(Con un commento di Giorgio Linguaglossa)
"Il liquido reagente"
Cara Signora Jolanda W.,
Il mio Amico di Istanbul
dice che possediamo il Liquido Reagente.
Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma
[dell’Occidente
e il messaggio di aiuto nella bottiglia?
Lei parla con saggezza del Prodotto Interno
[della Felicità,
del fatturato della Felicità in vigore nel Butan.
Forse nel Butan era un sogno
e il rompicapo di misurare il PIF
non finiva con la luna piena.
Anche Lei conosce le cene cifrate, i segreti delle
[scarpe
che si toccano sotto il tavolo.
Sa, il motore della sofferenza dei poeti gracchia
sempre nello stesso istante del mondo,
questo mondo Lei e io lo chiamiamo “Rebus”
perché se ne infischia delle nostre domande.
*
[Da I platani sul Tevere diventano betulle,
Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2020, pp. 175, 12 Euro]
*
Commento di Giorgio Linguaglossa
Questa è una «poesia-polittico»: Gino Rago ha inventato di sana pianta un nuovo genere di poesia nel «Dopo il Moderno». Questa «poesia-polittico» è simile a un affresco rinascimentale dove ci sono molte e disparate cose qua e là, compreso un «Liquido reagente» che non si sa a cosa debba reagire, oltre a personaggi inventati e scam-bi di vedute tra interlocutori distanti migliaia di chilometri in un mondo ad una unica dimensione (sovranista, mediatico e populista).
In un certo senso, siamo molto oltre la grande elegia del passato recente che ha in Brodskij il suo grande poeta: ma con lui e dopo di lui l’elegia è diventata impercorribile perché una elegia per fiorire ha bisogno di una «casa», di una Heimat, di un «esilio», di una nostalgia…
Noi oggi non abbiamo piu una «casa» dove sostare e non possiamo avere neanche la nobiltà di un «esilio», e allora non rimane che la «poesia cartografia», la «poesia-polittico», la poesia che sfonda e sfocia nel futuro e nel passato ma senza alcun rammarico, come su una slitta e, direi, anche senza un presente…
In questa poesia c’e tutto: il passato e il futuro ma, incredibile, non c’è il presente, sintomo evidente di una
anomalia del nostro mondo… E qui sembrerebbe che la vicenda dell’homo sapiens e della metafisica occidentale
(«Ma chi davvero svela all’Occidente l’enigma dell’Occidente» scrive Rago), sia arrivata a compimento.
Le parole dei poeti diventano sempre più «deboli », la significazione poetica diventa sempre più «debole», le parole si sono raffreddate, dormono il loro sonno iperbarico e iperboreo…
Ci sono in giro delle notizie, delle percezioni circa questo ondeggiante indebolimento delle parole e anche i colori dell’odierno design sembrano attecchiti dal medesimo indebolimento, sono meno intensi, meno traumatici, si sbiadiscono, assumono lateralità, sembrano quasi perdere sostanza, sembrano attinti da una forza nientificante e nullificante.
Non ci sono più, oggi, e sarebbe impensabile, i colori formattati alla maniera della avanguardia pop degli anni Sessanta; sono lontanissimi i tempi dei colori squillanti e piatti di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, oggi i colori dell’odierno design sono freddi e slontananti, deboli e gracili.
Ci muoviamo in un universo simbolico fitto di indebolimento e di cancellazione della memoria, sembra quasi impossibile riprendere il bandolo di una parola pesante, sembra uno sforzo titanico, una inutile fatica di Sisifo. Eppure, e soltanto in questa dimensione amniotica che la poesia di oggi può muoversi, non c’e altra strada che inoltrarsi in questo universo
di parole slontananti, iperbariche, in via di indebolimento.
Chi non l’ha capito continua a fare la poesia del postminimalismo, della retorizzazione del corpo, del privatismo.
L’avevano capito bene Helle Busacca quando da alle stampe I quanti del suicidio (1972) con quel suo linguaggio da spazzatura, vile e sordido, volutamente a-poetico e Maria Rosaria Madonna quando scrive in quel suo linguaggio di
frantumi di specchi che e il neolatino di Stige (1992), libro ripubblicato con le poesie inedite dalle Edizioni Progetto
Cultura (2018) che raccomando a tutti di leggere: uno dei capolavori della poesia del Novecento italiano.
Adesso, finalmente, la poesia italiana ha ripreso a pensare in grande, a tracciare il cardo e il decumano di una «poesia polittico» che abbraccia il pensato e l’impensato, il dicibile e l’indicibile, il possibile e l’impossibile.
Per altezza di impegno edittale la poesia di Gino Rago mi fa pensare a libri come Lettere alla SignoraSchubert di Ewa Lipska e al ciclo di poesie de Il Signor Cogito di Zbigniew Herbert. Anche Rago, infatti, torna al punto della vexata quaestio: il problema del nome e della cosa e se la poesia debba nominare la cosa o no, se il discorso nominante ha ancora senso o no, se il discorso nominante sia parola del destino o no.
In realtà, il linguaggio diventa istanza di verità solo con la coscienza della non identità dell’espressione con il denotato, solo se il linguaggio accetta l’assunto secondo il quale nell’espressione nome e cosa si diversificano, tendono ad allontanarsi, altrimenti diventa ricettacolo del postribolo della significazione, adulterio della significazione.
Giorgio Linguaglossa