**Albero di Alfabeti/Arbol de Alfabetos**, Francesca Lo Bue, Roma 2020, Società Editrice Dante Alighieri
La silloge può considerarsi una rubrica. Ogni pagina inizia con una lettera dell’alfabeto: a, b, c ecc. e sono presenti due poesie, la prima in italiano e la seconda riscritta in spagnolo. Ogni poesia vede ogni verso iniziare con la lettera dedicata: tutto a, tutto b, tutto c e così via fino alla zeta. Arrivati a questo termine, che coincide con la metà circa del libro, la sequenza riprende con un parziale rovesciamento: per ogni lettera saranno rappresentate due poesie con i versi inizianti con lo stesso suono, solo che ora avremo prima la poesia in spagnolo e poi, riscritta, quella in italiano. Da notare che nella seconda parte sono ospitate lettere estranee all'italiano, come ll di llamar o ñ di sueño. Segue un’appendice in cui è presente la traduzione in italiano (e in spagnolo) di tre poesie legate da una stretta solidarietà di contenuti: Esilio e Riscatto di Pablo Neruda, un testo da Emily Dickinson e Le mura di Costantino Kavafis.
Si spiega così il significato del titolo del libro: abbiamo dunque degli alfabeti al plurale, italiano e spagnolo, organizzati in un metaforico albero, i cui rami e foglie si dispiegano pagina dopo pagina. In copertina troviamo una riproduzione delle Leggi di Gortina, rinvenute a Creta.
Si apre con l’affermazione che l’alfabeto ha un chiaro intento, nasce dal caos, buio e informe, ma porta ordine e luce.
L’alfabeto può germinare e germina dal caos, solo se disperde semi. Ciò comporta “un fluido magnetico”, si dice altrove, un magnetismo spirituale fatto di sensi che si corrispondono. D’altra parte con queste poesie, tale flusso viene fermato, in quanto le lettere apicali incatenano il verso. L’alfabeto così acquista anche senso ricostruttore: “trionfare è decifrare l’incognito” (p. 57).
L’alfabeto è lettera di giustizia (pag. 5). D’altra parte dare giustizia significa proclamare una sentenza - sententia che in latino significava in primo luogo frase, sentence dicono in inglese. Pronunciare una parola, ristabilire l’ordine violato da affermazioni mendaci. “Eccomi” dice la poetessa. E l’umiliazione dell'uomo corrisponde al silenzio, all’oblio, negazione di ogni pensiero.
Ma l’alfabeto è definito anche maieutica, in grado di decifrare “il segreto della Terra” (pag. 6). Qui abbiamo una curiosa nemesi di colui che per noi è l’iniziatore dell’arte della maieutica, di tirare fuori la verità, già presente negli individui e a tratti affiorante, grazie al dialogo, ovvero il filosofo Socrate. Come è noto costui, considerando la conoscenza un processo e non un prodotto, diffidava della scrittura ritenendola possibilmente colpevole di snaturare la verità che, se fissata sulla pagina scritta, poteva fermarsi in maniera impropria, perdendo la sua intrinseca qualità, quella di essere inesausta ricerca.
È così, dunque, che l’alfabeto diviene fecondo e costruttore di giustizia. Ma può farlo se i suoi predicati sono raccolti in un libro, un albero di senso, e se interviene lo scrittore, che la poetessa paragona a un’ape, i cui fiori sono “frammenti di immortalità” (pag. 7). Ricordiamo che Angelo Poliziano, interrogandosi con gli altri umanisti sugli esempi che lo scrittore ideale avrebbe dovuto seguire per un corretto senso dell’imitazione, sconsigliava la selettività dei modelli, paragonandolo proprio all’ape che, di fiore in fiore, prende e rielabora le migliori suggestioni dando luogo a un miele che è solo suo.
Pensiamo poi al settecentesco Vittorio Alfieri che arrivava a considerare la scrittura moralmente più importante dell’azione, perché solo la prima guarda potenzialmente all’eternità (“frammenti di immortalità”, dice la poetessa), e riteneva Omero superiore ad Achille, in quanto la gloria esemplare di quest’ultimo sarebbe con lui morta senza la penna del primo, in grado di trasmettere ai posteri il sacro esempio del guerriero.
Citare questi autori ci permette, dunque, di entrare nel potenziale filosofico dei temi posti dalla poetessa, la quale continua l’introduzione ricordandoci che anche i sogni sono rivestiti di parole: infatti li ricordiamo perché ne possiamo parlare.
Di contro il caos ci parla solo con un silenzio brutale, da combattere dando all’alfabeto una casa, che è il libro. Ci vengono infatti anche mostrate le sorti delle epoche senza scrittura: “della preistoria, rimangono le ceneri” (p. 38).
Arrivando alle poesie, spesso si nota che sono indirizzate a un destinatario non specificato, un generico Tu. Vien da pensare che sia lo stesso alfabeto, principio ordinatore: lettera U, (pag. 29).
Altro soggetto che ritorna è la presenza imperante del NOME. Il primo uomo ebbe da Dio il privilegio di dare un nome alle cose. In quel momento i nomi dovevano essere davvero la conseguenza delle cose. Alla poesia con R, il nome è rimembrato e paragonato a “un talismano”, a “una rosa enigmatica di spine”. L’essenza dunque sta nel nome, veste esteriore che si dà alle cose, senza la quale esse sarebbero non conoscibili. Significativo che lo si dica ricordando la rosa. Già Shakespeare, in Romeo e Giulietta, pensando al significato filosofico del nome richiama le rose: Cosa vi è in un nome? Quella che chiamiamo rosa non cesserebbe d'avere il suo profumo dolce se la chiamassimo con altro nome. Ciò non stupisce, se pensiamo che la rosa è da sempre considerata portatrice di un forte simbolismo mistico, il cuore e l’essenza di ciò che solo pochi possono avvicinarsi a conoscere, gli scrittori illuminati, gli scardinatori di senso, i decifratori.
Compito che invece dovrebbe spettare a tutti noi, di fronte a una vita costellata di “inganni, spergiuri, voci, epopee”. (pag. 30).
D’altra parte la poetessa ci mette anche in guardia dall’eccesso di parole. Ci dice che “leggi aggrovigliate alimentano mutismo” (pag. 34). Le parole sono dunque sacre. Di converso il surplus parolaio, che sconfina nella retorica e nella burocrazia fine a se stessa, porta al paradosso dell’incomprensione, dell’incomunicabilità, in breve del silenzio e dell’afasia. Un silenzio che rischia di aleggiare onnipresente. Con una potente sinestesia anche l’albero, qui principio ordinatore, rischia di farsi “tenebra” (pag. 37).
La sinestesia, o un fare sinestetico, ritorna spesso nella silloge. Altro notevole esempio è l’urlo sbrindellato (forse pensa al famoso quadro di Munch?) che si pone sulla linea prima indicata dell’impossibilità di comunicare per inflazione di parole. (pag. 58).
Ciò ci porta alle tre traduzioni finali, il cui tema portante è l’esilio, il più grave esito dell’incomunicabilità, dell’assenza di dialogo. In Neruda esso è definito tondo, un circolo, un anello, quasi una dimensione consustanziale all’uomo. In Dickinson e Kavafis esso non è direttamente citato, ma è l’espressione di una lontananza da casa che ora si lega a impossibilità a rientrare per la prima, e di alte mura erette ai suoi danni per il secondo, Kavafis che arriva a sentirsi paradossalmente accerchiato fuori dal mondo.
Come si diceva queste traduzioni trattano temi già cari alla poetessa e alle sue precedenti raccolte poetiche, costituendone qui un suggello. Negli altri libri, come si può cogliere dagli stessi titoli, è forte il ricordo della doppia patria, Italia e Argentina, dell’appropriarsi e riappropriarsi di questa, spesso identificata nella parola stessa. L’Argentina infatti riaffiora qua e là, carsicamente, nella veste del condor, uccello delle Ande o delle spume dell’oceano australe lasciate dal nome (p. 50).
Il condor è solo un uno dei vari animali che, insieme alle piante, affollano la raccolta: urubù, ceraste, ceibe, gelsomini, rose, zagare. Questo è un tratto caratteristico dell’intera opera poetica dell’autrice, il fatto di ricorrere a un lessico prezioso e variegato. Quasi a ricordarci quei grandi bestiari ed erbari medievali, che si vantavano di raccogliere in un libro l’inesprimibile varietà del creato, quasi che ogni elemento della natura fosse elemento, o meglio alfabeto, di Dio.
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ROSA REMPICCIA