricorra due volte, al v.5: “labirinto del sangue” e al v.18 “fra labirinti profumati di luce”). Ad esempio, nei versi iniziali troviamo la ripetizione della ‘p’( Pallida, opalescenza, plenilunio) a cui segue la l’allitterazione della ‘l’ (labirinto, lontana, lagrima), quindi del fonema ‘m’ (Medea, muraglie, mentre, mangia), seguito dalla ‘s’ (Spume, soglie, incenso, mosaici) per concludersi con la ripetizione della ‘v’ ( incavi, Venezia, ventaglio, Venezia) e di nuovo della ‘p ’nella perfetta allitterazione (pena purpurea, v.20).
Alcune assonanze alla fine dei vv.3-4 Infinito/destino; vv.5-6 sangue acque; vv.9-12 argento/incenso; 13-14 incantati/viaggi compensano l’assenza di rima del componimento. Nella quarta di copertina è collocata una poesia che non troviamo all’interno della raccolta intitolata Capitàno/Capitán: questa poesia ci rammenta in un estremo explicit lo spirito con cui Francesca Lo Bue ha affrontato la composizione di questo volume: dare voce al mistero sepolto dentro le cose e nell'inconscio di ogni individuo. Si leggano questi versi: “Dove vai capitano azzurro?... al mio cuore che ha un miraggio d’alberi? Dove vai? Verso l’orizzonte che sanguina?... E’ nata bellezza ed è visione di terrore e grazia/ed è canzone antica”.
Ecco, la Venezia che ritroviamo nella poesia omonima è una città apparentemente ferma, immobile: nelle sue architetture, nei suoi ponti, nei suoi canali attraversati dal leggero movimento dei remi di una gondola sono depositati millenni di storia e di memoria che soltanto la poesia, come Pizia, la sacerdotessa di Apollo, ci aiuta a decifrare.
Roma, 31 marzo 2023
*
Gabriella Milan

martedì 11 aprile 2023

POESIA = IOLANDA LA CARRUBBA


**Smettere**
Nell'attesa di niente
fumo
ho imposto astinenza ma
niente
la resa non sembra arrivare.
Il corpo vuole fumare
tossire
e capire se esiste
veramente.
La mente si pensa ventenne,
vorrebbe dormire truccata
lavarsi di dosso il giorno
scavare la notte dai muri.
Ho proposto
passeggiate calme
calde tisane d'oriente
creme profumate d'estate
vitamine al sapore di vita
e sale ma
non sembra affatto funzionare
e continuo ininterrottamente
a fumare
l'attesa vestita di niente.
---
**Al contrario**
Ieri sera c’era ancora
come il lunedì e
il giorno prima
poteva essere sparito
qualche minuto o secondo
ritrovato poi per sbaglio
in uno sbadiglio dagli occhi
troppo aperti per essere sonno
Senza apparente conseguenza
perduto era quel giorno smemorato
altri frammenti di giorni a pezzi
spazzavano via discorsi razionali
scendeva poi lento il sopravvento
di dire tutto - al contrario di tutto.
---
**Lista:**
Passi nel tempo
Tempo di passi
Medici e fiamme
Forme distorte
Vite sospese
Sale e cipolle
Pianti solisti
Risate segrete
Poi sonno
**
IOLANDA LA CARRUBBA
**
Iolanda La Carrubba poeta e videomaker nata a Roma nel 1978, ha pubblicato su diverse antologie tra le quali: Isola dei poeti a cura di Roberto Piperno e Francesca Farina ed. 2008-2009, Poeti per il giorno della memoria ed. Il Pitiglani 2013, Formafluens International Literary Magazine a cura di Tiziana Colusso 2020. Nel 2011 la sua prima raccolta pubblica Sottovuoto dedicata a Vito Riviello con prefazione di Plinio Perilli (Zona editore) con il quale vince il Premio Leandro Polverini. Nel 2014 la video poesia Salomè di Antonella Rizzo dove cura regia e montaggio, vince il primo Premio Don Luigi Di Liegro. Nel 2020 partecipa al progetto Corpo Elettrico a cura di Francesca Fini e Davide Cortese. Nel 2023 vince la selezione sezione Poesia della Biennale d’Arte di Roma a cura di Pino Chiovaro. Nel 2015 realizza il lungometraggio Senza chiedere permesso con protagonisti Fabio Traversa e Tiziana Lucattini, distribuito sul canale online di Minerva Pictures - Film&Clips. Nel 2012 fonda l’associazione culturale no profit EscaMontage, con la quale realizza diversi incontri con vari ospiti del mondo del cinema e della poesia, tra i quali: Antonio Catania, Silvia Scola, Aureliano Amadei, Catello Masullo, Silvio Raffo, Cinzia Marulli, Giovanna Iorio e altri. A oggi cura la rubrica PsicoPoesia un’indagine sul Fare poesia e di recente ha realizzato due documentari il primo Aspirante alieno incontro con Silvio Raffo dove analizza l’aspetto più classico, mentre il secondo ASMA di poesia entra nell’underground e viaggia nella performance. Sue poesie sono state tradotte in inglese e in spagnolo. Di lei si sono interessati: Marco Palladini, Gianpaolo G Mastropasqua, Ilaria Palomba, Sacha Piersanti e altri.