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Mauro Cesaretti – Se è Poesia, lo sarà per sempre (ed. Montag)- 2015; Pagg. 111; € 12,00-
E’ animando unicamente per il desiderio di mutare il destino nel marasma quotidiano, con la leggiadria aleggiante verso la bestialità di ambire al precariato, che si riapre il più forte gesto d’intesa.
Annaspiamo nella goffaggine scaturita dagli attuali ostacoli, risultando ogni volta costernati e piegati, tanto da non verificare il percorso di qualsiasi idea da cogliere, da non comprendere il bel limite da varcare per immergersi nell’oltre, con la solitudine per riflettere su ciò che non ci riguarda.
La disintegrante miseria dipende da una farsa come da una ragionevole trappola, facendo sì che la positività si complichi innalzando l’umanità in maniera tutt’altro che disattesa e col tempo di maturare.
Questo giovane poeta scorge alcune flebili curanze, donandosi a un profondo lamento compensabile con l’istantanea da intraprendere usufruendo del meccanismo opportuno.
L’incanto a fronte della disonestà, di un paesaggio bizzarro, ci relega alla sottoveste delle memorie da rendere eterne; eppure in fondo esistiamo nel retropalco di uno show che procede con indifferenza.
Secondo Cesaretti, possiamo essere consci d’indirizzarci sommessamente a un traguardo, ma ora, a scanso dell’ignoto rimuovibile avendo appurato delle opinioni dure da ritenere improprie, tra le fragilità oscurabili con l’eccesso di quiete a fine giornata; dentro confezioni spente, sistemazioni sancite dalla spontanea decadenza.
Assoggettati a un passato instabile, Mauro cerca il piacere terreno sfoderando le sue capacità, fermo sotto la copertura di quel vivere che implica la percezione di un’assenza non identificata.
Passivamente aspettiamo all’entrata, dura da mirare, di una realtà composta da azzardi impenetrabili, col jolly che non si evidenzia, paragonabile all’imbrattamento di quello che siamo, ovvero al dubbio circa ciò che ci apprestiamo a fare.
Sprofondiamo nel buio delle rievocazioni, come se per emergere dovessimo imprigionarci insolitamente, ripulirci crudelmente per mezzo di un dolore che sfugge.
Con la consapevolezza in costante movimento smarriamo dunque l’ampiezza dell’oggetto in questione, perciò col rancore si forma il vuoto affianco, e peraltro non essendo all’altezza di motivare uno stato d’emergenza, non riuscendo a individuare la sincerità nascosta tra le osservazioni, seppur chiunque sia certo d’inquadrare l’essere che decretò il nefasto frantumandolo.
Ci aspetta quindi una fine taciturna e nient’affatto appariscente, somigliante a noi specie quando proviamo il Sentimento.
Occorre scatenare l’emozione con calma, promettendo di non essere cervellotici quando non avremo più tempo, filando con parsimonia e lungimiranza un concetto di vita parallelamente all’affetto realizzato.
Col candore da impugnare per aggraziarlo maggiormente, come a festeggiare in prossimità dell’agghiacciante tramonto.
Nella società sconvolta, che si fa notare imponendo quasi d’inginocchiarci a seguito dell’irragionevolezza; senza che si riesca ad aiutare chi sta male.
Ci accomodiamo, una volta serviti e riveriti, a trattare coi sovrani un bel niente, per poi scuotere magari l’armonia di un nuovo giorno con il rumore di un paio di pietre che non si sbriciolano, non avendo più modo di voltarci, dovendo rispettare quella rigida norma che inverte le esistenze, assistere a una sofferenza di sicura apatia.
V’è una forza di volontà incalcolabile, che inabissa mischiando le sorti in trasparenza; che miriamo amabilmente manco stesse volando in forma celestiale, mentre i peccati si appesantiscono in definitiva.
Infatti, appena si pronunciò il sonno eterno, illuminante, uscimmo fuori con tutta la contentezza, volgemmo al silenzio bello che abbandonato, per dare retta all’amore che sboccia, finalmente.
Cesaretti si rifà vivo in versi, perché è sacrosanto prendere una corretta decisione, qual è stare svegli oltre l’infinito, spingersi all’insù, quasi a costo di essere travolto da una corrente, indotto a scendere e scontare l’onta gravitazionale, la memoria su cui meditare.
Mauro s’immagina paterno, riempie col condizionale l’obbligo di cambiare, di avere il piacere, assoluto, di cominciare a girovagare per stare insieme tutti quanti nuovamente, con l’intelletto da sfigurare saggiamente; di lasciarsi rapire dalle cose che se ne vanno via.
In mancanza di luce viene per forza meno la Morte, ci s’identifica in combattenti costretti a passare sopra l’anima, con tutte le debolezze che insorgono, che inteneriscono; da un’epoca di eroi distrutti dall’umanità conservabile, e che si sfogano: roba da far commuovere, raffinante le gocce di sangue, e che libera per orgoglio nuovo una serie di emozioni.
Chi muore resta in superficie, nient’affatto asciutto, e le sue membra fanno silenzio, appassionando ulteriormente i comuni mortali.
Scompariamo alla faccia dell’Attualità, inconsapevoli delle conseguenze arrecanti ai nostri successori dagli eventi negativi, per considerare il nostro respiro, affezionati a qualsiasi passione premeditata, implorando semmai della serenità dimenticata tra le colpe immacolate essendo partorite dalla Solitudine.
Il successo lo si nutre dopo averlo radicato perbene nel dubbio, con una visione direttamente proporzionale alla decisione presa per baciare il Domani sfocato per non aver fatto guarire ottimamente le volontà che non ci riguardano, nella mancanza di tutele per una fede almeno da depurare.
Ci si sveglia per addormentarsi, senza perdere di vista il Sole, difatti non bisogna trasgredire ciò per badare all’effervescenza di un insieme di persone.
“Levarsi all’alba e coricarsi al tramonto:
non sono altro che le due azioni umane che fanno da parentesi alla vita di tutti”.
Il giorno va vissuto intimamente per animarlo, a costo di distaccarsi dalla normalità, di aleggiare per un principio solidale che nessuno riesce più a cogliere con piacere.
L’individuo s’immobilizza per propria fertilità, in attesa dei rumori, di modulazioni di frequenza incantevoli, che si originano esclusivamente dall’irraggiungibile quotidianità dimorante tra i nervi, nel pessimismo.
Per navigare in sé, occorrono mezzi di trasporto da custodire pacificamente, per naufraghi traccianti vie resistenti al calar delle tenebre, che credono di esistere nonostante il male di vivere.
Ecco che il poeta si autoconvince circa l’incomprensione scaturita dal suo pregio, per una dimensione nuova, aldilà degli tsunami dell’anima, con l’innocenza di chi accelera responsabilmente, versando ogni cosa per terra con l’umiltà di chi va incontro alla propria memoria; per ricominciare a pensare a come possono ferire i cambiamenti di un’esistenza da riscoprire sempre.
Una fisicità dotata di sensibilità serve per stare tranquilli a dismisura, per ascoltare l’evolversi di una corrente che immalinconisce date le distanze, in virtù di un linguaggio sprecato dopo averlo studiato e rinnovato.
Il dolore per chi non c’è più viene percepito in primavere celanti rifugi che alla vista sembrano inutili, dacché autentici.
Le nubi comprimono le strutture residenziali, lo scorrere della vita per conto proprio e quindi in fondo ferma, oltre che le pietre perduranti, a invadere quasi i percorsi fin troppo naturali per risalire le vette; mentre nelle vicinanze delle bestie riposano a lungo, la comunicazione si rende superflua vivacizzandola con fare accecante, e così non possiamo fare a meno di sperare nel precariato, che ci si accorga del tempo che passa, per contemplare quello che ci riserviamo, smussando magari le malattie, esprimendoci in modo solare; per il bene della poesia insomma…!
“Ma quello che rimane è la pace del silenzio”.
Resta un mutismo infrangibile, e di questo sono fatti gl’itinerari immensamente consumati con un cammino viziato, elevato all’inosservanza; che ci rendono la muscolatura palpabile di un essere fragile, fino ad accettare delle riserve trascritte su un semplice, effimero diario, ma che non vede l’ora d’essere letto.
Concludo affermando che ho notato, d’incanto, che la conseguenza fatale di un gesto comune può essere descritta ancora, spesso, in pochissime parole armonizzanti; che per il resto, concependo uno stile poetico che va più o meno sul classico seppur la forma sia libera, v’è un’immedesimazione da condividere, anche al lascito della Storia (e dei suoi personaggi intrisi d’anonimato, dall’eroismo da sottintendere), di un elemento, radicale, che si sta riproponendo, spesso tragicamente, ma senza riuscire a far clamore.
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VINCENZO CALO'