martedì 31 dicembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = RAFFAELE PIAZZA

Raffaele Piazza – Del sognato – La Vita Felice – 2009 – pag. 71 - € 10,00

Centrale in questa raccolta di Raffaele Piazza, come sottolineato dal titolo e dalla sezione omonima, è un’idea di poesia come sogno, tramite a un mondo possibile, certamente auspicato, probabilmente contrapposto al mondo reale, troppo prosastico e difforme dal desiderio, per meritare di essere vissuto. Domina la raccolta la figura di Alessia, musa del poeta, già più volte presente nelle sue raccolte e a cui in passato ha dato anche il titolo (vedi “Alessia e Mirta”). Tuttavia la sua è una figura sempre evanescente, i dettagli della sua vita sono sempre allusi senza un preciso sviluppo narrativo o cronologico: l’intento non è comporre una storia, un diario o, estremizzando, un canzoniere amoroso, piuttosto indicare un “mondo delle possibilità”, per isolarvi un “frammento felice di tempo”, uno spazio “prealbare”. Si ha quasi la sensazione di un’attesa perenne di un bene che non riesce mai a risolversi compiutamente, il desiderio di un congiungimento che, anche se sensualmente e carnalmente realizzato, è sempre sul procinto di sfuggire, deragliare in uno spazio di intangibilità.
Come già detto in una precedente nota di lettura, alla figura femminile in Piazza è sempre connaturata una forte valenza simbolica, nonostante la puntualità circostanziata dei fatti che accadono e si riportano (si veda il riferimento quasi ossessivo alle date); a prevalere è questa idea della figura femminile come presenza numinosa (simile a quella di molta poesia di Barberi Squarotti), che lascia di sé sull’autore (protagonista della vicenda poetica) una traccia indelebile. In questo lavoro, in particolare, il piano simbolico viene ulteriormente enfatizzato, fino a un certo grado di oscurità, per dare libero spazio alle associazioni mentali che la figura di Alessia induce sull’ispirazione dell’autore, perché “si deve elaborare l’attesa a delta / a delta”, quasi come se la parola poetica cercasse uno sbocco, chiedesse di irrompere nella sua libertà (ma mai arbitrarietà) espressiva, per farsi parola e documento. È tramite questo processo di congiunzione che “poi tutto inizia nella mente e si parte / nella sera che ha un cominciamento / e non una fine”, il che equivale appunto a dichiarare una concezione della parola poetica come movimento, sapersi affidare alle onde (si veda emblematicamente la sezione “Mediterranea”, dove la metafora marina viene offerta e rielaborata con insistenza), nella consapevolezza dell’incertezza dell’approdo: “mare che continua”, ossia verso che metamorficamente si rigenera e amplifica, iterandosi sempre in forme altre.
Il libro è in realtà una continua disseminazione di riferimenti a oggetti e media (“mail”, “Internet”, “lettera”, “diario”, “fotografia”, “archivio”) come se l’autore volesse con il loro tramite tracciare e consegnare a una memoria effettivamente praticabile i detriti di una storia a due sempre in bilico, pronta a smarrirsi nel caos del tempo e degli accadimenti: la poesia è il filo per riconnettervi un senso, arginare la diaspora (“Mi chiedi la bellezza di un evento, / mi chiedi non distruggerla, pensaci” e ancora “il vedere lacera tutti i fili / degli sguardi, il mare dopo la tempesta”).
Dal punto di vista stilistico, Piazza impiega un linguaggio più controllato e selezionato, rispetto a quello che abbiamo riscontrato in “Alessia e Mirta”, a tratti è possibile rintracciare qualche ascendenza simbolista o addirittura ermetica: il registro spesso è aulico, ma variato da inserzioni più realistiche che aiutano a spezzare un tono che rischierebbe di essere troppo letterario. Ne esce uno stile ben identificabile, un ritmo personale creato con enjambement oculatissimi.
Piazza ci consegna una nuova prova coerente con la sua ricerca stilistica e artistica, in cui il lettore potrà riconoscere e ritrovare la cifra distintiva dell’autore che ha qui un’ulteriore conferma, pur nella necessaria evoluzione di ogni scrittura.

Fabrizio Bregoli

NECROLOGIO IN DISTICI = GINO RAGO

Gino Rago, In memoria di Joseph Roth, Un necrologio in distici a 80 anni esatti dalla morte ( 27 maggio 1939 )

«Conceda Dio a tutti voi, a voi santi bevitori,
Una morte lieve».*
[…]

Un cavallo lipizzano alzò per un istante
La zampa destra in segno di commiato.

Il lampadario cadde sui legni della sala del valzer,
Shearazade pianse.

La contessa W. della milleduesima notte
Sgranò gli occhi dai riflessi di violette e miosotide.

E tutti i presenti se ne innamorarono.
[…]

La mattina del 23 di un mese di primavera
Nel 1939 cadde a terra di schianto.

Come Andreas
Nella leggenda del santo bevitore.

Era nel caffè Tournon.
Aveva scritto per anni e bevuto calvados

Fino a perdere il senno.
Non fu portato nella sagrestia

Della chiesa di Santa Teresa
Ma all’ ospedale Necker.

Lo legarono con cinghie al letto
Come l’ ultimo dei mendicanti.

Dalla sua cartella clinica:
“Non-ha-ricevuto-nessuna-cura”
[…]
Il 27 dello stesso mese morì.
Il giorno 30 il funerale al cimitero Thiais.

Nei sobborghi di Parigi
Le pietre si fecero parole.

Un messo di Otto d’ Asburgo
Pretendente al trono d’Austria

Elogiò in lui
«Il-fedele-combattente-della-Imperial-Regia- Monarchia».

Un comunista gli rispose con rabbia
Che il morto era stato «Joseph il rosso».

Un sacerdote cattolico benedisse la salma.
Tutti gli ebrei presenti furono offesi

Dal fatto che un ebreo
Che discendeva da generazioni di devoti ebrei

Fosse costretto in una religione non sua.
[…]
Forse il morto fu contento dello schiamazzo
Sulla sua tomba di periferia,

Era stato monarchico e rivoluzionario, ebreo e cattolico,
Pagano e musulmano.

E bevitore, sebbene non santo.
Abitò da solo il regno-del-non-dove

Nella stanza del Bioscopio universale.
[…]
«La morte simbolista di Roth…
Come quella nel ‘28

Di Nina Ivanovna Petrovskaja
Della Bohéme russa in esilio a Parigi.

Aprì da sola il gas nello squallore
D’un albergo d’un quartiere popolare».
[…]
Joseph Roth, inabile anche alla morte,
Vita-non-vita d’un sopravvissuto

Alla fine di un mondo, di una lingua,
Di una storia.

Scrivendo divenne monarchico.
Sempre scrivendo divenne devoto.
[…]

Voleva credere e divenne credente.
Ma forse cercava soltanto sé stesso

Nei frammenti della Finis Austriae
Alla fine il naufragio.

Viso tumefatto. Piedi gonfi.
Bottiglie vuote in fila di calvados e gin.

Tentò di scacciare da sé l’anticristo.
[…]

L’incenso di tutte le chiese.
Moriva di maggio l’uomo.

Nasceva il-soldato-della-penna
In-servizio-permanente-effettivo,

Da quel giorno Joseph Roth è di tutti.

Gino Rago

* [La leggenda del santo bevitore]

Bio-bibliografia essenziale di Joseph Roth

Joseph Roth, scrittore e giornalista austriaco del primo Novecento, non è una figura letteraria molto conosciuta, oltre l’area linguistica tedesca, se non per il racconto autobiografico più noto, ovvero Die Legende vom heiligen Trinker, (La leggenda del santo bevitore) scritto nel 1939, diventato celebre anche grazie all’omonimo film (del 1988) di Ermanno Olmi.

Nasce nel 1894 da una famiglia ebraica in Galizia, nella città di Brody, che ora si trova in Polonia ma che a quell’epoca apparteneva al groviglio di stati che componeva l’impero Austro-Ungarico.

Nel 1913 arriva a Vienna, la grande capitale, per studiare germanistica all’università. In condizioni economiche davvero precarie inizia, grazie alla sua abilità stilistica, una collaborazione con il giornale Österreichs Illustrierte Zeitung dove vengono pubblicati i suoi primi articoli e le sue prime poesie. Scoppia la Grande guerra ma Joseph è un pacifista.

Si arruola solo nel 1916 e vive in una caserma di Vienna come addetto Ufficio stampa dell’esercito. Anche in questo periodo scrive. Le sue parole vengono pubblicate sul quotidiano Der Abend e sul settimanale Der Friede. Il direttore di quest’ultimo sarà colui che, terminato il conflitto, recluterà Roth come collaboratore per le pagine culturali del Der Neue Tag. Qui descrive nei suoi articoli la vita quotidiana della gente nella Vienna del dopoguerra come una sorta di cronaca cittadina, spesso trasposta in chiave metaforica.

Nel 1920 il giornale chiude e il giornalista si reca nella più vivace Berlino dove lavora per il Berliner Börsen-Courier prima e successivamente per alcuni anni come corrispondente culturale nel più conosciuto Frankfurter Zeitung dove inizierà una corrispondenza con Stefan Zweig che diventerà suo mecenate. Nella redazione di questa importante testata sviluppa numerosi reportages, che spesso lo portano a Parigi, in Albania, in Polonia e anche in Italia.

La vita sentimentale dello scrittore è molto travagliata. Sposa a Vienna Friederike (Friedl) Reichler che lo segue a Berlino. Ma la vita mondana e frenetica dello scrittore, oltre alla sua morbosa e insana gelosia, provocano nella moglie una forte crisi tale da destabilizzarla quasi completamente. Roth dopo i primi sensi di colpa conosce diverse donne con le quali intrattiene numerose relazioni.

Con l’ascesa al potere di Hitler nel 1933, data la sua origine ebraica, è costretto ad emigrare. Dapprima si trasferisce in Francia, poi nei Paesi Bassi e infine nuovamente in Francia.

Nonostante in Germania i suoi libri vengano bruciati, nei Paesi che lo ospitano, rispetto a molti altri scrittori emigrati, continua ad avere la possibilità di pubblicare opere.

Nel 1936 incontra la scrittrice Irmgard Keun con la quale vive a Parigi, ma nel 1938 si lasceranno. Tra il 1937 e il 1939 la situazione economica, oltre alla salute di Roth, peggiorano. Beve e viene trasferito all’ospizio dei poveri. Il 27 maggio 1939 muore a Parigi per polmonite.

Raffinato cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico ( quell’Impero che fu in grado di riunire popoli di origini disparate, con lingue, religioni, tradizioni diverse) benché egli stesso fosse nato alla periferia dell’impero, nell’odierna Ucraina, lascia alla letteratura universale svariate opere (La cripta dei Cappuccini, La marcia di Radetzky, La milleduesima notte, La leggenda del santo bevitore).

( a cura di ) Gino Rago

lunedì 30 dicembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = GUIDO TURCO

Guido Turco – 50 giri intorno al sole-- puntoacapo Editrice – Novi Ligure (Al) – 2011 – pagg. 37 - € 6,00

Guido Turco è nato nel 1959 e vive a Bordeaux in Francia. Poeta e artista plastico, ha pubblicato diverse raccolte di poesia.
"50 giri intorno al sole" è un testo complesso a livello strutturale e architettonico ed è composto da brevi brani di prosa poetica – filosofica, che si alternano nella struttura del libro
Il primo segmento che incontriamo è La Sconclusione, che è uno scritto esistenzialistico, che ha un carattere anche programmatico ed è molto denso di contenuti, come tutti i brani contenuti nel libro.
In La Sconclusione l’autore cerca di fornire al lettore le ragioni del senso della vita in maniera complessa e articolata e parla della spinta che serve a dare significato anche alla più misera delle esistenze.
In questo brano è affrontato con semplicità e immediatezza il tema ontologico dell’essere e dell’esserci, nella descrizione di una vita travagliata, che può essere quella di tutti: “Non c’è un inizio perché non c’è una fine. La fine ce l’hanno sempre raccontata, ce l’hanno solo raccontata. Noi non capiamo dove stiamo, non stiamo dove è giusto stare. Stiamo dove ci lasciano stare”.
Come si evince la prosa di Turco è caratterizzata da vaghezza e indeterminatezza e forse anche da un’aurea di nonsenso: si tratta di frammenti che affrontano varie tematiche dal mondo, al rifiuto all’Olocausto, lasciando chi legge stupito davanti a tale materia, magmatica, scabra e incandescente.
Nella scrittura di Guido Turco sono presenti nitidezza espressiva e dizione chiara e le parti che compongono l’insieme presentano titoli intellettualistici e pregnanti.
Per quanto riguarda la prosa poetica si potrebbe definire come una scrittura vagamente di tipo aforistico nella sua lunga estensione, rispetto al genere.
Nelle poesie incontriamo densità metaforica e sinestesia; nel componimento intitolato Dizionario delle forme e dei presagi possiamo notare l’intrigante tema del poeta stesso, che parla del libro scritto prima che nascesse.
I componimenti sono icastici e leggeri, alcuni scritti in lunga ed ininterrotta sequenza, altri suddivisi in brevi periodi.
Molto spesso si incontra la tematica della quotidianità come in Otium nel quale viene descritto il risveglio di un uomo comune che potrebbe essere ognuno di noi.
In questa poesia il protagonista appena alzato cuoce un caffè; dopo il caffè gli sale una malinconia e gli sembra di cadere in un buco profondo; legge frasi dai libri della biblioteca, mette su della musica forte come un liquore e poi ritorna come un migratore di ritorno al sonno da poco abbandonato.
In Otium viene detta una forte ansia esistenziale, che tocco il culmine quando il protagonista si immerge di nuovo nel sonno come in un rifugio.
La scrittura di Turco è lineare e semplice pur senza essere elementare ed è presente nel dettato una forte ironia veramente amara.
A volte i componimenti sono allineati a destra e questo contribuisce a pervaderli di un vago sperimentalismo.
Nei titoli è ricorrente la dizione Dizionario delle forme e dei presagi, che vuole dare il senso di un’opera tesa ad analizzare gli aspetti dell’esistere.
*
Raffaele Piazza

AUTOBIOGRAFIA DI UN NOBEL - = TRANSTROMER = - GINO RAGO

Gino Rago (a cura di): "Tomas Tranströmer, autobiografia di un Nobel" - (traduzione di Enrico Tiozzo) con stralci di poesie
Tomas Transtromer, ( Stoccolma, 15 aprile 1931 – Stoccolma, 26 marzo 2015)

“Cominciai le elementari alla scuola popolare Katarina Norra, dove ebbi per maestra R., una signorina nubile e molto curata che cambiava vestito ogni giorno. All’ ultima ora del sabato era solita dare a ogni bambino una caramella, ma per il resto era piuttosto severa, e fioccavano spesso tirate di capelli e sberle, anche se mai a me che ero figlio di una maestra. Il mio compito principale nel primo trimestre fu di starmene zitto e fermo nel mio banco. Sapevo già scrivere e far di conto. Passavo il tempo a ritagliare carte colorate, ma cosa ritagliassi non lo ricordo. Credo che l’ atmosfera fosse abbastanza buona nel primo anno di scuola, ma poi a poco a poco diventò più dura. Quello che faceva perdere la pazienza alla maestra era ogni turbamento dell’ ordine, ogni genere di scompiglio. Non si doveva essere irrequieti o rumorosi. E nemmeno deboli. Non si dovevano avere difficoltà inattese nell’ imparare qualcosa. In generale non si doveva fare niente di inatteso. Una bambina che se la faceva addosso per la paurae la vergogna non poteva aspettarsi nessuna pietà. Come ho detto, io ero protetto dalle punizioni corporali perché ero figlio di una maestra. Ma l’ atmosfera pesante che accompagnava i rimproveri e le minacce la pativo. Sullo sfondo c’ era il Direttore, un tipo pericoloso dal naso aquilino. La cosa più grave era finire in riformatorio, come si minacciava in particolari occasioni. Non lo consideravo come un pericolo per me personalmente, ma già il fatto in sé creava malessere. Che cosa fosse un riformatorio potevo facilmente immaginarlo, soprattutto avendo sentito il nome che si dava a uno di quegli istituti: « skrubba », cioè « Scrosta », che faceva pensare a grattugie e pialle.

Che la tortura venisse quotidianamente praticata sugli internati mi pareva evidente. Nell’ immagine del mondo che mi ero creato rientrava dunque l’ idea che ci fossero istituti speciali dove gli adulti torturavano i bambini – magari anche a morte – perché erano stati cattivi. Era terribile, ma doveva essere così. Se uno faceva il cattivo… Quando un bambino della scuola veniva portato in riformatorio e tornava l’ anno dopo, lo consideravo come resuscitato dai morti. Una minaccia più realistica era l’ evacuazione. Nei primi anni di guerra si prevedeva l’ evacuazione di tutti gli scolari dalle grandi città. La mamma marcò a inchiostro il nome Tranströmer su tutte le nostre lenzuola e varie altre cose. La questione era se sarei stato evacuato con la mamma e i suoi allievi o con i miei compagni di classe della Katarina Norra, ovvero deportato con la maestra R. Sospettavo quest’ ultima soluzione. Non ci fu nessuna evacuazione. La vita a scuola seguì il suo corso. Io non desideravo altro che le lezioni finissero per potermi gettare su quello che veramente mi interessava: l’ Africa, il mondo subacqueo, il Medioevo, eccetera. L’ unica cosa che veramente mi affascinava a scuola erano i tabelloni didattici. Li adoravo. La gioia più grande era accompagnare la maestra al deposito e tirare fuori qualche consunta tavola di cartone. Si poteva approfittarne per sbirciare anche gli altri tabelloni che erano appesi lì.

Ne facevo anch’ io di simili, entro i miei limiti, a casa. Una differenza importante tra la mia vita e quella dei miei compagni era che io non avevo un papà da mostrare. La maggior parte di loro veniva da famiglie di operai dove il divorzio evidentemente era molto raro. Io non volevo mai ammettere che ci fosse qualcosa di strano nella mia situazione familiare. Neanche con me stesso. No, io avevo un papà e anche se lo vedevo solo una volta all’ anno (in genere la vigilia di Natale), ero sempre in contatto con lui- una volta, per esempio, durante la guerra, era stato su una torpediniera e da lì mi aveva scritto una lettera divertente,e cose del genere. Mi sarebbe piaciuto far vedere quella lettera, ma non mi veniva naturale. (…) Sentivo fortemente il pericolo di essere considerato un diverso perché nel fondo di me stesso sospettavo di esserlo. Ero divorato da interessi che nessun bambino normale avrebbe avuto. Seguivo corsi facoltativi di disegno e disegnavo scene subacquee: pesci, ricci di mare, granchi, conchiglie. La maestra osservava ad alta voce che i miei disegni erano molto «speciali» e io ripiombavo nel panico. C’ era un tipo di adulti insensibili che mi indicava continuamente come un originale. I compagni in realtà erano più tolleranti. Non ero popolare, ma neanche preso di mira. Hasse, un ragazzo scuro e alto che era cinque volte più forte di me, aveva l’ abitudine di buttarmi a terra a ogni intervallo, il primo anno di scuola.

All’ inizio opponevo una fiera resistenza, ma non serviva a niente, lui mi atterrava comunque e trionfava. Alla fine trovai il modo di frustrarlo: una totale rilassatezza. Quando si avvicinava, fingevo che il mio io se ne fosse volato via e avesse lasciato soltanto un cadavere, uno straccio senza vita che lui poteva calpestare quanto voleva. Si stufò. Penso a quanto possa avere significato per me, più avanti nella vita, il metodo di trasformarsi in uno straccio senza vita. L’ arte di lasciarsi calpestare senza perdere l’ autostima. Non l’ ho usata troppo spesso? A volte funziona, a volte no. (…) Soltanto un paio di miei compagni delle elementari proseguì nella scuola media. E nessuno oltre a me fece domanda per entrare al Ginnasio Liceo Pubblico Superiore per Ragazzi di Södermalm, cioè il liceo classico di Söder. C’ era un esame di ammissione alla scuola superiore. Delle prove ricordo solo che sbagliai a scrivere la parola «particolarmente». La scrissi con due l. Da allora mi rimase un disturbo legato a quella parola che durò fino agli anni Sessanta.

Ricordo con molta chiarezza il mio primo giorno di scuola alle medie di Söder, nell’ autunno del 1942. L’ immagine che ne ho conservato è questa. Mi trovo in mezzo a ragazzi di undici anni tutti sconosciuti. Ho un nodo allo stomaco per il nervosismo, mi sento insicuro e solo. Alcuni degli altri sembrano conoscersi bene – quelli che vengono dalla scuola Preparatoria di Mariatorget. Cerco invano qualche volto familiare della scuola Katarina Norra. L’ atmosfera è in parte di oscura inquietudine e in parte di attesa e speranza.

[…] Ogni mattina tutti gli scolari si riunivano nell’ aula magna, cantavano salmi e ascoltavano la predica di uno degli insegnanti di religione. Poi si andava nelle rispettive classi. L’ atmosfera collettiva del liceo classico di Söder è immortalata nel film Spasimo (girato nel 1944, era ispirato agli anni dell’ adolescenza di Ingmar Bergman, sceneggiatore della pellicola, N.d.T.) che fu girato nella scuola in quel periodo. (…) Qualche volta accompagnavo a casa Palle. Era Palle in effetti il mio miglior amico il primo anno. Avevamo molte cose in comune: suo padre era molto assente – era marinaio – e lui era figlio unico di una mamma gentile che pareva sempre contenta di vedermi. Come me Palle aveva sviluppato un sacco di manie da figlio unico, viveva per i suoi interessi. Era soprattutto collezionista. Di cosa? Di tutto. Di etichette di birra, scatole di fiammiferi, spade, asce, francobolli, cartoline, conchiglie, oggetti etnografici e ossa.

[…] Di Palle, che è morto quarantacinque anni fa senza diventare adulto, mi sento coetaneo. Ma i miei anziani insegnanti, «i vecchi» come venivano chiamati tutti quanti, rimangono vecchi nella memoria, anche se i più anziani di loro avevano l’ età che ho io adesso mentre scrivo queste righe. Ci si sente sempre più giovani di quanto non si è. Dentro di me porto tutti i miei volti passati come un albero i suoi cerchi. La loro somma sono «io». Lo specchio vede solo il mio ultimo volto, io sento tutti i miei precedenti. Gli insegnanti che occupano più spazio nella memoria sono naturalmente quelli che creavano un’ alta tensione, gli originali più pittoreschi. Non erano la maggioranza, ma comunque molti. In alcuni c’ era un che di tragico che anche noi potevamo intuire. Una situazione di sofferenza che appariva così: io so che non potrò essere amato da queste invidiabili teste di cavolo che ho davanti, ma farò almeno in modo di restare indimenticabile! (…) Ero uno studente discreto, ma non uno dei migliori. Biologia avrebbe potuto essere la mia materia preferita. Ma ebbi un insegnante troppo particolare per la maggior parte della scuola superiore. Una volta aveva commesso qualcosa di irrimediabile, era stato ammonito e ormai era un vulcano spento. Le materie migliori per me erano storia e geografia. Avevo per insegnante non di ruolo Brännman, un giovane rubicondo, energico, con i capelli chiari e lisci che avevano tendenza a drizzarsi quando si arrabbiava, il che avveniva abbastanza spesso. Era pieno di buona volontà, mi piaceva. Scrivevo sempre temi su argomenti presi da storia e geografia. Erano sempre temi lunghi. A questo proposito ebbi modo di sentire molto tempo dopo una storia da Bo Grandien (scrittore e giornalista svedese, N.d.T. ), anche lui studente del liceo classico di Söder.

Bo diventò mio grande amico negli anni del ginnasio, ma alle medie non ci conoscevamo. Bo mi raccontò che aveva sentito parlare di me la prima volta passando vicino a un gruppo di miei compagni di classe durante un intervallo. Ci avevano appena restituito i temi ed erano scontenti dei loro voti. Bo udì l’ irritata replica: “Mica tutti possono scrivere in fretta come Tranan! (soprannome dato dai compagni a Tranströmer, significa “la gru”, N.d.T. )”. Bo aveva dedotto che Tranan fosse un tipo detestabile che bisognava evitare. Per me questa storia è in qualche modo consolatoria.

Attualmente noto per la mia scarsa produttività, ero allora evidentemente conosciuto come scrittore lampo, uno che peccava per troppa produttività, uno stakanovista della parola…



Tomas Tranströmer scrive:

La casa assomiglia al disegno di un bambino.
Un’innocenza sostitutiva che si è sviluppata perché troppo presto qualcuno ha rinunciato all’incarico di essere bambino.
Apri la porta, entra! Qui dentro c’è inquietudine nel tetto e pace nelle pareti

*
Lontano mi capita di fermarmi davanti a una delle nuove facciate.
Molte finestre che vanno a formare un’unica finestra.
la luce del cielo notturno vi è catturata e il movimento delle chiome degli alberi.
È un luogo riflettente senza onde, innalzato nella notte d’estate.

*
Il risveglio è un salto col paracadute dal sogno.
Libero dal turbine soffocante il viaggiatore
sprofonda verso lo spazio verde del mattino.

*
È doloroso passare attraverso le pareti, ci si ammala
ma è necessario.
Il mondo è uno. Ma le pareti…
E la parete è una parte di te –
uno lo sa o non lo sa ma è così per tutti
tranne che per i bambini piccoli. Per loro niente pareti.

*
Ma non sono maschere ora bensì volti
che emergono attraverso la bianca parete dell’oblio…
emergono attraverso la parete ridipinta dall’oblio
la parete bianca
scompaiono e ricompaiono.

*
Ho trascorso la notte nella casa densa di rumori.
Molti vogliono entrare attraverso le pareti
ma i più non arrivano fin là:
le loro voci sono sopraffatte dal brusio bianco dell’oblio.
Un canto anonimo sprofonda attraverso le pareti.

*
… Qualcosa di oscuro
stava presso la soglia dei nostri cinque
sensi, senza oltrepassarla.
*
Entrammo. Un’unica enorme sala,
silenziosa e vuota, dove la superficie del pavimento era
come una pista da pattinaggio abbandonata.
Tutte le porte chiuse. L’aria grigia.

*
Più debole del fruscio di una conchiglia
si udivano suoni e voci dalla città
che volteggiavano nella stanza deserta,
sussurrando e cercando un potere.

*
Una musica si sprigionò
e avanzò nella neve vorticante
con lunghi passi.

*
Una musica abbozzata come dalla
forza dell’orchestra prima che lo spettacolo abbia inizio.

*
Quando l’oscurità scese io stavo quieto
ma la mia ombra batteva
sul tamburo dello sconforto.
Quando i colpi cominciarono ad affievolirsi
vidi l’immagine di un’immagine.

*
Spengono la lampada e il suo globo brilla
per un attimo prima di sciogliersi
come una compressa nel bicchiere dell’oscurità.

*
… l’anima /sfregava contro il paesaggio come una barca /sfrega contro il pontile a cui è ormeggiata.

*
Il vento procedeva lentamente come se spingesse davanti a sé/ una carrozzina.

*
Il sogno in cui il dormiente sta disteso
diventa trasparente. Egli si muove, comincia
a cercare a tastoni gli utensili dell’attenzione –
quasi nello spazio.

*
Rivivo un sogno. Che io sto in un cimitero
da solo. Tutt’intorno splende l’erica
a perdita d’occhio. Chi aspetto? un amico. Perché
non viene? È già qui.

*
Due verità si avvicinano l’una all’altra. Una viene da fuori
e là dove si incontrano c’è una possibilità di vedere se stesso.

*
La strada non finisce mai. L’orizzonte corre in avanti.


Ecco, da questi pochi esempi abbiamo la riprova e l’esemplificazione di quanta parte hanno l’inconscio e le sue Figure nella ricerca della poesia moderna, anzi, si può dire che la parte prevalente, la più evoluta della poesia moderna europea, ha a che fare con l’inconscio, con le sue inimmaginabili diramazioni, le sue complessità. Il senso di minaccia, il presentimento che «qualcosa» stia per avvenire che non avevamo previsto, ci turba e ci getta nell’angoscia. E l’angoscia produce spaesamento. Il tema della «finestra» quale luogo o zona dalla quale si può passare da una dimensione all’altra è molto presente nella poesia di Tranströmer. Così nella poesia della nuova ontologia estetica ritornano i simboli transtromeriani: la finestra, la porta [chiusa], la parete, la stanza, la soglia, la città, la statua bianca, il simbolo della «grande sala», del «salone». Tutti simboli tematici che ci inoltrano verso la poesia europea più evoluta, verso quelle tematiche esistenziali che altrimenti sarebbe impossibile rappresentare.
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Gino Rago
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SEGNALAZIONE VOLUMI = VINCENZO FRUNGILLO

Vincenzo Frungillo – Ogni cinque bracciate-- Le Lettere – Firenze – 2009– pagg. 135 - €20,00

Vincenzo Frungillo è nato a Napoli nel 1973 e nel 2002 ha pubblicato la raccolta di poesie Fanciulli sulla via maestra, opera prima, nella quale era già evidente, nonostante la giovane età, la bravura dell’autore come versificatore, soprattutto la sua originalità. Cosa si può immaginare di più inattuale, oggi, di un poema epico in ottave? Basterebbe questo a indicare in Ogni cinque bracciate, work in progress iniziato nel 2002 e concluso nel 2007, la più rara tra le aves in un panorama poetico, come il nostro degli ultimi decenni, contrassegnato per lo più da gabbie strenuamente chiuse, finissimi lavori di cesello, fenomenologie microscopiche. Eppure nella generazione di Frungillo – magari guardando ad esempi ormai remoti come quelli del Pagliarani della Ragazza Carla e della Ballata di Rudi – significativamente si assiste a un rinnovato anelito a raccontare storie, anche in poesia, che una buona volta superino lo spazio ristretto della soffocante “cameretta lirica”. Opera magmatica, composita e bene orchestrata, quella che il poeta napoletano ci presenta, è la trasposizione in versi della vicenda delle nuotatrici della Repubblica Democratica Tedesca, che alle Olimpiadi di Mosca del 1980, quelle di nuoto, conquistarono innumerevoli primati che durarono decenni. Elio Pagliarani dice nella prefazione che in occidente non si seppe mai dei loro allenamenti, rapidissime come erano salite sulle luminarie dei media del loro Paese, con i volti gonfi e i toraci taurini, hanno raccontato delle strane pillole azzurre che dovevano ingerire ogni mattina prima degli allenamenti. Se chiamiamo epica la narrazione poetica che si riferisce a fatti reali, più o meno universalmente significativi, questo poemetto di Vincenzo Frungillo, correttamente si definisce epico - narrativo, poema epico narrativo. Rispetto all’epica dell’Iliade e dell’Odissea, Frungillo giustamente osserva che qui si tratta di un’epica che ha come eroine delle fanciulle spogliate, pienamente esposte, o meglio, senza armatura. Il loro racconto è segnato direttamente sul corpo. Ed il corpo, come si constata quando comparvero dopo l’89, era immagine di quelle ragazze con tutti gli ormoni che gli avevano fatto ingoiare, s’era ormai ingrossato e mascolinizzato. Attualmente, e questo è il dato drammatico della storia, quelle ragazze super vincenti e anche in un certo senso piacenti e simpatiche, come appaiono nelle fotografie dei tempi delle loro, appunto epiche, vittorie, sono malate proprio a causa di quelle pillole azzurre che altro non erano che preparati a base di ormoni, con effetto deleterio. Il testo è scandito in cinque Canti, suddivisi, a loro volta, in cinque sequenze, tutte provviste di titolo, e un epilogo. Un tessuto articolatissimo, quello del giovane poeta campano, che riesce a costruire quella che, per certi aspetti, potrebbe essere definita una cattedrale barocca. Oltre alla prefazione di Pagliarani, sono presenti nel volume una postfazione di Milo De Angelis e un’appendice fotografica. Quello che riesce a realizzare mirabilmente il poeta è uno scavo nella psicologia delle nuotatrici che sono viste, sia come delle giovani donne, sia come riattualizzate nella loro infanzia, sia raffigurate come delle donne tragicamente malate. Da notare la finezza di Frungillo nel descrivere tipologie diverse di caratteri e di indoli, ognuna per ogni tipo di ragazza. Il testo si apre con la Sequenza I, intitolata La presenza di Ute:-“Dal piede gocciola il tempo della memoria/ in cerchi regolari l’acqua e il cloro/Ute riapre lo spazio della storia./ Stanca ai bordi della vasca ripensa a loro/ che le indicarono la traiettoria,/ la via di fuga dalla miseria, urlando in coro/ in un moto di gioia, “con la spinta delle nostre braccia/ abbatteremo questa enorme gabbia…-” E’ frequente in questi versi la presenza di rime e assonanze che rendono il tessuto icastico e incisivo, con una certa dose di ipersegno. C’è in questa poesia una forte dose di corporeità e fisicità e viene anche citato, magari tra le righe, il fattore economico, perché, attraverso il nuoto le ragazze sono uscite dalla miseria: da notare che, nella Russia Sovietica e nei Paesi della Cortina di Ferro, gli sportivi guadagnavano molto perché, in epoca di Guerra Fredda, ogni impresa sportiva degli atleti dell’Est, ogni vittoria, assumeva un significato politico sul modello USA sconfitto, a livello sportivo, ideologico e morale. Riscontriamo armonia e nitore nel versificare di Frungillo che procede veloce e scattante. Nel panorama odierno della poesia italiana, questo poema, come si diceva, costituisce un unicum, sia per il genere in sé stesso, sia per l’originalità della materia trattata, sia per la sua cifra composita e architettonicamente ineccepibile. In La lettera di Ute, sequenza quinta del Canto terzo, il tema trattato è quello amoroso: - “/Il mio mondo, tutto d’un tratto, / è stato travolto dal tuo rifiuto/ dal tuo modo di vedere distratto/ mentre qualcuno ti chiede aiuto. / Dovrei sigillare il mio amore con un patto/ “A nessuno a nessuno, lo giuro, / permetterà in futuro di staccarmi dal mio corpo/ per fare tutt’uno con un altro corpo”. L’io-poetante, che è la nuotatrice Ute si rivolge a un “tu”, presumibilmente un amato, per esprimergli il dolore di essere stata travolta da un suo rifiuto. Dopo la fine dell’esperienza amorosa, Ute afferma che non permetterà a nessuno di farla staccare dal suo corpo, evocando un senso dell’eros sublime, perché è chiara l’intenzione dell’autore di descrivere l’amplesso dei due amanti come una perdita totale del proprio io che, per un’iperbole, vive l’esperienza dello staccarsi dal corpo. Scrive Milo De Angelis nella postazione che il finale di questo poema si configura come una marcia funebre: - “Lei sapeva con il suo corpo di tedesca/ che la morte aspetta sempre che la vita le getti un’esca-”. Sono rime leggere quelle di Frungillo, venate da una dolcezza, caratteristica che, insieme ad icasticità e forza espressiva, fanno del poema un affresco originale e tragico di un evento storico della modernità, evento che ci fa riflettere sia a livello etico, sia nel proiettarci negli ormai lontani anni ottanta.
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Raffaele Piazza

domenica 29 dicembre 2019

POESIA = RAFFAELE PIAZZA

"Alessia e il 2020"

Chiaro risveglio ed è il 2020
nel mettere nella tasca dell’anima
il più soave dei sgni
e sente una voce Alessia
pari a Giovanna D’Arco
nel campo di battaglia della vita.
La visione è del condominiale
giardino delle rare piante
e non ci sono i limoni di Montale.
Attesa del telefonino a squillare
per l’appuntamento per l’amore
e trova Alessia le parole.
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Raffaele Piazza

venerdì 27 dicembre 2019

INCHIESTA SULLA POESIA CONTEMPORANEA

Inchiesta sulla poesia-contemporanea

Forme, contaminazioni e codici linguistici, tra atrofia della critica e pressappochismo versificatorio

Sulla scorta di alcune recenti letture e approfondimenti sulla poesia contemporanea, mi è sembrata buona cosa, in chiusura di questo anno, proporre, mediante un format online di semplice uso (collegandosi a questo link), un sondaggio rivolto ai poeti italiani con l'idea di sentire le proprie considerazioni su una serie di aspetti importanti della poesia odierna. Partendo dall'assunto che «La letteratura è dappertutto»1, come sostenuto da Giulio Ferroni in una recente pubblicazione, nel sondaggio ci si è posti lo stratificato e mutabile universo poetico come elemento d'indagine da una serie di punti di vista differenti. Il sondaggio si costituisce di ventuno domande pensate come possibili input, tracce da poter investigare in maniera libera, senza un particolare limite di estensione in relazione ad aspetti quali la poesia civile, l'importanza della musicalità e della componente orale della poesia con annesse domande in relazione alla lingua e alla traduzione, ma anche al dialetto.

Sui rapporti tra scienza e poesia, va segnalato il pamphlet di Roberto Maggiani dal titolo Poesia e scienza: una relazione necessaria? (2019) dove il tema nevralgico delle interrelazioni e intersezioni tra i due campi vengono presi in considerazione con acume da vari punti di vista. Sui rapporti tra poesia e astrofisica mi sento di fare senz'altro il nome del poeta Corrado Calabrò che con Quinta dimensione (2018) ha spalancato le porte della poesia a una dimensione altra, che s'interroga sull'uomo e ammicca alla scienza e ai suoi traguardi.

Non solo attenzione verso il poeta in quanto fautore della creazione e custode di sapienza (finanche affabulatore, quando non stratega e utilizzatore di codici avulsi dalla praticità spicciola della vita) ma anche verso il critico la cui funzione, negli ultimi anni, sembra essersi un po' svuotata o semplicemente dissipata in questa variegata schiera di tuttologi e di informatori che fanno cronaca e spesso travalicano la critica propriamente detta, agghindata di indecorose banalità o gossip senz'altro a latere l'oggetto libro. Colui che si colloca in mezzo tra l'autore e il pubblico, una volta inteso come interprete del testo e per questo spesso associato a una sapere tecnico, accademico e pedante, quale estrattore di significati nascosti. Semmai un commentatore in grado di contestualizzare contenuti, analizzare forme, ampliando aspetti, trovando rimandi, ascoltando echi, sapendo cogliere la centralità delle immagini, le correlazioni spesso non così manifeste, ma plausibili secondo un dato tipo di avvicinamento al testo.

Nel corso del sondaggio si forniscono anche domande atte a chiedere gli autori – sempre in fatto di poesia – tanto italiani che stranieri che si reputano, per ragioni proprie, i più importanti per la poesia, che vanno senz'altro letti e studiati e tenuti a mente. Questo consentirà di poter avere dati attendibili in merito alla poesia che realmente si legge (e dunque si ama) che non ha da essere valutata meramente con ciò che nelle librerie viene comprato, spesso in maniera semplicistica, sulla scorta di una suggestione avuta magari dalla semplice copertina o da un lontano consiglio di qualcuno che non di rado non ha come epilogo che quello di lasciar depositare polvere su quel libro acquistato.
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copia e incolla:
https://docs.google.com/forms/d/1rhr2V9AP9izISobfN0BIlzEj7Csyga-_AqfUy9Ib_Zo/viewform?fbclid=IwAR1pny78yfTEv6ZivB2V_cnTYz7fl7VHKUkz1BnND4NjdIDMdawqDDOUJw8

SEGNALAZIONE VOLUMI = PAOLO RUFFILLI

PAOLO RUFFILLI : Camera Oscura-- Ed. Garzanti, 1992

La copertina minimalista, azzurro e rossiccio con una venatura di malinconia autunnale, arditi così da imprimersi meglio nella memoria dell’a volte distratto e altezzoso lettore; le pagine atipicamente smagrite nel loro rapporto tra altezza e larghezza, come pilastri svettanti che sembrano lanciarsi oltre ponti di archi rampanti in una qualunque cattedrale di quelle che hanno fatto la storia, a volerti comunicare l’altezza dei suoi contenuti; la carta ruvida e consistente come le parole che sorregge, campite da un gradiente impercettibilmente sfumato che ne ha colorato i bordi in modo tenue, come se le carezze del tempo si fossero chiuse in una conca benevola, a protezione di questi canti e moti dell’anima.
Un librino dal titolo poderoso, cui mi sono accostato come il Bastian di Michael Ende, correndo a rintanarmi nella soffitta del cuore, sotterrato da una polverosa coperta militare, alla luce di una candela durante l’urlo del temporale, preconizzando le sferzate emotive che la metafora del titolo suggeriva, e la dedica confermava, a chi sa leggere quell’inchiostro simpatico che si scriveva un tempo col succo di limone per celare segreti, sogni e paure.
Non a caso Paolo Ruffilli cita in apertura Roland Barthes, ne La camera chiara: “Per voi, non sarebbe altro che una foto indifferente, una delle mille manifestazioni del qualunque”, e conclude: “per voi in essa non ci sarebbe nessuna ferita”, proprio a sottolineare che l’oscurità della sua camera, invece, si contrappone con la forza dirompente dell’ossimoro a dirci ciò che solo la poesia minatrice può dire, scavando paziente tra le venature profonde del nostro “io”.
La riflessione è imponente, tuttavia depositata sul fondale con perizia:“Forse, perché nel pacco delle foto per convenzione l’urlo è muto e sta bloccato il corso nella sospesa evoluzione, avanti e indietro. Tutto è già accaduto e viene lì accertato con minimo distacco, i pregi e i torti posti sotto vetro.”
In queste istantanee “I vivi sono morti: colti in assenze di statuto, nell’atto di discesa senza porti”, “Morti vivi.”
Non c’è modo, né intenzione, di sminuire l’ascesa cosmica cui vertono i versi nel loro interrogativo peregrinare, è quella spina che danza su carne viva a rendere la dimensione esistenzialistica più evidente: “La cifra data e persa, misteriosa, di un essere a cavallo, dentro e fuori: l’io dominato da un intero assoluto e indifferenziato … le tracce di un discorso in sé smarrito perduto, scivolato sul pendio del tempo fulminato”.
È il tempo a farla da padrone in questa raccolta poetica, a tenerci al guinzaglio sotteso, noi con i nostri destini miseri o mirabili in vita, (eppur miseri, sempre, infine), silente, spietato, incapace di distinguere le nostre forme nella più totale indifferenza.
Le istantanee poetiche si susseguono con impagabili e improvvisi dripping emotivi, narrazione condensata nel verso che rimane.
Emblematica la lirica che racconta di tale “Wanda Dell’Amore”, che ci proietta, con tocchi sapienti, nelle atmosfere dell’avanspettacolo degli anni ’40 (una coincidenza o un richiamo a Wanda Osiris?), pare di coglierne suoni e colori e quell’azzardo erotico certamente di avanguardia per l’epoca: “Il charleston di raso con fiori di paillette e frange di perline sulle gambe nude. Le scarpine décolleté col nastro. Una mano sul fianco e l’altra a reggere i capelli dietro al collo. Le labbra strette, a cuore”.
Il sogno si stempera poi nell’epigrafe che si fa sintesi di una vita dura ma ricamata, di quando in quando, di piaceri autentici: “Soubrette di avanspettacolo di piccoli teatri di quart’ordine attenti più che all’arte alle sue forme piene dei vent’anni. Del resto, soddisfatta del corpo che è piaciuto. «Ho dato e amato tanto, ma ho anche avuto»”, con echi assolutamente vicini alla voce di Edgar Lee Masters nella sua celebre Antologia di Spoon River.
Ruffilli va oltre, dimostrando già all’epoca (era il 1992 l’anno di pubblicazione per i tipi di Garzanti), una grande consapevolezza (che è al contempo fardello esistenziale) e ci racconta di quel “rimpianto che ogni cosa, incontro, tolga un grammo limando ogni giorno scavando, come l’acqua, il vuoto intorno”.

Il peso degli schemi cui non possiamo sfuggire, talvolta pare insostenibile, genitori ridiventano figli dei propri figli, forse nella vecchiaia, forse nella memoria immedesimativa di ciò che fu, per loro, in analoghe situazioni del passato.
Schemi che fanno da architravi all’istituto della famiglia, si fanno gogne striscianti in cui i doveri, come ceppi auto inflitti, soffocano i desideri che non volano più: “Lei che si è data a lavorare, da sé asservita ai suoi bisogni. Diventata padrona e sanguisuga: l’edera che lo ha recinto e consumato. Ruga dopo ruga ristretta, disseccata, incartapecorita”.
La vecchiaia fa capolino, e non poteva mancare, nella sua capricciosa malinconia mista a misericordia, a tratteggiare un declino a tratti sconcertante, a tratti commovente: “Presto invecchiata dal mestiere, sulla sedia in ombra nella stanza, tenendo tutto il giorno il suo cappello, cantava piano, senza più sapere cosa, lo stesso ritornello: «il falchetto cacciavento piomba a terra in un momento». Astro, folgore, cometa, freccia d’argento. Anche la traccia luminosa …è tutto spento.”, a suggerire forse di come il decadimento cognitivo a volte possa preservarci dalla crudezza più crudele della nostra condizione, trasportandoci talvolta e anche se solo per un momento, in un giardino segreto che forse taluni hanno potuto coltivare in vita, mentre altri troverebbero solo l’inferno dei propri stenti, come in un incubo ricorrente e senza risveglio.
Le vicende familiari (forse di antenati dell’autore, forse solo così bene immaginate), si susseguono rapidamente come in una proiezione di diapositive (a ben pensarci non troppo diversa da una moderna sequenza di storie su Instagram): è costante la bellezza, nella forza convincente della citazione visiva, delle immagini proposte: “lui col cappello di feltro e una sciarpetta doppia di seta bruna stretta al collo, lei un camicione a strisce da pipistrello fin sotto al mento. Uniti, sì, per distrazione”, in un’alternanza di riflessione e pittura affabulatoria in cui le delusioni sembrano originarsi da un’etica del dovere che opprime: “Fu, nella vita, ciò che non voleva: serva e moglie tradita” e poi “Non ebbe nulla o poco di quanto sognava. E pure quel decoro che sperava le restò impedito”.
Certo i tempi erano duri, i primi del Novecento in alcuni tratteggi, però i meccanismi di controllo psicologico che si possono attuare, le dinamiche perverse e restrittive delle libertà individuali, che si possono generare in determinati rapporti familiari malsani, si sono semplicemente cambiati d’abito e restano più che mai attuali.
Per questo la potenza comunicativa di questa raccolta poetica è duratura e universale.
Anche la politica e le ideologie di molti decenni del secolo scorso, si sintetizzano attorno ai ritratti fotografici in versi, in un amalgama di pittogrammi densi di significati legati ai dolori di un’epoca e di un popolo, tradotti nella luce del quotidiano divenire personale: “Lui, monarchico in casa socialista, era la pecora nera della famiglia. Sua moglie, sarta, lo spingeva dicendo che ci avrebbe guadagnato più rispetto. Lui, che era stato ardito e, poi fascista della prima ora. Con un gruppo di amici si vedeva, per vincere la noia, a dividersi l’Europa sulla carta. Ammazzato con gli altri sull’argine del fiume, una mattina presto. Scovato, dentro al cesto con le piume d’oca, sulle tracce della figlia mentre gioca nel cunicolo della cantina, discesa e risalita fino alla rovina”.
Non si fa l’abitudine alla sapiente forgiatura scenografica delle immagini, e ci si sorprende ancora e ancora: “(In piedi, con la mano sul bracciolo di un divanetto in legno. Un largo basco da cui escono a corona i capelli, su un abito pesante con gonna a pieghe e redingote con il colletto e i polsi di velluto. Sullo sfondo un telone di broccato tenuto da un cordone di volant, dietro la testa. È segnata la data: 1.4 del ’18)”.
Gioie e dolori di un albero genealogico, o di talune foglie di cui sono rimasti frammenti di memoria tangibili, scorrono dinanzi al lettore senza soluzione di continuità emotiva, infuse di ancore visuali che stimolano la fantasia in una rincorsa verso la prossima sorpresa: carrozze e ombrellini, la ritualità della vestizione a festa per la domenica, la giacca di fustagno, l’elmo a punta e la mantella sul cavallo finto, sembra di esserci, partecipando ai ricordi di un bambino cresciuto che non vuole dimenticare.
Non volendo svelare troppo delle preziosità celate con generosità e maestria dal nostro, con l’augurio che ogni lettore appassionato ricerchi questa raccolta poetica ove istruire l’animo e appagare l’intelletto, interrompiamo con una cesura il flusso interminabile di coscienza che l’opera Camera Oscura lascia fluire dai suoi versi colmi di sincerità, profondità, schiettezza e capacità rappresentativa autentica, auspicando che ciascuno a modo suo, possa vincere “lo squarcio sul quadro decoroso dell’invalicabile distanza del salto e del trapasso nella scandita finzione del presente”.
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Marco Baiotto

24-25/12/2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = EDITH DZIEDUSZYCKA

Edith Dzieduszycka – D’oro d’argento d’ombra - Genesi Editrice – Torino – 2020 – pag. 121 - € 12,00

Di origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo, dove compie studi classici. Attratta sin da giovane dal mondo dell’arte, i suoi primi disegni, collage e poesie risalgono all’adolescenza passata in Francia. Ha partecipato a numerose mostre personali e collettive, nazionali ed internazionali e si è dedicata alla scrittura. Ha pubblicato numerosi libri di poesia, fotografia, una raccolta di racconti e un romanzo.
Protagonista assoluto della raccolta di poesie D’oro d’argento d’ombra è il tempo che acquista una connotazione drammatica e materica quando la poetessa usa espressioni come frustare le ore o inghiottire l’istante che fugace ti frega giocandosi di te e dispettoso evade tra le lacere maglie dell’infima tua rete.
Le ore pur fermate per strada non si possono mettere in trappola e Edith, descrivendo il tutto che scorre nella durata lascia intravedere un barlume di speranza nel sottendere nei versi la possibilità dell’attimo teorizzato da Heidegger, feritoia tra passato e futuro nel quale si ferma il tempo stesso.
Per l’unitarietà formale, contenutistica e tematica il libro può essere letto come un poemetto che trova la sua fluida continuità anche nel fatto che tutti i componimenti sono senza titolo elemento che tende ad amalgamarli in un unico denso fluire.
Un pessimismo di fondo pare sedimentarsi nei tessuti linguistici ben raffinati e ben cesellati e tutte le poesie sono elegantemente risolte secondo un notevole controllo, elemento veramente positivo.
La tripartizione del volume pare alludere alle tre tappe della vita: infanzia e gioventù, maturità e vecchiaia.

Di raccolta in raccolta la poetessa sa sorprenderci, con la sua fertile penna, nel sapere rinnovare continuamente le tematiche di fondo dei suoi libri, sempre nella stabile tensione della ricerca del senso della vita. sia che l’argomento trattato sia l’addio alla persona amata, sia che sia quello di un bestiario bizzarro, sia che sia la ricerca ontologica dell’essere o dell’esserci sotto specie umana, sia che privilegi la forma dell’haiku.
Nel libro che prendiamo in considerazione in questa sede prevale la struttura verticale della versificazione e tutte le poesie risultano suddivise in agili strofe.
Lo stesso tema del tempo come filo rosso per una raccolta di poesie sottende un’idea alta ed un’intelligente e scaltrita coscienza letteraria e il riferimento dell’autrice sembra essere Eliot.
E si ritrova inevitabilmente un’inquietudine intrinseca nelle poesie sottese alla caducità delle cose mentre si rievoca costantemente l’idea del limite della morte.
Quindi un testo affascinante e originalissimo nel nostro panorama che conferma la poeta tra le voci più alte italiane della contemporaneità.
Ed emerge spesso un tu come nella poesia dedicata a Michele: da notare che qui l’autrice si apre all’ottimismo, anche se dura solo un momento, quando, rivolgendosi all’uomo gli dice con versi di grande bellezza di avere captato di lui uno sfumare di luce trattenuta dalle dita di neve.
L’artista nel suo rinnovarsi, di componimento in componimento, con una cifra distintiva che in questo caso è definibile vagamente neolirica e attraverso l’esprimersi con una forte densità metaforica e sinestesica, ci consegna pagine memorabili sotto il segno del dono del turbamento che in ogni caso implica una possibile redenzione di gioia che è connaturata a quella del suo poiein stesso che è magistrale e articolato.
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Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI = ROCCO SALERNO

ROCCO SALERNO "Nonostante questo" - Ed. Macabor - 2019

Rocco Salerno, docente, saggista, poeta, vincitore del Premio Nazionale di poesia Libero de Libero 2015, ci offre, con il poemetto Nonostante questo (Ed. Macabor, Francavilla Marittima 2019), il racconto di un amore intenso, virulento, difficile e disperato, simile a quello del grande poeta Vladimir Majakovskij per Lila Brik: è - scrive acutamente Barbara Alberti nella deliziosa prefazione – “poesia come incarnazione. Majakovskij va e viene nei suoi versi, fantasma inappagato che rifiuta la sepoltura, ma è un Majakovskij-Salerno…”.
In questa identificazione – credibile perché, nelle tappe di questo itinerario, con le labbra del poeta russo non parlano 150 milioni di uomini come nell’opera omonima, bensì la voce, affatto personale, del protagonista di una vicenda d’amore tutta privata – il poeta italiano va oltre l’immedesimazione con Dario Bellezza attinta nella recente mirabile silloge L’emblema casto del passato. Nel poemetto, infatti, egli non significa (“Anch’io…) la propria vicinanza spirituale all’amico poeta, ma giunge a farsi tutt’uno con lui, di cui peraltro riprende non pochi lacerti lirici.
Il poemetto, strutturato in sei canti contesti di versi liberi, si articola in un intenso dialogo intorno all’amore: “nell’amore si incatenano – come precisa nella dotta e analitica postfazione Antonio Spagnuolo – le tre figure protagoniste di questo allettante intreccio sentimentale”: due uomini, infatti, e una donna “si abbandonano alle vertigini di passione, ammiccamenti, tradimenti, ripensamenti…”.
L’epifania di Majakovskij è già operante in esergo mediante la citazione di alcuni suoi versi tra i più belli: ”Ma al di là dell’amore per te, // per me / non c’è mare, / e a quest’amore neanche col pianto / darai una tregua. // Ma al di là dell’amore per te, / per me / non c’è sole, / e io non so neppure dove sei e con chi. / Nonostante questo, / il mio amore, pesante come un macigno, / resta appeso al tuo collo, / dovunque tu fugga”. Lo stesso titolo del poemetto è, dunque, la traduzione di uno stilema del poeta russo. E non di rado versi di liriche majakovskijane alimentano cospicuamente il dettato lirico di Rocco Salerno: La stanza / è un capitolo dell’inferno di Krucenych. / Accanto a questa finestra / per la prima volta,/ in estasi, carezzai le tue mani. // Ancora un giorno, / e mi scaccerai, / coprendomi di ingiurie /… // “Balzerò fuori, / lancerò per strada il mio corpo, / Selvaggio, / diverrò pazzo, / trafitto dalla disperazione. / Non si deve giungere a questo: / cara, / buona, / diciamoci adesso addio. / Nonostante questo, / il mio amore, / pesante come un macigno, / resta appeso al tuo collo, / dovunque tu fugga. // Su di me, / al di fuori del tuo sguardo, / non ha potere la lama d’ alcun coltello. / Nonostante questo.”
O ancora: “Ma uno / come me / dove potrà ficcarsi? / Dove mi si è apprestata una tana? / Dove trovare un’amata / uguale a me?”. Altrove – come nota la Alberti – i versi di Salerno e quelli di Majakovskij “si intrecciano in un abbraccio disperato”. Gran parte della suggestione del poemetto, a mio avviso, è data proprio da questa ambiguità. Una chiave, questa, che accompagna il percorso narrativo, anche se, in due luoghi, una precisa determinazione geografica riconduce specificamente la vicenda all’identità dell’autore: “Più volte il Tevere mi tenta…”; “Me ne vado, / Roma non ha più volto…”.
Si dipana, così, in una partitura iridescente, il racconto della fenomenologia di quella relazione: una storia di convulsa tensione passionale, febbrile ardore dei sensi e voluttà, disperante solitudine, insistita e delusa ricerca di una rinnovata intesa, rimpianto di giorni lieti reiteratamente evocati, parvenza fiabesca di quell’amore, amara contezza della fine dei sogni, imploranti appelli alla donna idolatrata quanto inattingibile. E lei pare incarnare la realtà ossimorica della passione d’amore, “dispietato giogo”, “dolcissimo, possente”, fonte di piacere e di crudeltà, speranza e disillusione, estasi e disperazione. È un incombere assillante, che non lascia spazio a riposi contemplativi o a indugi descrittivi.
La tenace renitenza di lei di fronte a quegli appelli – mentre perdura l’incanto del suo sorriso – e l’infittirsi di una mortale stanchezza di esistere, fanno balenare i segni di un’ossessiva tentazione tanatologica, non aliena da un’ansia metafisica, un anelito religioso. Si susseguono, su una tastiera sempre accattivante, le note di stati d’animo cangianti come di situazioni reiterate, che il poeta indaga con penetrante e impietosa acuità introspettiva, profondità e ricchezza di analisi psicologica. Una disamina favorita da una mirabile duttilità espressiva, aperta a un’ampia gamma di accenti e di toni,capace di asprezze realistiche e di morbidezze melodiche, come di effetti di straniamento.
La cifra tormentosa di questo amore si annunzia sin dal brano lirico iniziale, con il susseguirsi di metafore e di immagini nutrite di vigore visivo e plastico, che segnalano la riluttanza di lei (“Tu non mi capisci. // “Va via, non meriti il mio viso…”) , il suo viso sfuggente “come la luna”, le labbra che si negano al bacio consolatore: “i tuoi occhi non sono più finestre aperte, / balconi sui miei giorni, / stalattiti sui miei deliri”. Una straordinaria girandola di metafore e immagini che rispecchiano l’inquietudine insanabile del suo animo, che non può appagarsi della superstite amicizia di lei e rassegnarsi alla diversità dei cammini che, secondo lei, li divide: “Mi sei la statua non modellata / Mi sei l’alba che pencola sullo sguardo. / Mi sei sangue nonostante”.
Egli rimpiange il suo sorriso, senza il quale cade in deliquio. Il dialogo procede su un duplice versante: da una parte il reiterato struggersi di lui nel rivendicare la pienezza del proprio sentimento, dall’altra il perentorio ripudio e rimprovero di lei culminante nell’esiziale proposizione “E’ finita”. Allora il poeta la lascia, “immemore del passato, / dei sogni infranti”: “Ti lascio / Ti lascio, / fanciulla, non consumata come la pomice dal fiume. / Mi resta la tua grazia di Naiade, / il tuo sguardo affilato, / il mio incavato di pianto”. La tenerezza si mescola, così, all’ammirazione della sua grazia e al fuoco del desiderio, a cui fa riscontro il suo pianto, ispirando accenti lirici di grande suggestione: “I suoi occhi / non gridano amore; / ma in essi ogni giorno mi muovo / fiamme che mi divorano / e non mi carbonizzano / io che vorrei ad ogni istante / dentro di lei affogarmi / nelle sue carni incendiarmi”.
La fenomenologia dell’amore svaria, quindi, con felici esiti poetici dall’elegia della passione infranta all’angoscia delle “desolate giornate”, dalla flocculazione dei ricordi, con la memoria di “irrisolti dissidi e paradisi” e del sorriso di lei “tenera gazzella”, all’autocommiserazione amara: ”Sono un cane bastonato / sotto la pioggia / che cerca riparo”. E la disperazione si converte in invocazione a Dio, in dubbio se vivere o morire, in ansia di infinito travagliata da visioni incubose. Il poeta supplica Dio perché non lo lasci solo nel deserto; e l’invocazione prende vigore dall’insistenza dell’anafora che introduce i vari elementi di un’accorata climax: “Voglio un volto che finalmente rischiari questi occhi, / voglio braccia che cullino come mia madre l’infanzia, / voglio un verme che mi scovi le ossa, / voglio una luce che vinca la povertà del cuore, / voglio gridare che ho trovato la strada. / Voglio questo sonno si trasformi in sogno…”. Invoca, poi, la mamma: “…tuo figlio è stato folgorato. / Non ha più dove posare il capo. / Non ha più ove arrestare questa morte, / dove fermare questi sogni”. Non a caso il lemma “sogno” (o “sogni”) ritorna con frequenza nel testo, con varietà di valenze semantiche, dall’estatica all’onirica, a dire l’oscillazione del suo animo, l’instabilità e fragilità del rapporto, e il suo labile incanto. Di nuovo risuona il lamento: “Lei non vuole saperne. / Per questo è cancrena, / arsura alla mia sete”. Ma l’effusione dell’amarezza – pur nella contezza del tradimento – non va oltre questa sottolineatura dell’insanabile tormento che lei provoca: non l’orgogliosa e risentita reazione leopardiana alla ripulsa di Aspasia, solo l’insistenza sull’angoscia suscitata da lei, che rimane pur sempre oggetto di tenerezza e di ardente vagheggiamento.
Il senso geloso della sacralità di lei si manifesta, timoroso della profanazione del suo corpo, di fronte ai giovani “ghignanti” nel bar: “Non poggiate le mani / su quella carne / ancora fresca di lacrime, / su quelle labbra / ancora cariche / di dolcezze scottanti / … / Abbassate il capo. Chiudete le labbra. / Venere passa. / Lascia infiorescenza ad ogni angolo…”. Ancora prevale la lode della sua bellezza: “Io guardo i tuoi occhi / e sono belli. / Io guardo il tuo viso / ed è sincero. / Io guardo la tua vita / ed è leale…”. Ricorda “il rovente fuoco” dalla sua bocca per il corpo di lei, il corpo che “risveglia sogni / dentro gli occhi…”; ma il ricordo e il sogno non valgono più a consolarlo. Rivive l’immagine di lei, sovrana, con il brivido che gli “correva fino alle ciglia” dal suo ”solo sorriso”, in un crescendo di metafore (“Eri la tempesta / che urgeva per la quiete”) e di concitazione: ”Salivo, scendevo, inseguivo. / Mi morivi se ti vedevo sparire…”. Il disagio di lui si rispecchia nel solidale rammarico dell’altro uomo, peraltro suo amico: “È triste, ma è il nostro destino: convivere in uno stesso / tempo e luogo / e farci guerra per amore. Intendo la tua angoscia…”. E la sublimazione dell’Amore culmina nell’appello appassionato: “…Tu che puoi tramutare / questo ghiaccio in vulcano, / dammi l’anima; / dalla a me la tua anima…”. Esso trova riscontro nella famosa invocazione di Majakovskij¸”Risuscitami. / non foss’altro perché / da poeta / t’ho atteso, / ripudiando le assurdità di ogni giorno!”.
Ritorna, così, l’epifania di Vladimir nell’invocazione-rievocazione che chiude il poema: “Ma questo ti basti: / nell’avidità di amare / anzitempo ci siamo bruciati? // …Devo andare // … // Ma tu ricordami come un sogno / che ti scoppia negli occhi. // Majakovskij pende ancora dalle labbra di Maria. // Nonostante…”.Versi che nel lettore memore della poesia di Majakovskij suscitano il ricordo di una sua lirica scritta poco prima della fine, limpida e assorta, pacata, pervasa da un senso di rassegnazione al destino e dal superamento catartico della vicenda personale nella contemplazione del flusso dei secoli e dell’infinità dell’universo: ”Sono già le due. / Forse ti sei coricata /… // Come suol dirsi / l’incidente è chiuso. / La barca dell’amore / s’è infranta contro la vita . // Tu ed io siamo pari. / A che scopo riandare / afflizioni / sventure / ed offese reciproche? // Guarda / che pace nel cosmo. / La notte / ha imposto al cielo / un tributo di stelle. // In ore come questa / ci si leva e si parla / ai secoli, / alla storia / e all’universo”.
Ma quell’epifania non si conclude qui. L’affinità con Vladimir (e l’influenza di lui) si avverte, infatti, anche nella cangiante polimetria del tessuto espressivo, che gode della ineguaglianza della misura metrica, e della frantumazione del verso, ove è, spesso, ridotto al minimo il numero delle sillabe, con prevalenza di quinari e anche di trisillabi, peraltro familiari a Rocco Salerno (anche se non latita il verso lungo, di pavesiana memoria, anch’esso presente nel poeta italiano); nell’isolamento delle parole, che richiama i principi dello zdwig pittorico peculiare al cubofuturismo: “Potrò // “E come?; “Ti lascio”. / “Un momento / Eterea. / Sempre”; “Vado”; “Fermi”; nell’uso frequente dell’anafora e dell’anadiplosi. Ciò anche se Salerno accoglie solo in un luogo (“Risuscitami…”) il procedimento che spesso, nel poeta russo, dissemina scalarmente i sostantivi nella pagina.
Si compie, dunque, l’opera, che Barbara Alberti sapientemente definisce “temeraria”, del poeta calabrese: rivive, a circa un secolo dalla tragica conclusione della sua esistenza terrena, Vladimir Majakovskij, in virtù della singolare “poesia reincarnata” di Rocco Salerno.
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FRANCO TRIFUOGGI

giovedì 26 dicembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCESCA LO BUE

Francesca Lo Bue – Moiras---Scienze e Lettere – Roma - 2018 – pagg. 143 - € 12,00

Francesca Lo Bue è nata a Lercara Friddi (PA); ha curato diversi studi letterari sia in italiano che in lingua spagnola; ha pubblicato una raccolta di poesie in lingua spagnola, 2009 e il romanzo di viaggio Pedro Marciano, 2009.
Moiras è una raccolta di poesie non scandita in sezioni, completata da un’appendice e presenta la traduzione in spagnolo a fronte. Il testo è preceduto da una premessa in prosa dalla quale emerge una Roma caput mundi, archetipo di ogni luogo e civiltà; in tale scritto la parola Roma si ripete iterativamente in brani staccati tra loro di varia lunghezza.
Il testo presenta una forte icasticità del dettato e la scrittura, fortemente avvertita, è caratterizzata da sospensione e da una frequente punteggiatura che rende i componimenti molto frazionati nella loro unitarietà di senso.
Elemento saliente del testo è un naturalismo, spesso venato da misticismo. La poetica dell’autrice è caratterizzata da accensioni, spegnimenti ed epifanie e si potrebbe definire, in molti casi, della descrizione; è presente una forte densità metaforica e sinestesica, che si coniuga a visionarietà.
Spesso s’incontra una certa cifra anarchica dei versi, congiunta a una vena filosofeggiante e classicheggiante e tutto l’ordine del discorso è pervaso da un senso di mistero.
Il tessuto linguistico è connotato da un forte scarto poetico dalla lingua standard, che si gioca tramite una complessa tastiera analogica.
La natura detta dalla poetessa è animata da una valenza spesso surreale, come per esempio nei versi che leggiamo in Ninfea: - “le lacrime del sole purpureo che sorride” -.
I versi procedono per accumulo e le chiuse sono spesso folgoranti; la forma è intrisa da una vaga bellezza e le poesie sono costituite da frasi brevi staccate tra loro.
Globalmente Moiras potrebbe essere letto come un poemetto per l’unitarietà della materia trattata; sono descritte spesso figure mitologiche come la Sirena nera e si riscontrano sensualità e fisicità nelle immagini.
I componimenti sono concentratissimi e dai versi dell’autrice trapelano stupore e malia e un gusto neobarocco rarefatto nella sua forte dose d’inquietudine.
Il misticismo, sia cristiano, sia naturalistico, sia classicistico, potrebbe essere considerato come il filo rosso che lega i vari componimenti in un interanimarsi di materia e natura e sono frequenti le interrogazioni che la poeta esprime nei suoi versi.
In Il sole e i semi lo stesso sole viene visto come una divinità ed è nominata la morte. Il tono spesso è mitico e c’è una forte densità nella scrittura, che procede in modo scattante e armonico.
Il dettato è caratterizzato da una certa pesantezza, la scrittura è alta e pervasa da venature neo orfiche. Il versificare è composito, variegato e complesso e spesso caratterizzato da un’oscurità che tende all’alogico.
È come se i versi avessero un’arcana provenienza, simili ad una voce proveniente da un’arcana conchiglia e le poesie sono costituite da segmenti giustapposti. Si possono intravedere nella scrittura due livelli nel discorso: il primo accade quando a parlare è l’io-poetante molto autocentrato, il secondo è quello che consiste nella raffigurazione di immagini incantevoli
La natura descritta da Francesca Lo Bue è neoromantica misteriosa ed evocativa. Vari frammenti brevi costituiscono le poesie, suddivisi da una fitta punteggiatura.
In Moiras la poeta compie uno scavo nella sua interiorità nel suo relazionarsi con la realtà ad essa esterna. Ricorre spesso la presenza di un tu al quale l’autrice si rivolge, del quale ogni riferimento resta taciuto e che potrebbe essere l’amato; si tratta di una presenza che resta nel vago.
Nell’appendice ritorna il tema romano della premessa, attraverso delle liriche che dicono la città eterna, che emerge magica ed evocativa e vengono nominate parti importanti della città eterna come il Tevere e Trastevere.
Una poesia fondata su forti sensazioni, quella di Moiras, che si apre alla vita attraverso una nominazione fertile, che si esprime in modo intellettualistico ed originalissimo.
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Raffaele Piazza.

mercoledì 25 dicembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCESCA LO BUE

Francesca Lo Bue – Il libro errante-- Edizioni Nuova Cultura – Roma – 2019 – pag. 89 - € 10,00

Francesca Lo Bue nasce a Lercara Friddi (PA); ha pubblicato numerose raccolte di poesia in lingua spagnola e in italiano; vive e lavora a Roma. Il libro errante è un testo non scandito e, anche per questo, potrebbe essere considerato un poemetto; presenta una prefazione ricca di acribia, che non entra nelle ragioni del libro stesso, nella quale si parla, in generale, del senso della poesia.
La poeta, nell’opera, si esprime attraverso una poetica neolirica, connotata, spesso, da un tono elegiaco, da magia e sospensione. E’presente fortemente, nelle poesie dell’autrice, una natura che viene raffigurata attraverso la nominazione di numerose specie vegetali e animali; l’autrice si potrebbe definire, per certi aspetti, interprete, soprattutto, della metafora vegetale.
A livello formale le liriche, concentratissime e leggere, sono eleganti e icastiche, tutte ben risolte e ottima è la tenuta dei numerosi versi lunghi.
La maggior parte dei componimenti sono suddivisi in strofe e presentano compattezza luminosità e nitore. C’è un tu, al quale l’io-poetante si rivolge in modo accorato e sensuale, che potrebbe essere, presumibilmente, quello dell’amato, che viene detto attraverso particolari del suo aspetto fisico.
Un’altra caratteristica delle poesie presenti in Il libro errante è quella di un’accentuata visionarietà, che si realizza attraverso immagini vaghe, che hanno, talvolta, una forte carica di suggestione e di malia.
Intrigante è il tema della poesia, della letteratura, nella poesia stessa, che incontriamo in Il Sentiero del vento. poesia che ha, come incipit, il verso: /Il sentiero del libro, ali nere che portano strie di luce/ per fondare la calligrafia degli enigmi/…
Nei versi suddetti viene detto, in versi, il carattere salvifico della poesia, attraverso il supporto del libro stesso, che, dal nero delle ali, che restano indefinite, porta al varco di schegge di luce, che servono a costruire una calligrafia degli enigmi, da intendersi come il risultato dello scrivere: i componimenti poetici stessi divengono simbolo di redenzione.
Francesca Lo Bue ha una notevolissima capacità di rinnovarsi continuamente nella stesura, di pagina in pagina nel libro, caratteristica già presente nell’opera precedente Moiras.
La sua cifra essenziale è quella di creare, attraverso i sintagmi che si trasformano in versi, immagini sempre nuove e riuscite, come tramite un caleidoscopio.
È presente anche il tema del dolore, per esempio nella poesia Meteora, nella quale viene detta l’immagine di una vita spezzata dentro calici ebbri, del tutto non in sintonia con la fusione con la natura e con la gioia e attraverso altre figure nominate e quasi gridate.
A volte, con notevoli accensioni ed epifanie di luce, la poesia si apre alla speranza, a squarci improvvisi di bellezza e di gioia, tramite la parola stessa, nominata, come in Quello che rimane, nella quale vengono detti angeli di pietra, dai riti ed agapi remoti.
Il tema del libro si ritrova anche in Il libro smarrito, testo complesso e quasi oscuro, nel quale viene detto con urgenza forse lo stesso Libro errante del titolo della raccolta.
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Raffaele Piazza

martedì 24 dicembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIOVANNI LACAVA

I quaderni dell’ussero a cura di Valeria Serofilli
Giovanni Lacava – Rapsodia--- puntoacapo Editrice – Pasturama (Al) – 2019 – pagg. 47 - € 8,00

Giovanni Lacava nasce a Grottaglie in provincia di Taranto nel 1984 e attualmente risiede a Pisa dove lavora come ingegnere.
Rapsodia è una raccolta di poesie composta da ottantaquattro componimenti numerati che presentano estensioni diverse.
Ogni segmento del testo può essere letto come un frammento o una tessera musiva di un insieme più vasto, che assume senso nella sua globalità, anche se ogni singola poesia è in sé stessa compiuta e autonoma.
Per quanto suddetto il libro potrebbe essere inteso come un poemetto per la sua unitarietà e la sua coesione interna.
Come scrive Valeria Serofilli, nella prefazione ricca di acribia, Rapsodia va letto come una riflessione globale sugli incontri e gli eventi della vita, momenti incontrati lungo il cammino e raccolti, annotati, con cura.
Come ciottoli lungo un fiume che scorre, un alveo che li raccoglie e li modifica.
Cifra essenziale del testo è quella di una forma icastica del versificare, precisa e leggera, elegante e dall’andamento misurato, vagamente neolirica, veloce e nitida.
L’io poetante è molto autocentrato e descrive situazioni che toccano ogni ambito esistenziale, a partire dalle sensazioni fisiche (come quando dice di avere bisogno di sentire il gelo), per poi giungere a parlare di città o a riflettere in versi sull’esistere e sul suo senso.
A volte le poesie riportano il luogo nel quale sono state scritte, che diviene tout-court occasione per il dipanarsi delle immagini, come nella quarta poesia ambientata a Piazza dei Miracoli a Pisa un venticinque aprile, giorno della Liberazione.
È presente, nel linguaggio usato da Lacava, una forte densità metaforica e sinestesica e la dizione è chiara, pacata e controllata anche quando vengono affrontati il dolore e l’ansia dell’esistere e la voce si fa gemito mentre raccoglie lacrime.
La poetica dell’autore è veramente originale e sembra di leggere un diario di bordo di un’anima che è in continua ricerca di approdi, di appigli, di parole per salvarsi dal mare magnum del quotidiano.
È presente un tu, del quale ogni riferimento resta taciuto, al quale l’io poetante si rivolge in maniera forte e accorata
Si può considerare il libro paragonabile ad una partitura musicale, ad una rapsodia, appunto, come dal titolo, con tante variazioni sullo stesso tema.
A volte, in controtendenza al tono generale, si aprono squarci idilliaci attraverso descrizioni che raffigurano bellezze naturalistiche.
Un esercizio di conoscenza Rapsodia, un tipo di scrittura praticata dall’autore per trovare in uno specchio virtuale la propria identità più profonda a prescindere dalle contingenze e le apparenze.
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Raffaele Piazza

lunedì 23 dicembre 2019

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO

“Incantamento”
Balze della memoria si rincorrono
per un sottile incandescente filo
che riporta fantasmi a nuovo incanto.
Si riaccende ogni gesto
e nell’anfratto annido l’incerto mormorio
del nulla, che circonda od infrange
nell’alienarmi tra le coronarie,
per incidere variopinte angosce.
Annullo e ti rincorro perché ogni traccia
nel cemento ormai incalza,
circùito inaspettato al tuo negare,
quando il tempo arrossava nelle sere
ripetendo quest’oggi il senso dell’ignoto.
Mi disperdo abbagliato nell’inconscio,
scrivendo vaporose premesse
in questi giorni d’inverno senza tregua
invermigliato tra le bizzarrie in fuga
delle ore che battono all’arteria.
Perdura il tratto breve tra le radici e pietre
qui nella sera per rinverdire i ricordi
come un adagio a consenso di una fugacità
inespressa.

*

ANTONIO SPAGNUOLO

POESIA = RAFFAELE PIAZZA

"Alessia e le campane natalizie"

Mezzanotte per Alessia di Natale
a coglierla nel letto
mentre fa l’amore con Giovanni
(mentre lo guarda negli occhi
e di non essere lasciata spera).
E suona delle campane l’argento
tra erotismo e misticismo
e fisicità di Alessia nell’intessersi
con le stelle nel guardarle
e sta infinitamente Alessia

nel tepore del piumone
e del corpo di lui a riscaldarla.
Gli chiede se l’ama ed ha l’orgasmo.
*

"Alessia nel meravigliarsi"

Stupore e magia al risveglio
per un sogno fiore azzurro
del giardino segreto da non
raccontare a nessuno
nemmeno a Mirta
e neanche a te, lettore
di neve fresca. Vaga per
il condominiale giardino
Alessia ragazza dove c’è
una festa ed è lei la
festeggiata o forse anche
questo è un sogno e la
vita stessa è sogno ad
occhi aperti. Gatti
e gabbiani nel bere
compassione dalla sorgente
ed è tutta attesa della
vigilia di Natale
e dell’abete luminoso
dell’esistere.
*
Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI = DOMENICO CIPRIANO

Domenico Cipriano – La grazia dei frammenti-(poesie scelte 2000 – 2020)--Giuliano Ladolfi Editore – Borgomanero (No) – 2020 – pag. 141 - € 12,00

Domenico Cipriano, Guardia Lombardi (1970). Ha pubblicato in poesia le seguenti raccolte: Il continente perso, 2000, L’enigma della macchina per cucire, 2008, Novembre, 2010, Il centro del mondo, 2014, November, 2015, L’origine 2017. Inoltre ha realizzato il CD di jazz-poetry J Phard – Le note richiamano versi, 2004 e dal 2010 guida la formazione “Elettropercutromba”.
La grazia dei frammenti, il libro di Cipriano che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta una prefazione di Luigi Fontanella esauriente e ricca di acribia.
Si tratta di un libro strutturato attraverso la selezione di poesie scelte tratte dalle varie raccolte di Domenico e quindi è un po’ il punto di arrivo del poiein dell’autore, utile per il lettore nell’entrare approfonditamente nel merito della sua poetica.
E il tipo di libro in questione è correttissimo eticamente per la sua globalità e completezza di stimoli che può dare al lettore, prodotto riuscitissimo di quella che si può annoverare tra le voci più interessanti della poesia italiana della contemporaneità.
Come scrive Luigi Fontanella quella del Nostro si può considerare una poesia matura, dolce e amara con i suoi squarci d’improvvisa tenerezza; e, al contempo, frutto di un distillato, sapiente confronto con i valori essenziali della vita, ben consapevole, l’autore, ch’essa è sempre “minata” dal suo finale, fatale destino.
el suo libro di esordio (premio Camaiore), opera fortemente intrisa di realismo il Nostro si esprime con una cifra essenziale venata da lirismo ed elegia, del tutto legata ai luoghi dell’Irpinia. Si sente molto fortemente in questo testo, l’influsso dei luoghi stessi sulle persone: è affrontata anche la tematica del passare delle generazioni, che sembrano trasmigrare l’una nell’altra anche se, come afferma Alessandro Carrera, le poesie di Cipriano non hanno una natura unicamente domestica.
Tale vena sembra essersi diluita nelle poesie recenti del Nostro, anche se è ancora presente, in una certa misura.
Come scrive Daniela Monreale con notevole acribia, il poeta ricerca i luoghi interiori nel riflesso di quelli esteriori, con sicura, lucida consapevolezza del tutto intrinseca di questi ultimi, senza però scivolare in toni di autocommiserazione, anzi con piglio ironico.
Anche il tema naturalistico è presente e quella ci presenta il poeta è una natura rarefatta.
L’io poetante sembra in molte poesie di Cipriano ripiegarsi su sé stesso in un intenso solipsismo e in questa contingenza non è assente il senso della corporeità, punto di partenza per relazionarsi con l’alterità che può essere la natura stessa, la persona amata o la carissima figlia.
Quello che sorprende è la presenza di una forma controllatissima e tutte le composizioni sono magistralmente risolte.
La densità metaforica, sinestesica e semantica prevale in un versificare che ha a volte ha qualcosa di anarchico.
A volte la vena di Cipriano sembra avere una dose di surrealismo come ad esempio in Gli alberi di cera che fa parte della sezione Natura domestica e lampioni parte della raccolta Il centro del mondo. In questo componimento il poeta dice di avere un colloquio elementare con gli stessi alberi di cera e questi ultimi sono il simbolo di qualcosa d’imprecisato e vago e viene in mente il poeta Ponge che affermava che sarebbe bello se gli alberi potessero parlare.
Variegatissima questa antologia nella quale Cipriano sa raggiungere anche la capacità di trattare di componimento in componimento una realtà varia e anche magica e di innegabile fascino.
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Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI = DANIELA RAIMONDI

Daniela Raimondi – Entierro – monologo in versi--- Ed. Mobydick – Faenza – 2019– pag. 55 - € 9,00

Daniela Raimondi, con Entierro, prosegue il suo iter di poetessa, confermandosi una delle voci più vive e degne di attenzione del panorama attuale italiano. A livello stilistico e formale Entierro prosegue nella scia della precedente raccolta dell’autrice, intitolata Inanna. In entrambe le raccolte la cifra distintiva è la presenza di una forte corporeità al femminile, plasmata dall’io poetante. Come scrive Bianca Madeccia, nella precisa prefazione, Entierro è la quarta prova letteraria pubblicata dall’autrice e la sua prima opera teatrale in versi. La vicenda viene presentata nell’incipit attraverso una scena impersonale fortemente drammatica. Una giovane donna scalza con i capelli sciolti, palesemente scossa, tiene in braccio una bambola. La ragazza stacca rabbiosamente le membra del neonato e le sparge a terra. Pochi secondi dopo, quasi in un gioco di pentimento amoroso, la donna s’inginocchia e inizia a raccogliere gli arti di plastica uno per uno, cercando delicatamente e inutilmente di ricomporre il piccolo corpo. La narrazione in prima persona inizia nella scena successiva. La stessa giovane donna è ora in un istituto mentale o tra le sbarre di una prigione. Entierro è un’opera originale: raramente incontriamo nel panorama della poesia attuale, la forma del monologo in versi. Entierro può essere considerata un’opera teatrale in versi ed ognuna delle due scene, quella iniziale breve e quella lunga, che costituisce in massima parte il corpus dell’opera, sono fornite di due accurate didascalie che descrivono lo sfondo, lo spazio scenico in cui avviene la vicenda che è detta da un’unica voce, che, pur usando un tono quasi gridato, riesce sempre ad essere controllatissima a livello formale. Il sipario si apre e sul palco è buio e c’è gran silenzio e poi dall’oscurità nasce una voce di donna; è una scenografia efficace ed evocatrice di un grande senso di mistero e di forte onirismo purgatoriale, quella che la Raimondi ci presenta. I primi versi evocano una nenia materna e antica, che si usa per cullare i neonati: - “Ninna oh, ninna oh, / il mio bambino a chi lo do? Lo darò al suo angiolino /che lo tenga in sul mattino…-” In questa nenia, ovviamente, c’è una forte dose di musicalità, elemento, la musicalità, che pervade tutti i versi della poetessa in questo efficace monologo. L’atmosfera, caratterizzata da una luce che sale lentamente ed è vagamente macabra. La donna è seduta per terra e culla in grembo una bambola di plastica. Di colpo tace. La luce puntata dal basso dona al suo viso un aspetto sinistro. La donna fissa la bambola e poi, con gesti di estrema violenza le stacca un braccio, una gamba, la testa. Forte la drammaticità in questo smembrarsi dei pezzi di un corpo, seppure di bambola, un infanticidio virtuale, virtuale perché non muore un essere umano, ma un essere inanimato, seppure un essere inanimato possa morire, frutto di una maternità virtuale: tutto ciò è simile a ciò che può accadere in una forte crisi isterica di una donna. Dall’uccisione della bambola della prima scena prende le mosse la trama del monologo di Entierro: quasi una nemesi: quello che accade nella prima scena ci fa intendere che la infanticida sia una malata di mente e, quindi, subito dopo, a partire dall’incipit della seconda scena, l’ambientazione diviene quella di un ospedale psichiatrico o di una prigione. È il dolore connesso alla patologia mentale uno dei temi fondamentali dell’opera di Daniela Raimondi dolore che scaturisce dalle parole dette dall’io poetante, verbo di un corpo lacerato e di una psiche femminile frantumata e scissa. La Raimondi anche in Inanna ha messo in scena, per usare una metafora teatrale, un io femminile inquieto, ma, mentre in Inanna c’era la possibilità di una redenzione dell’io poetante, di un riscatto connesso ad un’espiazione, in Entierro non c’è varco salvifico, uscita dal tunnel di un dolore atavico, in cui, si potrebbe dire, un essere innocente, una donna, viene annientata dal male della follia. C’è una forte chiarezza nel dettato della Raimondi, connessa ad una grande grazia misurata dei versi, icastici e leggeri, nello stesso tempo. Il monologo, avvicinabile, vagamente ad un poemetto, è strutturato in strofe molto brevi, segmenti in cui si estrinseca il dolore rarefatto dell’io-poetante che si rivela con una grandissima forza espressiva. La donna si è rifugiata in un angolo ed è visibilmente sconvolta. Parla concitata, le braccia allungate in avanti come stesse respingendo qualcuno. Tutto il disagio della follia viene detto con efficacia in versi nitidi e veloci: - “Via! Andate Via! Cosa volete? / Cosa cercate ancora? // State indietro! / Non mi toccate ho detto! / Lo vedete Là Là in fondo/ L’ombra che grida per le strade…/ Pietà, pietà vi prego! Chiudete quell’imposta, spegnete quelle luci! Le voci, le voci…/ quei bisbigli mi spaccano la testa…” - Qui l’io-poetante si rivolge ad alcuni interlocutori probabilmente immaginari con toni forti e gridati al limite della disperazione più totale e non è facile creare simili atmosfere, cosa in cui l’autrice riesce molto bene. Purtroppo ci sono molti casi di infanticidi da parte di madri, nella quotidianità che noi viviamo, spettacolarizzati perversamente soprattutto dalla televisione, che non possano lasciare indifferenti e il testo della Raimondi, per usare una metafora musicale, vista la materia trattata, potrebbe diventare un requiem per tante vite di neonati o bambini uccisi: in situazioni dove il male prevale e la televisione istiga a ripeterlo; solo la parola poetica può fare uscire dal silenzio sbigottito e salvare; come nella tragedia greca.
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Raffaele Piazza

domenica 22 dicembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = RAFFAELE PIAZZA

RAFFAELE PIAZZA, Del sognato, La Vita Felice, Milano 2009, pp. 72, €.10,00.

La forza della poesia di Raffaele Piazza è di riuscire di volta in volta a rigenerare metaforicamente la natura. Così è anche in questa quarta raccolta del poeta napoletano, che appare dopo un’attesa durata oltre dieci anni, anche se la presenza della sua poesia è stata sempre viva su riviste cartacee e telematiche. Con i colori del Mediterraneo, azzurro e arancio, si presentano principalmente i paesaggi interiori di Piazza, esterni che vengono metabolizzati per cercare l’eternità, riportati in uno scenario di conchiglie, dono prezioso del mare, protagoniste sempiterne e trasportate nello spazio per rinnovare la presenza di una natura cercata ossessivamente e per questo ricreata.
E se il mare di un paesaggio campano si ricicla continuamente, un altro mare, fatto di onde invisibili, aiuta a “navigare” il poeta contro un isolamento possibile: «qui maturano/ i limoni e il verde delle pere coltivato/ a lungo nella serra della casa:/ si spostano i muratori fuori campo dalla finestra intravisti (Messaggio dall’esilio, p.20)». La fluidità di Internet, cantata da Piazza già in tempi non sospetti, ritorna per addomesticare l’assenza, rendere paradossalmente concreta la presenza, per la capacità del sogno, della mente di addolcire nella tenerezza anche un freddo messaggio, nella forza delle parole trasportate oltre i corpi, anche se ad essi dedicate o ispirate: «L’approccio con le onde/ per scoperte abitate da poeta/ a lettore ambulacri di senso dove/ ad ogni passo una fragola/ stimola il delta delle voglie per caso/ lei passava avvolta da indumenti intonati/ alla scena dell’asettico/ spessore (Camera per Internet, p.31)». Corpi attesi o protagonisti dell’immaginazione e del ricordo, defluiti nella natura più concreta, tra prati e giochi di sole, o il Parco Virgiliano, e soprattutto foglie per riempire le stanze dall’intimità disarmante. E In questa natura ha radice la ricerca della vita, costantemente giovane e gioiosa, speranza di eterna adolescenza: «Si chiama Alessia, percorre l’ufficio, / lui si avvicina alla meta con un biglietto/ per la vita: lei prende la penna rossa e gli scrive sulla pelle… (1984, p.54)».
“Alessia – come spiega in prefazione Gabriela Fantato – […] sta a significare sia una sorta di mito, quasi fosse una ninfa dalle acque del mare, sia allo stesso tempo solo un nome, una figura inesistente […] Alessia in queste poesie però è anche una ragazza comune […] è un incontro che non avviene, che non è mai avvenuto o, forse, è un ricordo reale, ma artefatto dai giochi della mente, eppure solo Alessia pare colmare lo spazio vuoto dei giorni”. E poco si può aggiungere a questo perfetto quadro di possibilità che l’eterna adolescente rappresenta per il suo “creatore” perché, esistita o meno, è la creazione poetica a darle vita a rinnovare metaforicamente di volta in volta la musa di Raffaele Piazza: «Tu tocchi la mia solitudine e dalla ferita/ viene fuori una combinazione di noi, / piante adesso sempreverdi nella rigenerazione/ tra negozi del nutrimento per carpirne/ pane e dischetti da ascoltare e visualizzare. (Piacere, p.15)».

(Domenico Cipriano)

sabato 21 dicembre 2019

POESIA CONTEMPORANEA = ALFONSO CATALDI

Gino Rago: "Un polittico in distici di Alfonso Cataldi",

Alfonso Cataldi

Come dirimere la direzione delle venature (scritta a quattro mani con Giorgio Linguaglossa)

L’astronauta rovistava fra gli avanzi del pranzo
del giorno prima quando fu sorpreso da certi marziani verdi i quali

erano di stomaco forte e mangiavano delle bistecche di montone crudo
e io ne fui sorpreso perché invece della resina di pino

bevevano cognac con della Cola Cola e Ginger Fizz
e fumavano del tabacco cubano… non saprei dire altro però,

Signor commissario…
no, non erano dell’era glaciale ma di prima, direi del cenozoico, o giù di lì…

– con quella gamba messa male
erano atterrati col paracadute sulla terrazza della Tower Trump at Chelsea, New York

mentre Olga dichiarava il suo amore eterno per Billy the Bud…
tu mi chiedi che fine ha fatto Billy the Bud?, ma che importanza vuoi che abbia!

la stanza era di mezzo metro quadro, per dire chiaramente:
consolidarsi, senza preavviso…

nel monolite apparente del tempo che rimane in sospeso…
La signora Madeleine vende la sua ombra alla casa di riposo

e fugge tra le mura della terza elementare, a Étretat
abbandonate a causa della guerra.

Una giovane insegnante sbagliò ad imboccare il viale dietro il piccolo cancello
e si trovò di colpo su Titano a meno settanta gradi centigradi con il colbacco in testa

e gli autoreggenti di pizzo…
ma forse questi ricordi sono un po’ confusi però spiegano bene

la teoria evolutiva dell’azzardo cosmico quando un bel giorno iniziò il Big Bang…

*

«A rivederci dalla balaustra al ginocchio
sulle intenzioni pre-matrimoniali.»

L’incipt è disdicevole, si vocifera nei portierati, più dello strapiombo reale
tra il leggìo e le parole in decantazione.

Sul lato di via San Barnaba il procuratore capo distribuisce volantini
“vietato sporgerti se non sei degli anni 30”

Meno slanciati, certo, ma tutti ritiravano
le uova cautamente allo sportello del new deal.

«Giacomo è tardi, andiamo a fare la doccia»
«La doccia no, preferisco a spezzatino»

col corpo in equilibrio sulla trave
in equilibrio sulla calce che bolle

Anas Al-Bashar sbilenca il cravattino
e prepara il piano terra per i futuri sposi.

“Deontologia professionale” insiste il picchetto antistante
l’onore e l’ossobuco sfrigolanti. Col naso all’insù

il cinghiale inciampa al primo tormentone del bozzagro
appena fuori città.

Commento di Gino Rago

Ci ricorda Giorgio Linguaglossa una riflessione del padre del «tempo creativo» dei sistemi, (da alcuni di noi accolto come “tempo interno” nei nostri tentativi di versi volti a nuovi orizzonti estetici), Ilia Prigogine, che

«non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni»,

e assume il principio della instabilità d’ogni sistema bio-fisico-chimico nella essenza estetica della NOE e scrive:

“La nuova ontologia estetica segue il medesimo principio coniato dal grande chimico russo. Parafrasando lo scienziato potremmo dire che

«la forma-poesia è un sistema instabile, infatti, non esiste un sistema che non sia instabile e che non possa prendere svariate direzioni».

Quanto detto è talmente vero nel suo polittico scritto in collaborazione con lo stesso Linguaglossa, polittico in distici di notevolissimo interesse linguistico, che Alfonso Cataldi suggella due situazioni esilaranti:

1- “[…] La signora Madeleine vende la sua ombra alla casa di riposo

e fugge tra le mura della terza elementare…”,

dove non è difficile avvertire la madeleine proustiana del tempo passato, il dolce preferito di Marcel Proust, il cui sapore e la cui forma l’autore della Ricerca del tempo perduto recupera a forza di percezione, e non di memoria, così rimanendo impigliato nel flusso spazio-tempo e nel tri-dimensionale, senza l’approdo al quadridinsionale in assenza di memoria come quarta dimensione;

2- “[…]Col naso all’insù

il cinghiale inciampa al primo tormentone del bozagro appena fuori città[…]”,

dove l’immaginazione del poeta, l’immaginazione non la fantasia, si inoltra in una boscaglia fitta di sorprese imprevedibili.

Nel caso di “Come dirimere la direzione delle venature (scritta a quattro mani con Giorgio Linguaglossa)” di Alfonso Cataldi, il polittico parte da

“L’astronauta rovistava fra gli avanzi del pranzo”

e chiude con il cinghiale distratto ed è per questo valido esempio di “poesia espansa” nel senso che essa abbatte muri e costruisce ponti linguistici tra l’uno e i molti; tra l’Io e il Noi; tra poesia e prosa; tra parole e immagini; tra il ‘900 e ciò che gli è sopravvenuto, fuoriuscendo definitivamente dal paradigma del Novecento.

Poesia espansa nel senso che nella gamma dei decentramenti dell’io, questo processo ha i suoi antefatti nei:

– decentramenti della città (focalizzati verso ciò che le è esterno); – decentramenti della Heimat/casa (computer e televisore prendono il posto del focolare); – decentramenti dell’individuo stesso, dotato come è di strumenti di comunicazione (cuffie, telefoni cellulari, radio, televisore) che lo tengono permanentemente in contatto con l’esterno e, per così dire, fuori da sé stesso.

In tali scenari dell’iper-post-postmoderno, Alfonso Cataldi e Giorgio Linguaglossa in Come dirimere le direzioni delle venature, scandagliano fra gli interstizi del possibile poetico le svariate possibilità linguistico-estetiche della poesia in espansione la quale se da un lato abbatte muri e barriere, non soltanto fra popoli e persone, ma anche fra i diversi linguaggi possibili, contaminando e contaminandosi, cedendo e ricevendo immagini e parole, dall’altro propone ponti

– tra l’uno e i molti;
- tra luoghi antropologici e non-luoghi;
– tra l’Io e il Noi; – tra poesia e prosa; – tra parola e immagine; – tra suono e senso;
- tra dialoghi e monologhi;
- tra scienza e letteratura; – tra il Novecento e ciò che gli è sopravvenuto.

Roland Barthes lo ha detto da lunghissimo tempo:«È soltanto nell’esistenza sociale che antinomie come soggettivismo e oggettivismo, spiritualismo e materialismo, attività e passività perdono il loro carattere antinomico».

Un lavoro da me letto da poco tempo (non ricordo l’autore), proponeva una riflessione su ciò che succede in una sala cinematografica dopo i titoli di coda : «Terminato il film, naturalmente il film del Novecento, lo schermo ancora resta illuminato, ma le immagini di prima non scorrono più e non si vedono ancora nitidamente quelle nuove… Ma un nuovo film sta per cominciare…»

Il nuovo film che sta per cominciare è il polittico in distici. Scrivere un polittico in distici, e non un componimento o una poesia in distici, è misurarsi con l’ Estetica della distrazione, ma dentro la poetica dell’archeologo e attraverso l’unico sentiero possibile: il lavoro sul Logos che consenta alla poesia di farsi luogo di incontro fra linguaggi differenti e istanze d’ogni genere verso una patria linguistica la quale altro non è per il poeta che il «cerchio del dire» in cui le cose vanno incontro al poeta per essere com-prese. L’unico spazio, quello del cerchio del dire, nel quale le “cose” sono in grado di venirci incontro e di parlar-ci.

Un polittico come questo a quattro mani di Alfonso Cataldi-Giorgio Linguaglossa testimonia che la energia creativa nei due poeti qui esaminatinon si è affatto affievolita ed è testimonianza militante di convivenza dinamica nell’ intreccio nei versi pro-posti in forma di disticidi compresenze multidisciplinariattive di audacia linguistica e di coscienza teorica, di pulsioni fantastico-immaginative e di consapevolezza dello spirito del tempo.

E segnano una cesura direi definitiva con la parola orfica, elegiaca, innamorata, minimalista, emozionale, confidenziale, autoreferenziale, narcisistica dell’intero tardo novecento poetico italiano.

In L’atto estetico, Enrico Mucchi Editore, Modena, 2010, Baldine Saint Girons scrive:

«[…]Distinto dall’atto artistico, dall’atto scientifico e dall’atto discorsivo, l’atto estetico svolge un ruolo essenziale non solo nella creazione, ma anche nella conoscenza e nel dialogo.[L’atto estetico] rimodella il mondo creando universali di immaginazione[...]

Con un medesimo slancio, l’atto estetico salvaguarda il mondo, crea un legame sostanziale tra gli uomini e permette di sfuggire alla doppia trappola del narcisismo e della malinconia».

E il polittico in distici essendo esso stesso un atto estetico ri-modella la forma-poesia novecentesca e tardo-novecentesca perché tende al superamento proprio della “doppia trappola” della malinconia piccolo-borghese e del narcisismo di quell’io-poetante, centro-e-unità-di-misura-del-mondo, da ripudiare definitivamente.
*
Gino Rago

POESIA = ANTONIO FORGIONE

"Il suono solitario di quell’armonica"

Il suono solitario di quell’armonica, si spandeva
nell’aria dolce della sera, con il fruscio delle foglie
nel vento; come una triste nenia cantava giornate
lontane e di sorrisi all’aurora che sorge, il silenzio
di lunghi inverni e amori sbiaditi nel tempo.
Mi prendeva con tenerezza, come un fiore tra le
braccia del vento, regalandomi il ricordo e l’odore di lei.
Come una rosa con le spine, strappava dal mio cuore
frammenti di ricordi dissolti.
Quel suono mi portava ai suoi rossi ciuffi di capelli
ribelli, che le pendevano da un lato, ondulati e morbidi
che danzavano insieme alla dolce brezza dell’estate
e volando, denudavano il suo collo delicato e bianco come
le vette innevate in inverno, dove il cielo, avido, posava
baci languidi e teneri, seminando melodie di tenerissime
onde di colori, nell’aria delicata e fulgida del mattino, annunciando
la primavera e spargendo zampilli profumati di fiori di ciliegi
novelli, da regalarle.
Tu gracile rosa, annaffiata dall’acqua scaturita dalle mie
lacrime, cresciuta nell’angolo più stipato del mio giardino, tra
sterpi e pulviscolo, dove farfalle variopinte giocano ancora
sognando con prati fioriti e primavere felici e sulle ali
del vento, levano inni alla vita all’ombra di un salice piangente.
Tu, divenuta la più superba e bella tra i fiori del mio giardino, tu
che a sera contempli le colline luminose al calar del sole, nelle
giornate ventose; ed io, in quell’angolo, che aspetto e bramo
ancora di accarezzare quei ciuffi morbidi e lisci, dal suono delle onde
fluttuanti del mare, nel sole fresco che nasce tra i monti ridenti.
*
Antonio Forgione