**Antonio Ferrante, Non Rompermi… PandiLettere, Roma, 2021**
Antonio Ferrante ha spaziato dall’interpretazione alla regia fino alla scrittura. Ha interpretato ruoli in teatro, per la TV, per il cinema, ha recitato in spettacoli scritti e diretti da lui stesso. Inoltre ha pubblicato libri utili per chiunque voglia avvicinarsi alla professione dell’attore. Negli anni ha lavorato in teatro con Monicelli, Missiroli, Glejeses (in “Francesco e il Re” con Ugo Pagliaia, Paola Gassman e Philippe Leroy). Nel cinema è stato diretto tra gli altri da M. Risi, M.T. Giordana, M. Calopresti, Ridley Scott, E. Crialese. In televisione tra le tante fiction vanno segnalate quelle di grandissimo successo quali “Un posto al sole” e “ Don Matteo 3” . Ha pubblicato “Parlar chiaro non soltanto a teatro” (Manuale di dizione), “Laboratorio attore”, “Teoria e tecnica della recitazione da Luigi Riccoboni a Eleonora Duse” (con presentazione di Enrico Fiore), “Le cinque fasi dell’animazione” (Disegni di Michele Monetta). Naturalmente potrete trovare molte altre informazioni sul suo sito. www.antonio-ferrante.it.
Ed ora ecco apparire, come una specie di nuovo fiore del male, questo suo libro di poesie.
Un libro “scorretto”, fuori dai canoni della poesia che ti aspetti, un libro che è uno sberleffo, a volte persino uno schiaffo, al mondo della poesia e dell’arte in generale che si auto- considerano seri. Ferrante con questo libro, sanguigno e sincero, è come se ci facesse tornare indietro ai tempi delle atellane (non a caso Ferrante è soprattutto uomo di teatro), ai testi satirici, alle invettive dell’antichità.
Ferrante con stile diretto, graffiante, spavaldo utilizza rime, assonanze, allitterazioni per prendere in giro chi si prende sul serio e d’altra parte lui stesso rivendica subito e apertamente di essere prima di tutto un artista e non un poeta.
Non sono un poeta di professione,
sono un artista, scrivo ciò che vedo
che è degno della mia attenzione.
Lancio in versi il mio debole grido.
Non badate alla forma, alla rima,
per me il concetto viene prima.
Leopardi mi sputerebbe in faccia,
non voglio che la mia voce taccia. (pag. 11)
Il progetto è dunque chiaro: prendere o lasciare. Ferrante, nel libro che la giovane e dinamica casa editrice PandiLettere diretta da Lara Di Carlo ora pubblica, esplicitamente vuole rifiutare ogni etichetta, intende respingere al mittente tutti i convenevoli ipocriti del mondo della cultura, della poesia e del teatro in particolare. Un mondo in cui tutti ufficialmente si vogliono bene, tutti sempre pronti a spellarsi le mani per applaudire il “collega” che in realtà s’invidia, si detesta. Un mondo in cui domina in realtà la concorrenza, il risentimento, in cui si sgomita mascherandosi con pacche sulle spalle e falsi sorrisi. Un mondo fatto di retorica, luoghi comuni, un mondo in cui dominano le conventicole, i favori e in cui specie oggi, si pensa di far carriera senza faticare, senza studiare.
E Ferrante non ha paura di lanciare il suo sberleffo, ad esempio, ai presunti poeti ( e poi allargherà ai presunti presuntuosi attori) quando scrive la poesia “Per essere poeti bisogna avere tempo” (pag. 12) mettendo in gioco anche l’icona di Pierpaolo Pasolini:
Ore e ore di solitudine è il solo modo
Pier Paolo Anima Bella, amico degli ultimi
Fantasia accesa, per bruciare l’ipocrisia.
….
Vittima della tua sete di conoscenza
Tradito da tutti coloro che hai aiutato
Ingenuo Bambino salvatore del mondo.
….
Usato come un ricordo da incorniciare
Vessillo di un’Italia che verrà
Con italiani di future generazioni
Diversi di tutti i generi e condizione
In che cosa siete diversi se non celebrate
Ogni due novembre santo Pasolini.
Ferrante, da autentico iconoclasta, non teme di misurarsi con il mondo della cultura e lo fa col gusto e lo spirito del giullare che può permettersi di dire la verità ora con una risata, ora con il sarcasmo o l’ironia velata dell’esperienza. Ma sempre camminando sulla lama sottile della malinconia, come bene sanno gli attori di teatro.
Già perché questo libro ha naturalmente una spinta teatrale, anzi è l’universo del teatro che occupa, come ovvio, gran parte dei pensieri e dei versi di Ferrante.
In primo luogo, i testi sono come dei monologhi, ora più brevi ora più articolati, che si rivolgono a volte direttamente a un pubblico immaginato presente o a personaggi mai indicati esplicitamente, ma solo allusivamente.
E Ferrante rivendica questa sua posizione “privilegiata” di attore-artista-giullare, libero finalmente di dire quel che pensa sin dai primi versi: “Gli attori sono angeli venuti a maggio /Messaggeri d’amore per darci coraggio. /Sono un esercito laico di spiritualità, /lottano con le parole per la nostra libertà” (pag. 5).
Il testo prosegue su questa linea sottolineando la diversità dell’attore-artista, diversità non di sostanza, ma di vedute, di posizione e soprattutto di spirito. E infatti conclude: “Non so quante cose sono vere/ in questa storia. / l’ho inventata per voi. / Non lo so /perché/ la verità/ per un attore /somiglia alla bugia./ So però/ che l’attore/ ha tanta fantasia” (pag. 8). E la fantasia è una delle protagoniste, da buon napoletano, del pensiero poetico di Ferrante.
Senza peli sulla lingua, come si addice alla commedia dell’arte, Ferrante scrive: “Io sono quello che porta il teatro,/sono il buffone dei vostri sollazzi, /ridendo e scherzando con la realtà/ vi rappresento la dura verità” (pag. 9).
Così Ferrante prende di petto, nella poesia “Non rompermi …” che dà il titolo al libro, il mondo del teatro che non gli piace: “Fuori dal tempo sepolcri imbiancati/ voi siete tanti strumenti scordati/ sì voi componete sull’egoismo/ e sul vostro fottuto narcisismo”…” e se la prende con quelli che oggi pretendono di essere attori senza capire che “attore è possesso di corpo e voce/ di dedizione e sacrificio … Leggete male non cambiate tono /pontificate come un re sul trono … Amico bello hai mai dato il culo?/ Hai mai lavorato come un mulo?/ Il tuo talento può venir fuori/ se studi da che nasci a quando muori” (pag. 9 e 10).
Il contrasto tra l’autenticità e l’apparenza, tra verità e bugia è una delle chiavi dell’arte, di qualsiasi forma d’arte. Il conflitto, più o meno felice, tra rappresentazione e sostanza, tra forma e contenuto è la molla dialettica della cultura e Ferrante ne è consapevole data la sua storia e la sua esperienza artistica. E forse, con un pizzico di autocompiacimento comprensibile, difende il privilegio di poter-voler dire quel che pensa proprio perché conscio del contesto in cui vive e ha vissuto: Siamo fratelli figli del popolo…la gente onesta di questa nazione. Noi siamo quelli che con scrupolo … facciamo tutto con tanta passione, siamo abituati fin da bambini … a lavorare da mattina a sera …./ Oggi ci sono bulli in circolazione … ieri c’erano risse in ogni occasione.(pag. 13).
Ci sono naturali spunti autobiografici o legati al proprio mestiere dunque: “Attore – regista- poi autore – amori vissuti, altri sublimati. Porte chiuse … le faremo sapere. Bocconi amari, provini truccati. Schiaffi in faccia per amor dell’arte” (pag. 13) e lo stesso accade nel testo “La recitazione” (pag. 15) dove egli si rivolge a un’allieva: “il comando comincia da te stesso/ l’anticamera del tuo successo”.
Fare l’attore mi ha dato tanta gioia interiore
Ma mi ha costretto a una vita solitaria.
Sono arrivato in porto sano e salvo
anche se ho perso i capelli, sono calvo.
…..
Fortunato son perché so
quel che dico e quel che faccio
e rido di chi m’ha detto : “pagliaccio”
(Il Pagliaccio, pag. 16)
Spirito ironico dunque, mescolato alla malinconia per una vita artistica fatta di fatiche e disagi, ma anche fortunata (un amico mi diceva che fare l’attore è sempre meglio che lavorare in miniera) e fatta di incontri, emozioni e di grandi consapevolezze.
Perché questo filone dell’auto riflessione è l’altra linea di forza del libro. Una forma di auto riflessione che non resta però solo intimistica, ma che si apre a un sentimento più universale. Essere attore significa far parte di una storia, essere l’erede di un macrocosmo di esperienze concentrate in pochi attimi.
Per lui “il mondo è un palcoscenico” e Ferrante, con indubbia cognizione, attraversa quest’universo nel testo “Attore” (pag. 18) e ci regala un vivido e dolente ritratto della figura dell’attore che dapprima dice “Vivo d’arte dammi amore/ allieto la tua vita,/…” per poi proseguire dicendo “Già una volta fui giullare/ poi mi disser menestrello/… fui vassallo cavalier cortese dicitor/ giullare damerino, filosofo/ nel secolo dei lumi,/ nell’ottocento fui patriota/… “ e chiudere con “ ora son poeta Pierrot triste …/ tante maschere indossai …/ Ora più nessuno mi vuole, esco poco, sto in pensione/ son la storia dell’attore/ del teatro re e signore” (pag. 19).
Questo è un bell’esempio di poesia-monologo attoriale che può ricordare mutatis mutandis certe performance di un Gigi Proietti, spirito dissacrante e ironico che ritroviamo anche nella poesia “Ho gli stessi pensieri” (pag. 20-21) dove Ferrante causticamente scrive: “Ho gli stessi pensieri di Ronconi/ di Bukowski Artaud Bene Stanisalvskij./ Ma non avendo delle sovvenzioni/ mi tocca corteggiare Barbareschi/ al Mercadante c’è il regista Andò./ Ma da indipendente e senza protezione/ fare un provino non mai ci andrò/ manco a Teatri Uniti con Martone / Destra e Sinistra presto si uniranno/ e avremo un gran teatro tutto l’anno”.
Dicevamo della centralità della riflessione sulla figura dell’attore, “questi attori così fragili/ così fatui così inutili” (pag. 22), attori che spesso sono vittime del proprio narcisismo:
Caro Narciso
che studi a fare
se in televisione
non puoi andare,
butta alle ortiche
il tuo sapere,
fai uno spot
per Banca Intesa
così avrai maggior presa
e tante donne
per la tua contesa.
E per la par condicio di genere scrive nella poesia “Attrice”: ” --- ha fatto una carriera /Veloce!/ Ora è attrice, era già/ poetessa/ e on s’è neanche concessa!/ Aveva già conseguito/ il brevetto di /Domatrice” (pag. 24)
Ferrante è sempre però attento alle pause riflessive, intime, connesse a esperienze personali, talvolta anche velatamente liriche: “Uso la parola / per esercitare il mio mestiere./ Sono atti d’amore/ per continuare a vivere” (pag. 28), oppure quando scrive:
“solo la pietra non sente la mancanza/ non cerco più la gloria solo l’amore/ il suo che mi dà solo dolore” (pag. 30).
Così c’è spazio per versi d’amore come accade in “Mi manchi. (dedicata a un’attrice)” (pag. 42) oppure in “Poem of Anna “ (pag. 45), in “Amami” (pag. 47) ed in una serie di altre poesie in cui è più evidente una vena appunto più lirica. Poesie in cui Ferrante opera uno scambio sottile di maschere e personaggi ora alludendo a donne reali (come nel caso della poesia “L’ultimo amore” di pag. 51) ora confondendole con l’arte, il teatro stesso, la sua passione e vocazione principale: “Amo ciò che ami, ciò che tocchi, amo ciò che sogni,/ dove sei nata. /Destino è amarti lenire pena fati/ recitare tante storie portarti in scena. (Alla mia ultima Musa, pag. 50)
E non manca l’inevitabile riferimento all’esperienza del coronavirus che ha chiuso la possibilità dell’incontro sociale: “Di questo passo col Coronavirus/ torna il detto Homo homini lupus” (pag. 31) e che ha aperto significative questioni sociali: “fantasma imprendibile mostra il volto/ se proprio vuoi colpire noi morali/ risparmia il popolo e tutti gli animali/ comincia dai più ricchi italiani/ e quelli nascosti nei Palazzi Vaticani” (pag. 33) Ferrante non rinuncia quindi alla invettiva, a prendere posizione contro ogni potere, in una visione anarchica della sua condizione di artista – attore – non poeta.
Perché Ferrante rivendica il potere della fantasia “un cavallo che non puoi domare” e invita tutti a lasciarsi andare: “lasciati andare se vuoi creare/ Smettila di controllarti, di razionalizzare./ Fai affiorare i sentimenti./ Quelli nascosti sono i più importanti” (pag. 35)
E questo è possibile nell’arte “che ti dà amore/ l’arte ti cambia la vita (pag. 39).
L’ultima parte del libro ci regala quindi un Ferrante più meditativo, attento ai sussulti del cuore, alle emozioni senza però mai venir meno al suo spirito ribelle, errante. C’è sicuramente più malinconia nei suoi testi finali e quello con cui chiude il libro è altamente significativo del percorso personale e professionale, ma anche poetico, che l’autore ha voluto disegnare per noi. E con un colpo di teatro, attento a coinvolgere emotivamente il lettore-spettattore, egli scrive:
Noi quelli di un tempo
non siamo più gli stessi.
Prima finì la guerra
poi le torri gemelle
ora la pandemia.
Avevo tre o quattro anni
poi più di sessanta
ora ne ho fatti ottanta.
Il Daimon definì
la mia vocazione
rima ora a professione.
Mi preparo a volare
cresco per invecchiare.
Nuda biografia
Resta la poesia.
(pag. 54)
Forse questa è la vera chiave del libro: una sofferta, rabbiosa riflessione sulla propria parabola artistica di attore che è tuttavia lo stesso arco della vita che l’autore ha attraversato. Ma Ferrante non si rassegna: non c’è mestizia, non c’è rinuncia. Ferrante è un combattente che guarda alla sostanza della cose. In questo libro, che è il suo primo libro di poesia, egli ci offre un sorprendente amalgama di teatro, rap e poesia. Un rap poetico che intreccia un impianto classicista, semplice e diretto con versi nostalgici e dissacranti. Non crediate , cari lettori, di trovare in questo libro versi perfetti, levigati dalle mode o dalle scuole poetiche in voga. Ma state certi che qui troverete le parole sincere di un uomo di spettacolo che si domanda:
… Siamo protagonisti del teatro
Della trama che componiamo
Quando la sala è vuota che facciamo?”
*
Stefano Vitale