sabato 30 novembre 2019

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO


“Persuasioni”

Riprenderò a tradire il mercato delle ombre,
le incursioni del sonno liquefatte nel tempo,
come quando suggerivi un proscenio stranito,
disgregato ai frammenti del nostro invecchiare.
Ribaltavi tramonti nel turchino di parole murate
per sfumare curve dei giorni nelle rime barocche
nei gesti delicati delle dita , ancora bianche ed eleganti.
Ricordi le illusioni folgoranti che la bocca,
lenta e violenta , modellava ogni giorno ?
Non hai sponde per incidere cristalli,
le volute rossastre delle labbra
solcano tenerezze,
intacchi virgole e persuasioni,
come ai segni di allora
e le sirene riempiono la mente di strane meraviglie:
eri la fiaba immaginata
l’inconscia timidezza del prossimo incontro,
nella malinconia ormai defraudata e distratta.
*
ANTONIO SPAGNUOLO

POESIA = RAFFAELE PIAZZA


"Alessia la felce guarda"

Poi interanimata a dell’aria
la freschezza d’azzurro
di cielo, Alessia la felce guarda
prima degli albereti
dove era già stata in un letto
di prato a perfezionare l’amplesso.
Piacere creato da Dio nel riviverlo
Alessia ragazza piena di lui.
Poi rivestitasi ragazza Alessia
nel jeans attillato
lo guarda negli occhi
e attira gli sguardi
nello scorgere la felce.
*

"Alessia e il gemmante verde"

Posillipo della fine dei dolori
dal nome (e Napoli ancora esiste)
per Alessia rosavestita
nell’interanimarsi con il gemmante
verde e chiede la parola a Mirta
che nel sorridere prealbare
dice amore e la vegetazione
di piante senza nome. In auto
l’incanto del profumo di eucalipto.
Perché vivo? Si chiede Alessia
nell’abbeverarsi a un filo di gioia
delle linfe presunte.
*
Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI = MIRKO SERVETTI

Mirko Servetti – Canzoni di cortese villania---Puntoacapo Editrice – Pasturana (Al) – 2019 – pag. 119 - €12,30

Mirko Servetti è presente con poesie ed interventi critici su numerose riviste e antologie di letteratura; ha pubblicato diverse raccolte poetiche tra cui L’amore fluido, 1997 e Quotidiane seduzioni, 2004: questi due testi sono particolarmente originali perché in essi il poeta, fatto insolito nel panorama della poesia contemporanea, pratica le forme chiuse del sonetto e della sestina. La raccolta che prendiamo in considerazione in questa sede, raccoglie i libri suddetti, in un unico testo e presenta, come sottotitolo: Amori, concetti Ri(di)scordane. Canzoni di cortese villania è scandito in due sezioni, tra loro eterogenee, perché L’amore fluido e Quotidiane seduzioni, sono tra essi molto diversi, come vedremo in seguito. L’amore fluido, presenta una forte chiarezza e un tono narrativo, ed è caratterizzato da assonanze e rime baciate e non baciate numerosissime, procedimento inconsueto, anche questo, nelle odierne raccolte di poesia. Le poesie di L’amore fluido sono un dialogo, a volte solipsistico con sé stesso, altre volte con un tu, che è la moglie dell’io poetante. C’è una forte dose di fisicità in questi versi e una notevole patina classicheggiante. Quello che caratterizza la poetica di Mirko Servetti è la presenza di una grande densità metaforica e semantica e un denominatore comune del suo poiein è la presenza di una grande ironia e di una forte mordacità: tutto il discorso del poeta è costellato da una notevole compostezza formale e c’è da sottolineare che tutte le poesie sono senza titolo e ciò dà unità e compattezza al libro, che, per questo, presenta una vaga unitarietà poematica. Il libro di Servetti si può, con la dovuta cautela, definire come un poema amoroso, visto che la canzone, in poesia, è di per sé stessa un genere amoroso. Molto spesso le poesie sono descrittive e procedono in lunga ed ininterrotta sequenza, con un fluire barocco, nell’accezione positiva del termine. La punteggiatura è ridotta al minimo e i versi sgorgano compatti e fluidi e con una certa lentezza. La poesia di apertura del volume potrebbe avere un carattere programmatico:- “Potremmo azzardare al buio la notte/ e reputarla risibile sorte/ a fronte di rughe e pelle sguarnito/ ma pure all’ultimo istante al viso/ farsi di te scrigno cara consorte/ e al sonno soave schiuderai le porte/ pensa… noi nella stanza ripulita/ e un sogno dettagliato tra le dita./ Tu Bauci, un tempo la dama stupenda/ io Filemone che proietta i sassi/ che chiameremo figli… idee confuse/ di un vecchio rimbambito… c’è una tenda/ a far da calendario ai nostri passi/ alle nostre notti quasi concluse/”. C’è in questi versi tutto il senso del trascorrere della vita e del le cose che passano, versi nei quali si parla di morte e di rughe sulla pelle come segno del tempo che scorre inesorabilmente anche nel volto dell’uomo, che è esso stesso natura. Il tono è ironico e quasi sapienziale e c’è una musicalità intrinseca nel verso, che si effonde nelle rime baciate e il versificare procede per accumulo. C’è un carattere anche intellettualistico in questa poesia e il tipo di scrittura praticato è del tutto antilirico. La materia di Canzoni di cortese villania è amorosa e sensuale e, tra i temi, è ricorrente quello del sogno. Molto spesso il tema nei versi è il passato. Carattere peculiare di questa poesia è un ritmo cadenzato ed incalzante, che è comune denominatore di tutti i componimenti, per cui si può parlare di valenza poematica vista l’unitarietà della materia trattata. Le frequenti rime baciate non appesantiscono il tessuto linguistico, anzi, a volte, lo illuminano in repentine accensioni. La dizione è sicura e il ritmo è incalzante e ciò contribuisce al rendere il dettato pervaso da quella musicalità alla quale si accennava. C’è un forte erotismo ed è presente una forte sensualità, che non sconfina mai nella volgarità della pornografia, come nella poesia a pag.25 che fa parte della prima sezione:-“ /Profumi invernali e mani attonite/ delizie emanate da calde promesse/ la giovane fica è florida messe/ s’intrecciano baci e parole insolite/ lingue congiunte, danzanti atmosfere/ composte dell’arie più rare e nobili…”/, poesia antilirica, densa di spessore sensuale, in cui una situazione sessuale, viene descritta con garbo e pacata ironia. I componimenti di Quotidiane seduzioni, contrariamente a quelli di L’amore fluido, sono caratterizzati da una certa oscurità, da un versificare più articolato e meno chiaro; qui il virtuosismo dei sonetti e delle sestine costituisce una sorta di anamnesi filogenetica, un ritorno alle forme dismesse e rimosse che ci perturba nella sua apparenza di deja vu. L’escussione del sermo humilis si fa denuncia aperta delle violenze che contraddistinguono la retorica massmediatica dilagante. Ecco un altro elemento di coerenza nel percorso di Servetti, la dimensione politica della sua scrittura, nell’immanenza del’operare testuale. Una sovversione silenziosa che talora sfocia nell’invettiva aperta. Opera originale, quella di Servetti, in cui il poeta dà spazio alle sue canzoni, che sono costellate, e questa è la cifra distintiva del libro, da cortesia e villania insieme, come se i due termini fossero assimilabili, l’uno con l’altro, in una trama che porta, attraverso il contrasto tra i due opposti, ad un raffinato esercizio di conoscenza.
*
Raffaele Piazza

venerdì 29 novembre 2019

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO


“Apocalisse”
Quando ritroverai quelle moine
che resero la gioventù un palcoscenico
di scintillanti rincorse
e sciolsero vertigini amorose
dai colori cangianti ad ogni bacio.
Quando nella memoria trafugherai le sere
che accolsero gli incendi delle coltri,
per segreti rintocchi, o per magie
del labbro infocato e impertinente,
tra il delirio della carne e il sospetto
dell’infinito mimetizzato agli sguardi.
Quando strapperai la carne dei tuoi figli
per ritrovare le notti dell’insonnia
e delle incertezze.
Ricucendo avventure per straripamenti
di un tocco, o involontari strappi
delle sciarpe infantili.
Quando riuscirai a stemperare i rimorsi
per tutti i fallimenti del passato, timorosamente
impegnato nel ricordo delle tue avventure
che sobbalzano in petto nel ritmo dell’aorta
impazzita.
Quando riuscirai a sognare ad occhi aperti
il video abbrunito che distrugge Israele
e proporrai un fiore ad ogni bambino
che piange senza più speranza.
Quando toccherai senza più tremori
il marmo che nasconde le ossa della tua amata
il labbro sfigurato , la palpebre consunte,
allora potrai scrivere l’ultima tua poesia .
*
ANTONIO SPAGNUOLO

SEGNALAZIONE VOLUMI = MARIA TERESA LIUZZO

Maria Teresa Liuzzo – Miosòtide - (Non ti scordar di me)--A.G.A.R. Editrice – Reggio Calabria - 2019 – pagg. 207 - € 40.00

La poesia di Maria Teresa Liuzzo è una poesia neolirica tout-court, nitida e cristallina, nella quale l’io poetante si effonde in figure che si avvicinano spesso a quelle della metamorfosi. "Miosotide" non è scandito è per la sua compattezza espressiva pare avere una valenza poematica. Il lirismo sentito e vissuto della poetessa si fa un’unica cosa con le descrizioni atmosferiche di piante e luoghi idilliaci, che Maria Teresa Liuzzo ci presenta; protagonista del testo pare essere, infatti, la natura in tutte le sue sfaccettature, una natura anche simbolica, che si esprime soprattutto attraverso la descrizione e la rappresentazione di specie vegetali; altro tema è l’amore, cantato in modo sensuale e profondo dalla poeta e alcune composizioni hanno per interlocutore un “tu” al quale Maria Teresa Liuzzo si rivolge, un personaggio che presumibilmente è l’amato, del quale vengono decantate l’unicità e l’insostituibilità; è raro nel panorama della poesia italiana contemporanea trovare una forma di poesia così chiara e così intensa, nello stesso tempo. La natura diviene cornice della vicenda amorosa e l’amore della Liuzzo non è solo per la figura dell’uomo amato, unico e irripetibile nella sua storia privata, ma anche per Dio:-“ Dio eterno e sconosciuto, nel silenzio/ T’ ascolto e un segno Tuo tra le mani/ ricerco, mentre il cuore è giara vuota/ da colmare./ Ineffabile amore a Te mi lega,/ che mi avvince e affonda nella tua luce./ Anche altro amore dà senso alla vita,/ ridesta i sensi, di nuovo vigore,/ fa che non vogliamo, coraggio imprime,/ è fuoco e frescura, estasi e tormento,/ ma vita sempre, luce nelle notti/ più oscure, nostalgia che ci conforta/ se siamo soli, nello scoramento,/ solo uomo che amai, unico uomo,/ hai svelato i misteri del mio sangue./”. C’è qualcosa di classicistico, in questo testo, nella descrizione di un amore che salva con i sensi, in una tensione verso la bellezza l’armonia e l’equilibrio; i versi sono icastici e c’è una certa pesantezza del dettato da interpretarsi nel senso buono. C’è una vena quindi anche filosofica e religiosa, nei versi di questa poetessa che procedono per accumulo, in un fluire scrosciante, di torrente in piena sulla pagina:-“Si versano parole sulle siepi/ e l’anima insegue, distaccandosi/ dal cielo, la sapienza degli uomini,/ ma non siamo che flash di natura/ e di pianto in turbinio di petali/…”; così appare ricchissima di immagini sentite, la poesia di Liuzzo, per cui la poeta sembra affacciarsi su un visore nella sua interiorità, per produrre le stesse immagini, ricchissime di pathos e di eleganza. Poesia dei sentimenti quella dell’autrice che, per questo, si distacca completamente dalle poetiche della poesia contemporanea, poesia originalissima. È tutto un incedere musicale, attraverso scene, che hanno qualcosa di pittorico, la poesia di questa autrice che, per l’avvicendarsi delle situazioni, che scorrono e germinano l’una dall’altra a profusione, ha anche qualcosa di barocco. Il lettore viene catturato in una rete di sensazioni che erompono in modo magico dalla penna della poetessa, per cui sembra di affondare nella pagina. Come leggiamo in una nota al testo, la parola poetica della Liuzzo, oltre all’immediata sincerità, crea fin dai primi versi un’atmosfera magica d’incanto, e al lettore colto e sensibile si apre, tra ritmi di suoni e di luci, uno spettacolo trasfigurante che lo pone in meravigliata contemplazione. Già in apertura, nel primo testo, l’associazione tra la fragranza del “grano” e del “tempo” che avvolge la poetessa in un’accensione di sensi dà subito la misura espressiva di un’assoluta personalizzazione. L’accostamento delle parole e delle figure che rendono uno specifico vigore alla scrittura procede in tutto il testo in una vitale contrapposizione, fino agli ultimi versi tra crepuscoli e albe, tra notti e giorni, tra il cuore che ama e sosta per riaccendersi nei palpiti misteriosi delle stagioni. I mattini ridestano la vita, riportano il vento che fu e il vento riprofuma il corpo, agita i sensi e illumina l’intelletto. L’oscillare della vita non ha soste, mentre le parole vivono in continui intervalli di tempi e di consonanze. Il desiderio si muta in “colore e suono” e l’amore scuote “la tenerezza dei gerani” mentre il sangue (sostanza che anima queste pagine in accesa vitalità) si accende e pone a nudo l’Essere che si innalza fino a sfiorare il Creatore con l’intensità dell’amore che a lui lo lega. È per altri versi una tensione, quella che caratterizza questo testo, ad una piena fusione con la natura. Qui comincia a precisare le valenze delle passioni terrene che con il procedere delle pagine cresceranno di vigore. Ma l’amore è anche dolore che si alterna al piacere e trasforma l’essere umano nelle bellezze e fioriture della natura. Bisogna aggiungere che nel vasto e vario mondo poetico della Liuzzo non avevamo mai incontrato composizioni così esplicite dedicate all’amore, ossia all’eros: l’amore delle precedenti pubblicazioni abbracciava il tutto, era esplicitamente universale. Dobbiamo tuttavia precisare che in questi testi l’eros nasce, si sviluppa, si conclude nelle vaghezze platoniche, spesso nel mondo del sogno e della fantasia.
*
Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIANNI PIZZOLARI

Gianni Pizzolari – La montagna nel mare-- puntoacapo Editrice – Pasturana (Al) – 2019 – pagg. 111 - € 12,00

Gianni Pizzolari, l’autore del libro che prendiamo in considerazione in questa sede, è nato a Milano dove risiede; ha pubblicato una plaquette con disegni di Nunzio Pino negli anni Ottanta. Suoi testi sono apparsi su varie riviste e pubblicazioni; nel 2006 ha pubblicato il poemetto La neve non è bianca. La montagna nel mare è un testo composito, architettonicamente, strutturato nelle seguenti scansioni: Andirivieni, sassi e mare, L’impeto dei giorni scossi, Oltre le valli cespugli, La via che porta altrove, Il pesce a forma di cuore, Gli sguardi di Maria. In La neve non è bianca quasi tutti i componimenti sono caratterizzati da una forte verticalità e sono molto concentrati; tutte le poesie sono senza titolo e ciò crea un’aurea di mistero; si tratta di testi che possono considerarsi lirici; è presente nella raccolta una forte sospensione unita ad un certo mistero, insieme ad una forte venatura neo orfica. La natura pare essere una delle tematiche centrali; nel tessuto linguistico, dal quale emerge una forte dose di magia; la sezione iniziale può essere letta come un poemetto, paragonabile ad un mosaico, del quale ognuno dei brevi componimenti è una tessera; si tratta di poesie descrittive e i versi sono veloci e scattanti e il ritmo è caratterizzato da una suadente musicalità; in Andirivieni, sassi e mare il protagonista è il mare stesso. Leggendo le poesie, si può individuare un virtuale filo roso che le lega, che pare essere il tema di una navigazione, un tragitto che rimane nel vago e nell’indistinto. La montagna del mare, libro nel quale emerge un forte carattere di originalità, è costituito tutto da segmenti staccati. Incontriamo, in quelli che potremmo definire frammenti e che sono le parti che costituiscono il testo, una forte oscurità anche se, a volte, si riscontrano delle accensioni, che danno luce alle parole. Un senso criptico pervade le poesie e uno dei temi pare essere quello della liquidità: infatti vengono detti non solo il mare, ma anche la pioggia e il fiume. È presente il senso materico di una natura che viene interiorizzata, attraverso i sensi e si fa parola. Riscontriamo, nei testi, una certa precisione e una indiscutibile icasticità; molto spesso le composizioni si risolvono in un unico respiro ed è presente una sinuosa leggerezza, insieme ad una dolce grazia nel susseguirsi dei versi. Si potrebbe riconoscere, nella prima scansione, una vera poetica dell’acqua, vista come elemento di rigenerazione e di vita: quanto detto vale a partire dal titolo della raccolta, La montagna nel mare, quasi che il mare possa inglobare o contenere una montagna. Il mare potrebbe anche simboleggiare l’inconscio, dal quale scaturisce la forza plastica di questi versi. In Andirivieni, sassi, mare, è riscontrabile una compattezza espressiva notevole; la mancanza di titolo delle composizioni, ne accentua il senso del mistero, mistero che, a volte, viene detto, come nella composizione a pag.11:-“Mistero dei sapienti/ tre o più in dune o mosse/ in danze in notte già agitata/ stretti nella marcia scivolosa/ fredda fatica a volontà/ nell’accantonare/ sapienti e leggi racchiusi/ nella stella marina mobile/ alta solida nei secoli bassi/”; c’è qui una vaga bellezza, che si coniuga ad una notevole eleganza formale.; i sintagmi sembrano fluire come in un flusso magmatico..C’è anche dolcezza in questi versi precisi e caratterizzati da un grande nitore. Il libro è articolato e composito e, nella totalità delle sue sezioni, ben coese tra loro, può considerarsi un poemetto. È presente anche il tema del misticismo e la religiosità di Pizzolari può essere vista come un’aurea di senso oltre il quotidiano. Come scrive Mauro Ferrari nell’acuta postfazione, si può anche parlare di valenza morale di questa poesia, e di un pensiero che mira alla serenità della saggezza più che al dogma religioso. Per Ferrari la poesia di Gianni Pizzolari, da sempre caratterizzata da una profonda vena riflessiva di tono lirico- elegiaco, si apre, in questa raccolta, ad importanti novità tematiche e stilistiche, nel segno di un lavoro di scavo e persino di ridefinizione della sua poetica. Si potrebbe in effetti definire questa poesia “religiosa”: esiste infatti un ben preciso filo logico, evidenziato dalle puntuali citazioni del Vangelo, che tracciano per punti la parabola terrena di Cristo cui assiste un testimone a cui è concessa la parola ma non la salda corporeità di una persona narrante. Il testimone è sempre più coinvolto in una dimensione spirituale per lui inusitata e, sebbene non ci sembri giungere ad una vera e propria conversione, acquisisce man mano una più piena consapevolezza del proprio ruolo nel mondo, che funge da momento chiarificatore della propria vita disordinata e di comprensione del male che nel mondo agisce e corrompe. Una poesia di grande fascino, quella di Pizzolari, metaforica ed ellittica, chiazzata in più punti da opacità e slittamenti, sempre sul filo del ripiegamento, eppure aperta al mondo, slanciata in un afflato ideale, una poesia che sa far dialogare l’hic et nunc con la più alta dimensione spirituale e religiosa, con modalità assolutamente personali e modernissime. Un esercizio di conoscenza.
*
Raffaele Piazza.

SEGNALAZIONE VOLUMI = RAFFAELE PIAZZA

Raffaele Piazza – Alessia e Mirta---Ibiskos - 2019 -
Come emerge evidentemente già dal titolo, a essere centrale in questa raccolta poetica di Raffaele Piazza è la figura femminile, che viene rappresentata con evidenza attraverso le due protagoniste, fulcro dell’azione poetica, Alessia e Mirta. La prima, Alessia, anche se concretamente descritta nelle sue vicende di vita, spesso quotidiane e ordinarie, è una figura di donna fortemente idealizzata, una sorta di apparizione salvifica (a lei si associano frequenti attributi come “luna”, “azzurro”, “cielo”, termini classici del linguaggio lirico desunto dalla tradizione) la quale con la sua gioia di vivere si impone per l’immediatezza, l’ingenuità verrebbe da dire, della sua persona, tutta centrata nella ricerca di un completamento nell’altro per il tramite dell’esperienza amorosa, per lei centrale come chiede una donna che cerca ardentemente la vita per attraversarla in tutta la sua concretezza, la sua carnalità. La seconda, Mirta, è invece una donna “bambina di 44 anni”, tutta pervasa dalla fragilità del suo essere “donna dei boschi e prigioniera / del [suo] film”, la cui storia si incrocia con quella dell’autore, lei “amica” la cui vita si è interrotta con il gesto tragico del suicidio, e si interseca, senza che venga però precisamente circostanziata, con quella di Alessia per il tramite di Giovanni a cui appare come “cenere”, materia depositata dal ricordo, lei che appare a Alessia “nel fondale di una via / deserta pari a una dea / terrena”, in una sorta di nostos da un suo “oltrecielo”. Storie entrambe raccontate a metà, sospese, all’insegna del dubbio; compito del lettore, se crederà, interpolarle, ovvero lasciarle in quello spazio imprecisato che è appannaggio della poesia.
Entrambe le figure femminili si colorano di una forte valenza simbolica, pur mantenendo una certa concretezza per la puntualità circostanziata dei fatti che accadono; a prevalere è questa idea della figura femminile come presenza numinosa (simile a quella di molta poesia di Barberi Squarotti), “stupore di fronte alla verità / dell’arte che è vita e battesimo / perenne”, apparizione che occupa integralmente il campo, permeando di sé le vite, lasciandovi una traccia indelebile. Il nesso esplicito che accomuna le due figure non è mai definito con esattezza, si lascia all’intuito del lettore creare un nesso possibile, per identificare e porre in atto “redenzioni ad ogni / sillaba detta o non detta” in modo che queste possano “farsi parola”; è al lettore che spetta una decifrazione possibile di questa poesia apparentemente denotativa, quasi ingenua. Ne deriva un’idea della poesia come immediatezza, urgenza del dire, perché si è in fondo mossi “dall’attesa che accada la vita”, che questa da possibilità in potenza possa divenire atto che si compie, svolta possibile.
All’autore spetta trascrivere diligentemente (ecco il perché anche di un andamento spesso narrativo, quasi diaristico nell’insistenza con cui si seguono i tragitti, le azioni minime compiute da Alessia in particolare), a lui spetta riportare i frammenti della vita anche nella loro evidenza prosaica se serve, perché ogni accadimento è dono: “Grazie per avermi dettato / questa poesia”, dice l’autore riferendosi a Mirta. E la poesia si dà in questo suo sapersi porgere al lettore, che la deve potere e sapere accogliere, nella semplicità del suo esprimersi, come si “cullano le attese pari a / battelli all’ancora”.
Dal punto di vista stilistico il linguaggio usato dall’autore è saldamente innervato nella nostra tradizione lirica, a tratti anche arcaico nello sfoggio di termini desueti, ardito nella costruzione sintattica con frequenti inversioni latineggianti, iperbati spregiudicati, qua e là impreziosito da termini composti e/o insoliti (o neologismi?) come quel “fiorevole” che è frequente attributo di Alessia (o forse è un’autodichiarazione relativa al linguaggio “fiorito” che l’autore intende adottare?). Il lettore è trascinato in un movimento ritmico-prosodico molto personale che lo guida nel viaggio di scoperta, nel percorso iniziatico per sintonizzarsi con queste apparizioni, sempre al limite fra reale e possibile.
Piazza si schiera al di fuori di qualunque ordine stilistico e contenutistico precostituito, la sua è una poesia quasi anti-storica e anti-contemporanea per temi e scelte. Si potrebbe essere tentati di ritenere che voglia essere coscientemente “inattuale” con questa sua scelta “deviante” di poesia, perché forse è proprio questa per lui la strada perché si possa (anzi si debba: “il faut”), dicendola con Rimbaud, “être absolument moderne”. Aldilà quindi di qualunque giudizio estetico, che spetta al singolo lettore esprimere e alla critica accreditata verificare, credo che, da soli, questi elementi contribuiscano a poter affermare l’indiscutibile cifra stilistica dell’autore, quella che è fondamentale per suscitare la curiosità del lettore.
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Fabrizio Bregoli

giovedì 28 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = EMIDIO MONTINI

Emidio Montini – Da una quiete immota--FORMAT puntoacapo – Pasturana (AL) – 2019 – pag. 55- € 8,50

Emidio Montini nasce nel 1954 in una valle del Bresciano fra le più laboriose e chiuse a tutto ciò che non ricada sotto la voce “tempi e metodi”. Forse, a ricondurlo ignaro verso quella vanità chiamata poesia, solo può essere stato quell’elemento – primitivo e sacrale – ereditato da parte materna. Il testo di Montini, che prendiamo in considerazione in questa sede, si articola in quattro sezioni ed è composito e compiuto, nel suo alternare brani di prosa poetica e poesie. Da una quiete immota è scandito nelle seguenti sezioni: Viaggio in Grecia, Il cuore e il labirinto, Frammenti d’Orfeo e Algarive, lettera un amico.
È interessante notare che Viaggio in Grecia si apra con una citazione tratta dall’Edipo a Colono di Sofocle, citazione che pare opportuno riportare: - “…Ti prego, creatura di Terra e d’Inferno, fa’ che non inciampi il viaggiatore che cammina nella spettrale valle. Te ne scongiuro: te, dalla quiete immota! -”. Tutta questa parte iniziale del libro è costituita da frammenti brevi in prosa poetica, per l’esattezza quindici, legati da un filo rosso interno, che l’autore articola con rara e originale maestria Questo l’incipit di Da una quiete immota, in cui viene espresso chiaramente lo stile classicheggiante dell’autore che caratterizza tutta la sua opera, a partire dalle raccolte precedenti, come, ad esempio, Cassandra la Bella e altre cose, edita nel 1992; così leggiamo all’inizio della sezione viaggio in Grecia nel frammento numero 1:-“Venezia la pigra è immersa nella nebbia. Campanili sfilano mentre la “Sophocles” lascia il molo. Le stanno lontano gli altri scafi, così minuscoli se visti da quassù. Miro San Marco faccia a faccia. Il canale si fa ampio, la scia più decisa, mentre imbocca il mare aperto. Si rabbuia l’acqua, si pulisce, mano a mano che la costa scorre, che scompare. La Grecia è laggiù, un frammento di cartina. Sul ponte bivacchi e birre. Alle pareti stampe d’eroi antichi. Arpe e riccioli, i modellati corpi, le tuniche e le fasce. Episodi d’intraprese guerre. Il tempo è quello del mito. Della giovinezza. Il mare è piatto. Il camino un’annerita torre, incapsulato un organo che sbuffa. Un sole latitante intiepidisce a tratti e poi svanisce. Le nuvole un prato brucato. Le zolle che ne affiorano lembi di azzurro.” Qui il poeta rivive e riprende il tema del viaggio in Grecia e della solarità con una descrizione molto minuziosa nei particolari. Si parte da Venezia, Repubblica Marinara, ed è molto suggestiva la descrizione che l’autore fa della partenza. Molto bello il passaggio: La Grecia è laggiù, un frammento di cartina, in cui viene espresso poeticamente tutto il senso della navigazione. Attraverso una forma densa metaforicamente l’autore descrive la partenza e la navigazione con uno stile neoclassicheggiante preciso e composito. C’è una velata sospensione in tutto il discorso; da notare, fatto saliente, che tutta la narrazione si svolga al presente e ciò dà sicuramente un tono ancora più alto e magico alla felice prosa di Montini.
Completamente diverso è il tono e il contenuto della seconda scansione in cui si articola il testo di Da una quiete immota, intitolata Il cuore e il labirinto: qui si può aprire una breve parentesi sul senso e sul significato del titolo della raccolta di
Montini: si può dire che tutto l’ordine del discorso dell’autore nasca appunto dalla quiete e qui, a livello estetico si può dire che ogni forma di espressione artistica, non solo in un’estetica zen, nasca dalla quiete (e il caso più macroscopico è quello della musica). L’autore è consapevolmente convinto, e questo è un merito della sua coscienza letteraria, che anche un tipo di poetica come quello da lui elaborata nasca dal silenzio inteso come genesi o come principio primo di tutto un discorso, inteso come fondamento. Il cuore e il labirinto è un insieme di poesie di eterogenea estensione e di molteplici contenuti, che proseguono, in modo articolato, il discorso dell’autore. Ancora una volta s’incontra il tema della purezza e della compostezza di una grecità mai abbandonata e, anzi, riscoperta e fatta rivivere con amore e con acribia filologica; - “/M’ha sopraffatto il Tuo silenzio. / (Cruda sagoma, invocato limbo). / In esso, stavo come un bimbo. / Sedotto poi a vedovanza lieve/”; poesia di quattro versi forti e icastici, quella qui citata, in cui c’è un tu che resta indefinito. Tutto in questa composizione sembra rimandare a qualcosa che resta non detta, non definita: è una poesia fortemente epigrammatica, che, quasi, sembra essere incisa su una tavoletta con un punteruolo, invece di essere stampata su una pagina, A volte, nelle sue poesie, il poeta privilegia descrizioni naturalistiche come in quest’altra poesia, tra l’altro, come tutte, senza titolo: - “/Ecco che in giovinezza di fiducia scovavo un sole/ che abortire potesse io non credevo. Che mute stelle/ che in luogo d’amore porgermi potessi non temevo. // Per questo assetato bevvi, mi cibai se affamato, / né più oltre a colmare dispense il mio giorno spesi/ Dunque non ero un giglio. Passero non ero dunque, cui per suo canto minimo grano destinato fosse//- “. Lo stile del poeta è alto e c’è solo un minimo sforzo nel ricreare atmosfere classiche: tutto sgorga sulla pagina con grande naturalezza e diviene un eccellente esercizio di conoscenza. Quasi ogni riferimento viene taciuto e tutto viene giocato su un piano quasi del tutto ontologico.
La sezione suddetta è l’unica in poesia dell’intero libro dell’autore: la terza Frammento d’Orfeo è brevissima, un frammento di una pagina e mezza, e particolarmente bella è l’ultima sezione Algarive, lettera ad un amico, in cui si effonde magistralmente nella pagina il pathos già incontrato nelle altre parti del libro, quando entra in scena la presenza di un tu al quale il poeta si rivolge.
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Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI = GABRIELLA CINTI

Gabriella Cinti, Euridice è Orfeo, Achille e la Tartaruga, Torino, Prefazione di Giovanni Schiavo Campo

Già in altra occasione lo affermammo, con gioia nascosta e affettuosa complicità, che i versi di questo libro poetico, "Euridice è Orfeo", di Gabriella Cinti può per economia estetica generale a buon diritto collocarsi nel grande alveo del "metodo mitico". Quel metodo, che ha fatto grande certa parte della Letteratura mondiale, magistralmente praticato dal Joyce di Ulisse, dal T. S. Eliot de La terra desolata, da Derek Walcott di Omeros, con una poetica incentrata sulla indicibilità di un mondo nel quale "i segni dello sfacelo sono il sigillo dell'arte moderna" (T. W. Adorno).

Un mondo tanto sciatto, decadente, chiassoso da indurre i poeti a rivolgersi al mito quale unica via per aggirarne la volgarità. Esemplarmente a hoc sento questi versi sui quali giova meditare:

" […] Possa il fruscio delle vesti mai avute,
dell'abito d'ombra che Moira mi ha tessuto,
essere la vera lira del tuo canto
e tornare agli dei per la strada dell'Uomo."

Versi nei quali dottrina e inclinazione alla pienezza di canto segnalano una voce poetica, quella di Gabriella Cinti, capace di un totale distacco da tanto pseudolirismo novecentesco nel quale un "Io" poetante narcisistico, piccolo-borghese, accartocciato senza scampo sulle psicopatologie d'una vita quotidiana senz'attese, è stato il nucleo piangente e non di rado narcisisticamente autoreferenziale.

Anche la Cinti usa l'Io, ma questo “IO” cintiano è relegato ai margini dei versi e ridotto a un rumore minimo di fondo, visto che quest'Io tende leopardianamente a universalizzarsi, aggregandosi intorno alle verità del mondo e delle cose nel tentativo e nella aspirazione d’un innalzamento estetico e morale per «tornare agli dei per la strada dell’Uomo».

Sotto tale aspetto, il lettore diciamo "sprovveduto" potrebbe essere indotto a considerare l'esperienza poetica di Gabriella Cinti come "esperienza lirica". Nulla di più errato perché il poeta lirico da sempre fra sé stesso e la verità delle cose sceglie sempre sé stesso; mentre la Cinti affida al suo “Io” poetante lo sguardo severo e luminoso che mai si spicca dalla verità del mondo, né dalle atrocità e dagli oltraggi del tempo e della Storia. E poi la Cinti di questa esperienza poetica quasi rifonda i miti e li rivisita dal versante della donna in poesia, estraendo dalla mitologia classica le sensibilità e le nuances delle figure mitologiche femminili tra nitidezza espressiva e icasticità del dettato poetico in cui senso e suono si fondono, si incastrano a favore del lettore.

Se la Divina Commedia dantesca è il poema delle stelle, questo lavoro poetico della Cinti è esperienza di poesia intrisa di luce, impastata di luce, già dai suoi primi versi che annunciano una "poesia pensante" (Dante, Leopardi, Montale) sostenuta da folgoranti immagini metaforiche della migliore poesia scandinava (Espmark, Trantrömer, Gustfsson) del Novecento e post-Novecento poetico europeo, in una vitalità linguistica nella quale non di rado ci disponiamo a scorgere e ad accogliere vive tensioni verso una “ Nuova Ontologia Estetica “ che, com’è ormai noto, ha bisogno del linguaglossiano “Spazio Espressivo Integrale” per toccare l’acme del dispiegamento delle forze interne a ciascun verso, del tempo interno a ogni parola. Gabriella Cinti possiede armi e cultura per mettere il vento nelle sue vele e spingersi nella sua ricerca poetica verso questi nuovi, modernissimi approdi, sulla rotta tutta da esplorare verso una sua patria linguistica.

Con Euridice, che incarnando «amore nudo e potente» fino al sacrificio estremo e che pronta ad azzerarsi reca in dono a Orfeo un «canto vero, di carne», Gabriella Cinti ci lascia un messaggio in bottiglia di utilità dell’ars poetica, un sempre possibile «regalo di luce».
*
Gino Rago

SEGNALAZIONE VOLUMI = ROSA SALVIA

Rosa Salvia – Dolore dei Sassi-- puntoacapo Editrice – Pasturana (AL) – 2019 – pag. 93 - € 16,00

Si tratta di un testo composito e bene articolato architettonicamente nelle sue scansioni.
Il comune denominatore, il filo rosso che lega i componimenti, pare essere quello del dolore connesso al tema del male che serpeggia anche se in qualche caso ci sono aperture alla luce e alla speranza.
Il libro presenta una postfazione di Manuel Cohen esauriente e ricca di una notevole acribia.
Nel poemetto eponimo incontriamo una vaghezza magica e tragica, affabulante e nello stesso tempo surreale.
Brevi strofe scandiscono la sequenza detta in terza persona anche se sono inclusi i dialoghi tra i due amanti protagonisti.
Nodale è il punto in cui lui chiede a lei in una struggente intimità se avrebbe abortito se lui stesso non l’avrebbe fermata e lei risponde di sì.
Le figure sonno immerse in una natura numinosa e misteriosa con chiaroscuri morali e di luce.
Prevale un senso di morte perché la figlia dei due, la bambina appena nata si ammala, perde i capelli e muore.
E’ presente un forte pathos nella descrizione della gravidanza in versi armonici che sono veramente alti: Se la notte è assenza di luce/ se la notte è davvero qualcosa/ allora essa è lo scalciare che hai dentro.
Le atmosfere sono connotate da un forte onirismo purgatoriale e il lettore affondando nelle pagine prova forti emozioni pervaso da una luce a volte d’alba e in altri casa lunare.
La sequenza numerata Il dolore dei Sassi potrebbe assomigliare vagamente ad una sceneggiatura e tutto è pervaso da un alone di mistero tra luci e ombre kafkiane che si avvicendano.
C’è il tema della famiglia nucleare con padre madre e figlia e nei versi si respira una linearità dell’incanto, una stupita meraviglia intrisa di creaturalità.
La natura ha un ruolo importante nell’ordine del discorso e fa da sfondo interattivo per i personaggi.
Un tono assertivo a volte domina nei componimenti che spesso hanno tematiche tristi come l’anoressia e il fiore falciato.
Neo - lirica la poetica di Rosa Salvia e nei tessuti linguistici si avvicendano accensioni e spegnimenti.
Una ricognizione del dolore che sottende un riscatto e la poeta non si geme mai addosso nel trovare consapevolmente la catarsi nei versi.
Alta la composizione L’amore molesto che vede il rivolgersi dell’io – poetante ad un tu parlando di sentimenti.
Una forte introspezione connota il poiein di una raccolta che non passa inosservata che ha per tema la vita vissuta e che diviene nella materia magmatica un esercizio di conoscenza.
*
Raffaele Piazza

mercoledì 27 novembre 2019

POESIA CONTEMPORANEA = COMMENTI DI GINO RAGO


Aldo Palazzeschi (1885-1974)

"Lo Scrittore"

Scrivere scrivere scrivere…
Perché scrive lo scrittore?
C’è modo di saperlo?
Si sa?
Per seguire una carriera come un’altra
o per l’amore di qualche cosa?
Chi lo sa.
Amore della parola
per vederla risplendere
sempre più bella, lucida, maliosa,
né mai si stanca di lucidarla.
Per questa cosa sola
senza neppure un’ombra
della vanità?
Scrive con la speranza
di trovare una mano sconosciuta
da poter stringere nell’oscurità.
*
(da Via delle cento stelle)

In questa sua lirica la «febbre» espressiva di Aldo Palazzeschi (Aldo Giurlani il suo vero nome) si fa quasi ansia di comunicazione se non aspirazione ansiosa alla fratellanza di un uomo, coincidente con l’Io poetico, che manifesta il terrore della solitudine, di un uomo-poeta che non vuole restar solo perché non può sentirsi solo. Desidera febbrilmente l’accensione di un palpito di solidarietà con i fratelli (possiamo dire «i suoi lettori») smarriti, sperduti nell’oscurità del vivere in un mondo anch’esso senza luce.

Talune istanze didascaliche, ancorché più forti e più diffuse nella poesia di Rebora già in precedenza commentata, perdurano anche in questi versi . Ma in Palazzeschi vibra continuamente la domanda sul significato del proprio lavoro letterario, rincorrendo quasi la sentenza gelida, e saggia, nello stesso tempo, di colui che contempla gli uomini e le cose del mondo dall’alto di una specola privilegiata, ovvero di un osservatorio speciale: quello del poeta consapevole.

Tuttavia in questi versi non è difficile cogliere anche la requisitoria mordace contro inclinazioni classicistiche, contro istanze estetizzanti proprio nel ritmo prosastico e nel tono diciamo “iconoclasta” e irriverente dei suoi versi e che anche per questo entra di diritto nel substrato della sensibilità contemporanea.

Un’altra cifra, comune ai due “frammentisti vociani”, va individuata nell’adesione di Rebora e di Palazzeschi all’arcinota affermazione di Gertrude Stein: «Scriviamo per noi stessi e per gli sconosciuti».

Affermazione che con Harold Bloom possiamo ampliare nell’apoftegma direi “parallelo”:

«leggiamo per noi stessi e per gli sconosciuti», nell’ardente speranza di imbatterci nel potere estetico di un’opera o più semplicemente in quella che Charles Baudelaire definì «la dignità estetica» di un’opera poetica.

Appartata e singolare viene giudicata da certa critica l’esperienza poetica di Aldo Palazzeschi, qua e là capace di rifarsi ad alcune istanze cubiste deformando in una sorta di collages fatti di malinconia sia lo squallore di ciò che lo circondava, sia le strade sentite dal poeta come veicoli pubblicitari o come simboli del vuoto urbano che lo assaliva, incalzandolo nelle sue rare camminate in città, ma senza mai abbandonare la parola di poesia.

Parola poetica da Palazzeschi sempre «abitata» nel suo perimetro del dire, parola di poesia sentita sempre come l’unica speranza e/o possibilità di potere stringere una mano « amica» , anche se di uno sconosciuto, nella oscurità, nella spesso troppo lunga mezzanotte del suo mondo, senza vanità.

Gino Rago

martedì 26 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = RAFFAELE PIAZZA

RAFFAELE PIAZZA: "ALESSIA E MIRTA"- eD. Ibiskos Ulivieri 2019

Raffaele Piazza in questa sua silloge poetica che reca nel titolo due nomi femminili annota, con delicatezza e passione insieme, momenti di vita, ricordi e nostalgie attraverso narrazioni in versi, come si fa in un diario o in un quaderno di appunti, al fine di dare permanenza nel tempo ai momenti di un presente altrimenti effimero. Il tempo quotidiano qui si dilata e si fa memorabile nella poesia, dando vita a una serie di ritratti che fissano istantanee di vita e le dipingono. Come in Alessia sfoglia la magherita rosa, dove i dettagli della sera trascorsa nella casa delle vacanze si colorano di sogni e speranze, rappresentati dai dispari petali di una margherita da sfogliare. Le donne del titolo sono ispiratrici delle poesie, ma anche oggetto della narrazione, sempre concreta e ancorata al reale, che le riguarda. E se Alessia ci presenta il mistero dell'amore, vagheggiato, raggiunto, eternato nel gesto quotidiano, Mirta ci accompagna oltre la sua tragedia, nel permanere eterno della poesia: ''Anima di luna, tu Mirta/ nelle cose aurorali ancora / mi parli e mi dici di non / avere paura. [...] Sei volata via dal terzo/ piano della Reggia e hai / aperto in me la ferita. /Ora passano i giorni / senza te e non si ricompone /l’affresco del tempo [...]''

Il tempo, quello reale, quello percepito e quello avvolto nel mistero dei ricordi o degli amori è co-protagonista in questo libro, che vive di atmosfere e ritratti, tra passato e presente, tra inizio e fine, tra giubilo e dolori. Come nella verità di ogni esistenza sulla terra.
*
Eleonora Bellini

POESIA = RAFFAELE PIAZZA

"Linea di poesia delle tue fragole"

Una linea di poesia mi chiedevi, un chiaro
incontro oltre la chiave della nebbia,
si apriva e continuava e stava nel freddo polare
di igloo casa la giornata sottesa ai tuoi panni
lasciati in una telefonata marina nell’azzurro
subacqueo dei secoli dietro di noi e domani come giorno:
se avevamo fame tu sfamavi di parole la mia voce
con i salici dell’ironia, io ragazzo appoggiato alla tua
sigaretta donata nella bellezza della gola in un bel luogo
di liquido prato.
*
Raffaele Piazza

PREMIO = NOVELLA TORREGIANI

L’Associazione Culturale Euterpe di Jesi, con il Patrocinio della Regione Marche, dell’Assemblea Legislativa delle Marche, delle Provincie di Macerata e Ancona e del Comune di Porto Recanati, bandisce la quarta edizione del Premio Nazionale “Novella Torregiani” – Letteratura e Arti Figurative. Il Premio, ideato e presieduto da Emanuela Antonini (biologa e scrittrice), è nato con l’intento di far emergere le potenzialità creative degli artisti e segnarle all’attenzione della comunità in ambito culturale, a ricordo della poliedrica poetessa nel rappresentare l’umanità nelle molteplici espressioni artistiche.
Il Premio si articola in sei sezioni afferenti a due diverse aree artistiche:

A) AREA LETTERARIA

A1 – Poesia in lingua
A2 – Poesia in dialetto
A3 – Racconto
A4 – Haiku

B) AREA ARTI FIGURATIVE

B1 – Pittura
B2 – Fotografia
*
Richiedere il bando completo premionovellatorregiani@gmail.com
Scadenza 31 dicembre 2019.

POESIA CONTEMPORANEA = COMMENTI DI GINO RAGO



Pier Paolo Pasolini (1922-1975)

"La mancanza di richiesta di poesia"

Come uno schiavo malato, o una bestia,
vagavo per un mondo che mi era assegnato in sorte,
con la lentezza che hanno i mostri
del fango – o della polvere – o della selva…
C’erano intorno argini, o massicciate,
o forse stazioni abbandonate in fondo a città di morti
con le strade e i sottopassaggi
della notte alta, quando si sentono soltanto
treni spaventosamente lontani,
e sciacquii di scoli, nel gelo definitivo,
nell’ombra che non ha domani.
Così, mentre mi erigevo come un verme,
molle, ripugnante nella sua ingenuità,
qualcosa passò nella mia anima – come
se in un giorno sereno si rabbuiasse il sole;
sopra il dolore della bestia affannata
si collocò un altro dolore, più meschino e buio,
e il mondo dei sogni si incrinò.
«Nessuno ti chiede più poesia!»
E: «è passato il tuo tempo di poeta…»
«Tu con le Ceneri di Gramsci ingiallisci,
e tutto ciò che fu vita ti duole
come una ferita che si riapre e da la morte!»

(Da Poesia in forma di rosa)

Poeta per vocazione, per scelta, per sorte, per disgrazia, per necessità, il timore della perdita della poesia in Pasolini coincide con la paura della perdita della grazia. Ma sebbene già insoddisfatto del linguaggio e della forma-poesia del suo tempo (su cui non è il caso di dilungarsi, dopo l’eccellente saggio di Franco Di Carlo su Trasumanar e organizzar) Pasolini immette negli ultimi versi di questa poesia una novità formale ed estetica: il parlato in forma di dialogo.

Come fu agli inizi del ‘900 nella poetica degli acmeisti a cominciare da Mandels’tam, un espediente per invitare il lettore a entrare nei versi della poesia, sentendosene parte attiva e integrante. E benché i tempi non fossero ancora favorevoli per certe imprese, Pasolini già avvertiva in sé l’aspirazione di far muovere i suoi versi in un’area espressiva più vasta di quella fino ad allora esplorata e attraversata, un’area espressiva che fosse in grado di accogliere le nuove istanze in fermento in una società in movimento, in tumultuosa trasformazione, una società sottoposta a ciò che l’antropologia, la letteratura, la sociologia hanno analizzato come “Mutazione antropologica“ e “Omologazione” anche linguistica. Da qui la necessità pasoliniana di una nuova «forma priva di forma».

Il timore di perdere anche il diritto al sogno ovvero la possibilità stessa di fare poesia non è stata mai estranea a Pasolini che qui recepisce il mondo della civiltà moderna come «macchina livellatrice» in grado di creare schiavi malati.

Per il poeta la città notturna, sentita come un labirinto di sottopassaggi e strade, di suoni ridotti a sciacquii, è un incubo. La bestia affannata e affamata del poeta P A T I S C E l’incrinarsi del suo mondo di sogni ed è doloroso il dileguarsi, con i sogni, di tutto ciò che fu vita… E se nessuno ti chiede più poesia, che metamorfosi può subire quell’essere, quell’anima fatta per ideali voli e improvvise Navigazioni?
*
Gino Rago

SEGNALAZIONE VOLUMI = WANDA MARASCO

Wanda Marasco – La fatica dello stormo--La Vita Felice – Milano – 2019 – pagg. 91 - € 13,00

Wanda Marasco è nata a Napoli. Ha pubblicato numerose raccolte di poesia e un romanzo; suoi testi sono stati tradotti in inglese, spagnolo, tedesco e greco; tra i riconoscimenti più importanti il Premio Montale e il Premio Bagutta “Opera prima”.
"La fatica dello stormo" è un testo non scandito e presenta tutti i suoi componimenti senza titolo: anche per questo elemento, oltre che per la sua organicità intrinseca, può essere considerato e letto come un poemetto.
La poetica espressa dalla poeta in questa raccolta può essere considerata neolirica ed è connotata da un tono molto alto.
Colpiscono la leggerezza e l’icasticità del dettato e il nitore e la velocità dello stile.
Sono caratteristiche evidenti della raccolta una forte densità metaforica e sinestesia e un notevole equilibrio formale; il tono è colloquiale e caratterizzato da chiarezza nella sua pur incontrovertibile complessità; il tessuto linguistico è articolato.
L’io poetante, a volte, si rivolge a se stesso in modo solipsistico; nella maggior parte dei casi si rivolge ad un tu al quale vengono dedicati quasi tutti i componimenti.
Il tu, presumibilmente la figura maschile di un passato amore, viene riattualizzato nella memoria con uno scatto e scarto memoriale e pare emergere da un’arcana provenienza.
Nel versificare dell’autrice si avvertono una certa dolcezza e un senso di felicità nel dolore.
Oltre la tematica amorosa, che è centrale, è presente il tema del volo, sia dello stormo, come dal titolo, sia della colomba tunisina.
Fattore essenziale, caratterizzante tutta la raccolta, è quello di una quotidianità, che pur essendo detta con urgenza, è priva di riferimenti concreti, basandosi l’ordine del discorso su parole di sentimento.
La cifra dominante che trapela dalle pagine è quella di un acuminato senso del dolore che appare controllatissimo e sublimato, per usare un termine psicoanalitico, tramite il medium di una poesia, che tende all’estasi e alla vertigine, nonché alla redenzione.
Tuttavia, anche se raramente, si constatano accensioni di gioia come nell’incipit di un componimento, uno dei primi della raccolta:-“Alleluia in una camera d’albergo/…-”.
L’armonia e la musicalità dei versi è raggiunta attraverso il ritmo armonico e sincopato.
Nei versi rarefatti è presente un forte senso della corporeità come quando l’autrice scrive che riavrà quella presenza nelle sue vene dove per vivere verrà appunto quella presenza misteriosa, in un’immagine veramente alta.
Nel suo intervento critico ricco di acribia Milo De Angelis scrive che la poeta in questo libro prosegue il suo colloquio con le ombre; prosegue il suo dialogo con le “chiare o cupe cicatrici di chi è passato”. E qui il passato non è solo il tempo perduto, ma è un tempo di perdita, in continua e incessante perdita; si intreccia al presente, e lo fa più vivo, e tragico, lo abbraccia in una stretta amorosa.
Una raccolta che scava fino in fondo nelle regioni catartiche e salvifiche della parola poetica stessa.
*
Raffaele Piazza

lunedì 25 novembre 2019

POESIA CONTEMPORANEA = COMMENTI DI GINO RAGO

Poesia contemporanea: Gino Rago per Clemente Rebora


Clementa Rebora (1885-1957)

La Poesia è un miele
La poesia è un miele che il poeta,
in casta cera e cella di rinuncia,
per sé si fa e pei fratelli in via;
e senza tregua l’armonia annuncia
mentre discorde sputa amaro il mondo.
Da quanto andar in cerca d’ogni parte,
in quanti fiori sosta, e va profondo
come l’ape il poeta!
L’ultime cose accoglie perché sian prime;
nettare, dolorando, dolce esprime,
che al ciel sia vita mentre è quaggiù sol arte.
Cosi porta bontà verso le cime,
onde in bellezza ognun scorga la meta
che il Signor serba a chi fallendo asseta.
*
(da Canti dell’infermità)

Commento:

Questi versi di Clemente Rebora se da un lato non dimenticano la quasi classica istanza didascalica della poesia, versi aperti come sono alla tematica di quella “fratellanza” volta a trovare l’uomo solidale con Dio, dall’altro sono versi esemplari del “frammentismo vociano”, troppo spesso e troppo superficialmente confuso con la NOE (nuova ontologia estetica) per frammenti.

La metafora reboriana «miele-poesia-poeta-ape» si sa che è di antiche origini. Ma nell’ars poetica di Rebora funziona come preparatoria alla parola-chiave della composizione: «dolorando». E decisivo è il verso nel corpo della poesia «delle ultime cose» che l’ape-poeta accoglie «perché sian prime», come ad attribuire alla ars poetica il primato inarrestabile della bellezza e della verità del vivere nell’armonia uomo-vita-mondo.

Il rispetto e l’ammirazione verso questo frammentista vociano sono fuori discussione. Ma oggi, a distanza di quasi 100 anni, un secolo, da questi versi, è inevitabile che la poesia esplori nuovi sentieri estetici, che viaggi verso altri approdi “formali”, sentieri e approdi che son chiamati a misurarsi con l’idea di recente lanciata da Giorgio Linguaglossa (e che io trovo del tutto nuova e originale, visto che finora da nessuno studioso di poesia era stata non dico elaborata ma neanche minimamente pensata ) di “Spazio espressivo integrale”, vale a dire quello spazio linguistico-formale che tenga conto di tutte le moderne percezioni di “tempo”, di “nome”, di “immagine”, di

“proposizione” con cui il poeta contemporaneo deve fare i conti se vuole sottrarsi al ruolo epigonico, di basso tono del “seguace”, del continuatore giacente supino nella stagnazione.

Stagnazione non soltanto etico-morale ma estetica dove le parole rischiano di cadere nel Grande Gelo linguistico per farsi «parole disabitate». Il poeta dei nostri giorni deve al contrario essere abitatore non soltanto di spazi, di paesaggi, di geografie ma abitatore di parole in una sua ben precisa «patria linguistica», com’è nel caso esemplare di Antonio Spagnuolo in “Movenze” in cui il medico-poeta di Napoli appare sincero «abitatore-delle-sue-parole», delle parole estratte dal magma linguistico e con le quali Spagnuolo allestisce il tessuto della sua poesia, che sento assai affine a quella reboriana.

Gino Rago

domenica 24 novembre 2019

POESIA CONTEMPORANEA = COMMENTI DI GINO RAGO

POESIA CONTEMPORANEA = GINO RAGO PER LUIGINA BIGON E RENATO MINORE

Luigina Bigon

CIGNO IN CONTROLUCE

Scortica l'addio a precipizio rocce a specchio
volo di corvi crinale che scotta
ombra fredda
luna rossa
sole verde
cigno in controluce
noi
*
Commento-

LUIGINA BIGON Nei versi di “Cigno in controluce” si propone ai lettori come poeta-fotografo, riconduce la fotografia al suo etimo originario di «scrittura con la luce». Allestendo un insieme di scatti scrive il suo poema con le due materie prime più semplici: il tempo e la luce, fissando immagini che da sole (rocce, corvi, luna, cigno, sole) riescono a dirci più di tante parole.

Ogni immagine sembra cristallizzare l'attimo, un frammento di una situazione ormai appartenente già al passato ma che diviene anche un appello rivolto intensamente all’osservatore-lettore affinché con il suo sguardo inneschi a sua volta racconti, immaginazioni, storie, suggestioni proprio a partire da questi “attimi”. Luigina Bigon senza dichiararlo chiede agli osservatori-lettori un gesto, quello di una «entrata» nelle intime vibrazioni delle sue parole-immagini, un gesto di entrata fatto di reminiscenze, sensazioni, percezioni, odori del mondo della Bigon fino ad un momento prima silenzioso, benché carico di voci e rumori.

"Scrivere per sé stessi pensando agli altri" transita da Gertrude Stein a Luigina Bigon e il lettore così non è meno creativo dello stesso poeta. Immettendo nel mondo il ritmo delle cose reali, Luigina Bigon in questi versi ci accosta all’idea dei photo-books in cui parola e immagine si richiamano, si intrecciano, si completano.

E la componente autoriflessiva suggellata in quel «noi» finale si svela nel desiderio della con-divisione con i lettori d’ogni fotogramma, di ogni verso-scatto, in quella che appare come poetica dell’istante, dell’infinito istante.

Ho parlato di fotografo-poeta e non di artista, o di pittore-poeta, perché il pittore "traduce" mentre il fotografo "cita."

Gino Rago

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Renato Minore

Diventa triste…

“[…]Diventa triste un pesce solo
nella vaschetta
ma basta mettergli
davanti uno specchio
per farlo contento”.

(da Renato Minore , O caro pensiero, nino aragno editore, Torino, 2019, pp.100)

Commento-

RENATO MINORE con un serio lavoro sul Logos (lessico, metrica, tono) ha condotto questa recente poesia a misurarsi con quel senso di “vuotezza” (camera da tè e tantissima architettura del Sol Levante), come esemplarmente appare in questi versi, quel «vuoto» del foglio bianco dei disegni e delle pitture di artisti giapponesi che contrasta con il «pieno» di quasi tutta l’arte occidentale, quasi a voler vincere, come affermò a suo tempo Gillo Dorfles in “Ultime tendenze dell’arte d’oggi”, tutto l’«horror vacui» che la pervade.

Come intensa si avverte in questa nuova prova poetica di Renato Minore la forza attribuita all’immagine, anzi, (ricordando il titolo del libro di Filomena Rago, quasi tranströmeriano), alla “immagine di una immagine” che il poeta affida a uno specchio. Giorgio Linguaglossa dunque fa bene nella sua nota critica a sottolineare l’ontologia della immagine affidata ad Andrea Emo:«Ogni immagine è immagine del nulla e in questo senso l’immagine è ontologica».

Un altro aspetto emerge da questi versi estratti dal libro poetico di Renato Minore: il rapporto stretto che si avverte tra fotografia e poesia, fra parola e immagine sottratta al flusso della storia, e cristallizzata nel tempo, in una sorta di «Estetica dell’istante infinito», (il pesce solo nella vaschetta), grazie alla quale, per dirla con Roland Barthes de La camera chiara: «l’età della fotografia corrisponde precisamente alla irruzione del privato nel pubblico…»; ma questo ci porterebbe lontano.

«Pesce-vaschetta-solitudine-specchio» forse per il poeta sono i correlativi oggettivi eliotiani della condizione dell’uomo nel mondo, forse sono perfino le parole-chiave sulle quali Renato Minore incardina la sua Weltanshauung.
*
Gino Rago

sabato 23 novembre 2019

POESIA = EDITH DZIEDUSZYCKA

"NOVEMBRE"

Nello strisciare della sera
brunita già di foglie spente
sono cadute
ancora tiepide
d'un temporale
fitte
le gocce sui fiori amari
dell'autunno

ondeggiava nel vento
muschio mischiato a fungo
quasi brutale
decomposto
nel tramonto l'olezzo
della stagione
moribonda

da qui a poco
le persiane si sarebbero chiuse
e le tende tirate
sulla sbiadita luce
radente il cancello
del giardino dormiente
già
il lungo sonno dell'inverno
*
edith dzieduszycka

novembre 2019

POESIA CONTEMPORANEA = GINO RAGO PER ANTONIO SPAGNUOLO

Gino Rago e la Poesia contemporanea

Antonio Spagnuolo


"Movenze"

La tregua delle vene nel segreto trafora ogni impronta
ed è rimasto ad inseguirmi solo un sogno
della tua forma coperta di elitropio:
un dondolio in frantumi
per fiaccare la schiena oltre i cancelli.
Il rombo dissonante del vento nella notte
trapassa le scritture fuori mito,
dove segnammo il difetto della fede,
l’incendio dell’insonnia,
l’abbaglio di un paradosso per il perpetuo gorgoglio
di una fonte.
Intima crisalide possiedi le movenze
negli occhi sostituendo ansiolitici.
Nei giorni che nascondono vecchiezza
declino il calendario per sottrarre pensieri.
Il turbinio di novembre ebbe un attimo breve
nella tua mascella , sfregiando la pelle,
mentre io sfogliavo l’ultima pagina bianca
che impediva alle ciglia l’accento di possibili carezze.
Il marmo ti rapisce rimpiangendo le ultime scelte
tra gli squarci di un lembo intorpidito
e gli incanti imprigionati alle mie sere.
*
Commento di Gino Rago

ANTONIO SPAGNUOLO non la nomina mai in questi versi dalla metrica della tradizione petrarchesca fondata sugli endecasillabi, ma lei, Elena, la compagna di una vita del poeta, vibra garbatamente in ogni verso di “Movenze”, a cominciare da quella “forma coperta di elitropio”.

Il girasole, dunque, come metafora del poeta che, continuando a elaborare il lutto, i tagli della perdita nel “turbinio” di un novembre senza scampo, adotta l’elitropio come capacità e necessità di essere sempre in un perimetro, forse breve, sì, ma preciso: il perimetro del piccolo-grande spazio dove il girasole offre il suo volto al sole e ne riceve luce.

Il poeta è egli stesso il girasole-elitropio in cerca della luce solare e il sole-fonte-inesauribile-di-luce è l’amata Elena. Nelle parole-chiave del componimento (tregua-sogno-forma-elitropio-ansiolitici-mascella-pelle-turbinio-rombo-notte-vento-novembre-marmo-ciglia) negli «incanti imprigionati» alle sere del poeta, Antonio Spagnuolo gioca la sua partita con la vita e con la morte su “quell’ultima-pagina-bianca”, pagina non scritta per Elena per il suo viaggio di commiato da questo mondo, ma che il poeta è chiamato a riempire di calligrammi, come i giapponesi del gruppo Gutaj, su fragili fogli di carta di riso dove vuoto e pieno hanno la stessa importanza, la stessa dignità estetica.

Il clima generale di Movenze, per affinità tematica, ricorda quello de Il giorno dei morti del Pascoli di “Myricae”, ma il battito dei versi, la loro stessa prosodia e il lessico riconducono il lettore al Montale di Satura, Xenia I, n. 4:«Avevamo studiato per l’aldilà/ un fischio, un segno di riconoscimento./ Mi provo a modularlo nella speranza/ che tutti siano già morti senza saperlo».
Così il "Canzoniere dell’assenza" di Antonio Spagnuolo continua senza interruzioni, come Roland Barthes nel suo diario di lutto a noi giunto come “ Dove lei non è”.

Sicché, anche Antonio Spagnuolo ripropone la durata di un evento, la morte dell’amata, e il perdurare del lutto per questa perdita, un lutto che dove lei [Elena] non è nel tempo può anche cambiare forma, ma senza mai cambiare la scorticante sostanza.
Soprattutto il poeta ripropone lo smacco, lo scandalo del linguaggio umano che non riesce a dire la morte, che non sa dire la morte.
E il suo Journal de deuil, il suo diario di lutto, quotidianamente si allunga di frammento in frammento in un dialogo muto con Elena, nella indicibilità della «presenza-della-sua-assenza».
*
Gino Rago

venerdì 22 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIUSEPPE IULIANO

Giuseppe Iuliano : “Tantilla” – Ed. Delta 3 – 2019 – pagg. 12 - € 2,50
“Tantilla” , cose da poco conto , cosucce buttate con disinvoltura e furbizia , capaci di accalappiare l’attenzione del lettore, per la variegata tessitura che si offre. Il volumetto agile ed elegante ha la prefazione del famoso Aldo Masullo, il quale scrive: “Il poetare di Iuliano, tutto preso dalla sua, dalla nostra Irpinia, è carico di tenerezza. Ma si tratta di una tenerezza sincopata. Dico sincopata nel senso della tecnica musicale, per cui una regolata interruzione disturba il flusso sonoro, ottenendo un forte effetto contestativo…” D’un tratto, il velo dell’apparenza si squarcia ed ecco le immagini sovrapporsi per un ritocco della quotidiana ansia dell’immaginazione. Il significato ultimo dell’esistenza umana: l’evidenza che potrebbe, se solo lo volessimo, costituire l’abbrivio verso una vita piena, consapevole e scevra da paure, si avviluppa in un caleidoscopico schermo per svelare il bollire di un fervore poetico tutto teso alla narrazione del contrasto tra civiltà ormai agonizzante e meraviglia della natura che circonda. “Sotto questo cielo color pastello/ che esalta fondali di valli e colline/ contiamo pazienti l’attesa dei giorni./ Anime sfiancate dubbiose/ coltiviamo silenzio e solitudine/ come converse ai voti…” Nello scrutare il paesaggio in ogni angolatura possibile Giuseppe Iuliano traduce la sua ricerca poetica, e con proposta lodevole offre la morbidezza del ritmo.
ANTONIO SPAGNUOLO

SEGNALAZIONE VOLUMI = FELICE SERINO

FELICE SERINO :“La vita trasversale” - 2019 - pagg. 450 - € 25,50

In un mondo sempre più corporeo e materiale, viene spontaneo chiedersi se ci sia ancora posto per l’anima. Poi si legge la poesia di Felice Serino e allora tutta la prospettiva cambia. D’un tratto, il velo dell’apparenza si squarcia ed ecco la verità nuda, il significato ultimo dell’esistenza umana: l’evidenza che potrebbe, se solo lo volessimo, costituire l’abbrivio verso una vita piena, consapevole e scevra da paure.
Ne “La vita trasversale” l’anima è più che mai al centro, e la poesia diventa in toto ancella del pensiero. La silloge, infatti, raccoglie gli ultimi scritti (2017-2019) nei quali il pensiero e la spiritualità dell’autore campano emergono con più forza rispetto alla produzione precedente. Ed è una forza talmente dirompente da lasciare in chi legge un segno profondo: la poesia breve, il verso ridotto all’osso eppure pregno, vivo come non mai di immagini e sensazioni, dicono che l’uomo, prima ancora che il poeta, ha trovato ciò che cercava da tutta una vita: è arrivato all’essenza delle cose. Quasi sorride sornione Serino, tra i versi, evocando ricordi e illusioni di tante vite precedenti, del sé stesso del passato angosciosamente fermo dinanzi al muro delle convenzioni che adesso si è finalmente sgretolato.
E cosa c’è al di là del muro? Semplice: l’Oltre. E quindi, il Tutto. Pur senza essersi ancora, nei fatti, spogliato del suo corpo di carne, Serino si è distaccato dal mondo e dalle sue pastoie e può quindi aprire gli occhi su ciò che ci aspetta “dopo”. Non la fine, la morte, l’annientamento: oltre c’è un altro piano di esistenza, anzi, infiniti piani di esistenza da dove non solo i nostri morti, ma anche i tanti noi stessi speculari ci guardano. La nostra anima è un dispiegarsi in infiniti alter ego e in infinite potenzialità: tutto quello che i nostri limiti fisici e le costrizioni imposte dalla società ci impediscono può essere realizzato altrove, anche quello che abbiamo cominciato qui e che non siamo riusciti a portare a termine.

ora
danzi il flamenco che amavi
col tuo corpo d'aria
e da un altrove "detti" poesie
quelle
che non hai avuto il tempo di scrivere

Ma questo oltre non è trascendenza, è trasversalità: nel corso della nostra esistenza terrena, quindi, possiamo scorgerlo in trasparenza dagli innumerevoli segni inspiegabili in cui ogni giorno ci imbattiamo, nella bellezza della natura che ci fa “sentire” la nostra realtà di esseri spirituali, e soprattutto, attraverso il sogno. La dimensione onirica è sicuramente uno degli aspetti più interessanti della poesia seriniana, data la valenza assolutamente peculiare che le viene attribuita. Il sogno, infatti, è il trait d’union fra i diversi piani di esistenza: un bivio nel quale tutte le strade dell’oltre convergono, la via che rende possibile la comunicazione con l’invisibile permettendoci di evadere per un attimo dal nostro “esilio di carne”.
Ogni notte, quindi, il sonno ci scioglie dai ceppi del sangue per lasciarci fluttuare in quel Tutto al quale non smettiamo mai di appartenere, anche quando la vita di ogni giorno ci restituisce alla nostra condizione di peccato e di polvere: quel Tutto che è Dio e che è amore, assoluto e incondizionato. La consolazione alla nostra pochezza, quindi, è questo sconfinato amore di Dio per noi, e la certezza che, benché peccato e polvere, torneremo a Lui; che tutto è in tutto e tutto è Dio; che la vita nasce dalla morte e si rinnova da sé stessa. Così, l’anima è un continuo partorirsi e ritornare al Tutto: è grazie a questa consapevolezza che possiamo vincere la nostra atavica paura della morte. Perché, infatti, dovremmo temere quel “punto di non ritorno” che invece di distruggerci ci restituisce alla nostra vera vita?

fioriti
nelle braccia di Dio
come nella prima luce

La luce, altro punto nodale del nostro poeta-pensiero: una luminosità che fa quasi male agli occhi, tanto è intensa e inestinguibile. La poesia di Serino è tutto un immergersi in questa Luce dove l’umano e il divino sono allo stesso tempo sorgente, fiume, cascata, foce, in una continua simbiosi dove si può conservare la propria unicità solo annullandosi. Ed ecco, quindi, affiorare un nuovo concetto capace di rispondere a tutti i nostri interrogativi, soprattutto di fronte alla sofferenza, all’errore, all’inadeguatezza: questa vita sulla terra ha senso solo se trascendiamo la nostra animalità per trasformare il nostro sangue in ali. L’angelo e l’uomo, due facce della stessa medaglia che la carnalità rende opposte, nemiche:

convivere con gli umori
di un corpo di morte
dall'animalità all'angelo: questa
l'impervia salita
più d'una vita se dal sangue
fioritura sia d'ali levate:
ogni passo ne perdi una piuma

e ancora:

le mani affondi
nel sangue delle convenzioni
mentre
all'angelo lucente del sogno
tarpi le ali
facendolo all'alba svanire

Basta immergersi nel proprio spirito per annullare qualsiasi distanza fra noi stessi e l’angelo che siamo. Allo stesso modo, il distacco dalla realtà che ci circonda ci aiuta a prendere coscienza della verità che sempre ci sfugge: che vita e morte sono una cosa sola; che non c’è una fine, e che ogni morte non è che un nuovo inizio. Se a ciò fossimo sempre presenti, affronteremmo con serenità, quando non addirittura con gioia, il passo estremo che ci attende, e che altri hanno compiuto prima di noi:

rinfranca il pensiero d'essere
immortale -e già dalla ferita della
creazione lo sei-
la morte ti cerca?
uscito dal guscio tu sarai altro
l'anima libera sarà dai lacci
lo spazio mentale onde di luce e amore
niente d' imprevisto se la morte
non ti sorprenda più della vita

Avanzare negli anni, a questo punto, non è invecchiare, ma pervenire a nuova giovinezza; avvicinarsi sempre più alla verità mentre ci si allontana dalle meschinità del mondo. Eppure, come ogni altra creatura di carne e sangue, il Serino-uomo non può fare a meno di chiedersi: mi ricorderanno un giorno? Come sarà il momento del trapasso? Domande alle quali lo speculare Serino-pensiero risponde con l’ironia di chi ha già oltrepassato quella soglia e non può più essere scalfito. Il Serino che ricorda persone ed episodi del suo passato con tenerezza, con gioia struggente, filtrando ogni fotogramma alla luce dell’anima e conservando solo quelli in cui sia visibile il riflesso di Dio.
Così, il poeta rivolge lo sguardo solo alle strade che portano verso casa: l’amore, la bontà, la bellezza in grado di elevare, il donarsi che rende capaci di fare la differenza. Nonostante sia in continua introspezione, Serino non è mai chiuso in sé stesso. E in tutto ciò la parola lo aiuta, lo innalza, oltre le barriere che ovunque, su questa terra, ci opprimono e ci ostacolano. La parola acquista una valenza liberatoria grazie alle sue inesauribili possibilità di creazione: in questo sta il senso dello scrivere. Alla domanda: perché scrivi? Si potrebbe quindi rispondere: perché la parola è luce, e io detesto il buio. Perché la parola è casa. E’ il respiro dell’anima, è la vita stessa. E l’assenza di ispirazione, di conseguenza, è un sentirsi disabitato/simile a quell'albero nudo/da cui son fuggiti i canti/vivere/di stelle spente.
*
Donatella Pezzino

POESIA = RAFFAELE PIAZZA

"Alessia e il sole velato di novembre"

Sole velato di novembre dagli occhi
a entrare in di Alessia l’anima
nell’illuminarla interanimata
ragazza Alessia con l’azzurrità
nel pensare a Mirta amica
che si è ammazzata più di due
anni fa. Nuvolaglia e poi esce
il sole nel condominiale giardino
dei bambini Alessia sulla torre
di vedetta tolta dalla tenda della notte.
*

"Alessia e la via delle rose"

Doveva piovere e c’è il sole
a pervadere di Alessia
dopo il risveglio di ragazza
l’anima. Attesa di Giovanni
nel folto della casa che ha
alberi e non pareti; poi
lui le dice fiorevole
telefonata che al Virgiliano
Parco si vedranno.
Nell’uscire nel condominiale
viale il motorino azzurrocielo
prende Alessia dalla luce
rallegrata nel pozzo del cuore
e in sintonia con le cose
della strada al Parco giunge
nell’aria rosapesca. Entra
nel mentre del sembiante
e per la via delle rose
cammina Alessia dove era
già stata nell’interanimarsi
con dei volatili la zona
più alta del volo e sono
passeri e gabbiani.
Poi entra nel rosso delle rose
per un raccolto di compostezza
e nessun vento può pettinare
il mare.
*
Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI = ANTONIO RICCARDI

Antonio Riccardi, Tormenti della cattività, Garzanti, Milano, 2018, pp. 164, € 15,30

Da Il profitto domestico (1996) a Gli impianti del dovere e della guerra (2004) fino Tormenti della cattività (2018), recente raccolta in cui le tracce di Sereni e di Bertolucci sono evidenti, Antonio Riccardi, tra coesione interiore e fedeltà tematico-stilistica di rara sobrietà linguistica, in una sorta di «estetica del cenotafio», si misura con il tema della morte, tornando a un mondo circoscritto, il podere di famiglia di Cattabiano. È un perimetro ristretto che nella sua mitologia personale il poeta avverte come luogo centrale di un mondo ripescato attraverso la memoria. Ma la memoria non ha senso compiuto se non interpella l’idea di tempo, la percezione dello spazio e il “come” ci si intende collocare in quel tempo e in quello spazio. I fattori T (tempo) e S (spazio), con i quali si misura questa recente poesia di Antonio Riccardi, sono tempo e spazio pre-moderni. Ma in che senso pre-moderni? Detto in estrema sintesi, Antonio Riccardi adotta il tempo ancora scandito dai ritmi delle stagioni e della vita, con tutti i riti a tali ritmi collegati, e adotta lo spazio come luogo antropologico di identità forte e di comunità coesa, come in questi versi esemplari (1930):«Alla prima foliazione del podere/dopo la morte invernale di Antonio/Riccardi, solo la siepe di bosso/ alla fine del giardino, confine/sul dirupo tra casa e coltivo,/era rimasta forte e splendente[…]». Il podere di famiglia a Cattabiano è un luogo antropologico nei versi del poeta di Tormenti della cattività, uno spazio non geometrico ma luogo della identità, delle relazioni , della memoria. La fisicità di ogni luogo antropologico si condensa nella geometricità delle tre forme spaziali della linea, della intersecazione e del centro grazie alle quali l’uomo-poeta può transitare, può incontrarsi, può sostare con le possibilità di creare relazioni simboliche, identità individuali, una comune terrestrità. Al luogo antropologico si collega inestricabilmente il tempo naturale o pre-moderno. «Dimmi che uso fai del Tempo e dello Spazio e ti dirò che poesia puoi fare…». A Tempo e Spazio pre-moderni Antonio Riccardi aggiunge un terzo fattore: la percezione, che non è la memoria, e propone una poesia tridimensionale distante dalla prospettiva dell’osservatore proustiano che al tridimensionale è in grado di aggiungere la Memoria, secondo ciò che sul quadri dimensionalismo scrive Maurizio Ferraris: «[…] Nella prospettiva proustiana, la domanda ontologica «che cosa c’è per noi, in quanto osservatori interni allo spaziotempo?» si ha una risposta tridimensionalista soltanto se ci si limita ad osservare con la percezione; la risposta risulta invece quadridimensionalista se si osserva anche con la memoria.». In Tormenti della cattività il poeta non osserva i tempi, le cose, i luoghi con la memoria ma con la percezione. Commentando il libro di Riccardi Giorgio Linguaglossa infatti scrive:«Nella poesia di Riccardi la memoria c’è, ma come un fondale sul quale si stagliano gli eventi della memoria, la memoria è ancora integra! Almeno, io la percepisco come integra, ancora non colpita dalla febbre dell’oblio della memoria. Ho citato non a caso la poesia di Brodskij Lettera a Telemaco del 1972, perché lì c’è l’albeggiare di questa terribile sindrome che ha invaso silenziosamente il mondo moderno e gli uomini del nostro tempo[…]».
*
Gino Rago

giovedì 21 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = MARINA PETRILLO

Marina Petrillo : “Materia redenta” – Ed. Progetto cultura – 2019 - pagg. 96 - € 12,00
La scintillante prefazione di Giorgio Linguaglossa avvia ad una lettura oculata e particolareggiata, tra le sospensioni che il sub conscio attiva per rincorse multicolori e profondità sfiorate, accortamente ricamando le attese di una modernità che sottende alla poesia contemporanea di alto valore. “La parola poetica – egli scrive fra l’altro- diventa esperienza della fragilità e della terrestrità, esperienza di un indebolimento di ciò che un tempo lontano era la pienezza del tempio greco o della basilica cristiana ed adesso è un luogo infirmato dal sole e dalla pioggia, dal vento e dagli uomini che abitano la terra e che ad essa ritornano, come erranti, come morti.” Un passaggio elegante di affanno che ci trascina nel rincorrere quella quotidianità che non sappiamo più apprezzare nel silenzio che circonda, e che porta in se inscritta una estetica non scontata e fasulla. Marina Petrillo traccia il suo iter con arguzia e poesia, capace di attingere l’iflessione della metafora per forgiare la vertigine del ritmo. “Siamo qui/ in un perduto gesto/ mentre l’Altro da noi/ trasmigra in atto parallelo/ o, tenue, diluisce in liquido amniotico/ di altra vita specchio.// Partoriti siamo dunque/ ma dal Sogno/ cercando di vita in vita/la Madre.” Scrittura piana che non ha sbavature , non si avviluppa al monumentale con arzigogoli e incisioni avveniristiche, attenta come appare nella tessitura del ritmo, nella pienezza del dettato . La parola esprime lo specchio che riflette dolori o memorie , illusioni o speranze, per quel sussurro che rimane nella vertigine che non è fuga di ombre ma il colloquio di una tensione. “Il cuore è il tuo cielo e nel sempre ad esso ritorni./ Hai trascorso in parole il tempo/ ed ora, umile, ad esso rivolgi il canto./ Non parli che di Lui, Signore nell’aurora.”
Le incombenze che cerchiamo nella penombra giocano con il bagaglio che trasportiamo nel tempo che avvolge solitudine o silenzi, e le figure si stagliano con un candore genuino, inanellate in spirali, intessute nel futuro immaginario e non sempre allettante, che la mano rasenta per ferite ed intagli. Il verso ha intacchi di cristallo, nella sua stesura a volte teneramente semplice e discorsiva: “Appena desta/ gli occhi in sonno avvinti/ pronunciai del tuo nome l’avverso fato./ Un piccolo segno tra le mani giunse/ a sospirare nell’aurora/ l’indiviso vanto alla vita./ Ma se dall’Anima tradita/ non giunse assenso/ fu per lo spirito nobile che ti avvolse/ una sera di dicembre in doglia di neve.” La poetessa sfiora i panorami tratteggiati come nella pittura per abbandonarsi ovattata nel “ chiarore della neve” che si riflette in forma di cristallo e come Narciso “in sorriso muove l’universo, nella magica danza delle foglie”. La meraviglia, l’incanto, lo stupore tentano una dissoluzione nel giro delle ore attenti a non perdere la scommessa che il mistero della poesia armonizza nel talento che la parola anticipa nelle immagini a mulinello.
ANTONIOSPAGNUOLO

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIORGIO LINGUAGLOSSA

Giorgio Linguaglossa (a cura di) AA.VV, How the Trojan War Ended I Don’t Remember (An Anthology of Italian Poets in the Twenty-First Century) Chelsea Editions, New York, 2019, pag. 342, 20 $ Prefazione di John Taylor

Negli Stati Uniti è uscita la prima ed unica «Antologia della poesia italiana contemporanea» di quel paese. Curata da Giorgio Linguaglossa, tradotta da Steven Grieco Rathgeb e con prefazione di John Taylor, per i tipi e le cure di Chelsea Editions di New York, 330 pagine complessive, l’Antologia How the Trojan War Ended I Don’t Remember, nel titolo ricalca la omonima Antologia uscita in Italia nel 2017 per le Edizioni Progetto Cultura di Roma, Come è finita la guerra di Troia non ricordo, con la prefazione di Giorgio Linguaglossa. I poeti presenti in How the Trojan War Ended I Don’t Remember si dispiegano lungo un arco generazionale di circa cinquant’anni, dal 1926, anno di nascita di Alfredo de Palchi (il primo libro è del 1967, Sessioni con l’analista) passando per Anna Ventura, il cui primo libro Brillanti di bottiglia è del 1978, fino alla più giovane, Chiara Catapano. I poeti antologizzati, Alfredo de Palchi, Chiara Catapano, Mario M. Gabriele, Donatella Giancaspero, Steven Grieco Rathgeb, Letizia Leone, Giorgio Linguaglossa, Renato Minore, Gino Rago, Antonio Sagredo, Giuseppe Talìa, Lucio Mayoor Tosi, Anna Ventura, Antonella Zagaroli, si muovono per lingua, lessico e scelte tonali nello spazio espressivo integrale nel ripudio diffuso dell’Io narcisistico del diario quotidiano. Qualche autore/autrice poi si volge al metodo mitico e ai miti. Guarda a ciò che negli ultimi trent’anni nei cinque continenti e in centinaia di lingue, con stili e obiettivi assai diversi, si sta verificando nel mondo reale attraverso le tragedie archetipiche di Sofocle, di Eschilo, e soprattutto di Euripide: il mondo dei miti è diventato uno dei prismi culturali ed estetici in cui questo mondo conflittuale e dis-funzionale ha tentato e cerca di vedere riflessa la propria immagine. A tale proposito scrive John Taylor nella Prefazione: «Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o riutilizza il passato nel presente…i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano...». Da un autore all’altro, da un’autrice all’altra, anche se ci sono sfumature per storie personali e temperamenti poetici differenti, si ritrovano un comune sentimento, quello di una sorta di «spavento del destino e della storia», che però non ha prodotto la «paralisi della poesia pensante», e un analogo pensiero, quello di un «nuovo paradigma in corso d’opera». I 14 poeti scelti e antologizzati dal curatore Linguaglossa si pongono come figure significative del Grande Gelo della parola raffreddata e ibernata e della stagnazione estetica e morale dei nostri anni. Con le parole di Tzvetan Todorov, «si continua a credere che l’uomo merita di rimanere lo scopo dell’uomo». Di certo possiamo dire che questa Antologia va verso nuovi paradigmi di ontologia poetica ed estetica, effetto diretto di quel passaggio che da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) a Midnight’s children (1981) e Versetti satanici di Salman Rushdie (1988), ha suggellato la conclusione del Post-moderno. Il favoloso, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, coincidono con lo spazio della scrittura nella quale non ci sono più separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Così come con la poesia di Tomas Tranströmer finisce l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed inizia una poesia che integra il fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili) con il fattore Spazio. Scrive John Taylor:«Il titolo dà il tono a questa vivace antologia. I versi dei quattordici poeti inclusi in Come la guerra di Troia è finita, non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2017) evoca l’eredità greco-romana in vari modi, attraverso il reale, il leggendario e le mitiche figure che vanno da Ulisse ad Apollo, da Medea ed Ecuba a [poeta romano di età augustea] Gaio Cornelio Gallo. Certo, alcuni modernisti del ventesimo secolo hanno sviluppato una analoga Poetica, che fa rivivere o reimpiegare il passato nel presente. Tecniche sviluppate da T. S. Eliot in The Waste land e The Love Song di J. Alfred Prufrock vengono in mente quando si esaminano i campioni di alcuni dei poeti compresi qui. Detto questo, i poeti qui antologizzati spesso spingono l’ironia molto più lontano di quanto non abbiano fatto Eliot, Kavafis, o altri antenati modernisti[…]» Estrapolo dalla Prefazione di John Taylor alcuni rapidi passaggi su 3 voci poetiche antologizzate su cui Taylor scrive:«[…] Letizia Leone, la cui lunga poesia è stata tratta dal suo libro La calamità di base si concentra su Marsia il Satiro, forgiando il satirico con la mescolanza di immagini che raccontano le apparenze del passato e del presente[…]; Anna Ventura, ad esempio, evoca Trimalchio, la tartaruga etrusca di Volterra”, Torquemada, e infine Barbablu, di cui presenta se stessa come la “terza moglie, quella / che ha osato prendere la chiave / e spalancare la porta dell’orrore “.[…] Raggruppando le sue poesie sotto il titolo Dovrei tornare a Caesar’s Court?, Giorgio Linguaglossa (che ha messo insieme questa antologia) sfida implicitamente i poeti contemporanei a rispondere alla stessa domanda. Si hanno pochi problemi a percepire che ci si rivolge in particolare ai poeti orientati verso i particolari modesti della vita quotidiana in sé o verso le loro vicissitudini, le proprie esistenze attuali, anziché verso quelle storiche, mitiche, scientifiche, e sfondi filosofici rovistati dalla maggior parte dei poeti in questa antologia. Tale, ovviamente, è solo una delle linee di battaglia che possono essere tracciate tra poeti contemporanei in Italia o altrove. Le differenze radicali che possono esistere tra i tipi di soggetti considerati, sono visibili anche nella poesia di Gino Rago: titolo generale per i suoi pezzi interconnessi “We are Here for Hecuba” sicuramente suggerisce l’intenzione di aprire una prospettiva più ampia di quella delimitata nel bene e nel male da un’ispirazione strettamente autobiografica o da un oggettivismo del genere “niente idee ma dentro le cose”[...]».
*
Gino Rago

mercoledì 20 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = FILOMENA RAGO

Filomena Rago, "Volo a metà", Editore Rubbettino C. L. E., Soveria Mannelli, (in ristampa, 2019), pp. 95, Euro 14

L’incontro con questa nuova voce di poesia è un vento che sospinge verso il tentativo di inquadrarne temi, contorni di stile, sostanza espressiva, linguaggio, nel sempre più vasto panorama della poesia italiana scritta dalle donne, o come ancora si dice, “al femminile”. Da Margherita Guidacci ad Antonia Pozzi, da Cristina Campo ad Alda Merini, da Maria Luisa Spaziani a Nadia Campana e a Maria Rosaria Madonna, senza trascurare le esperienze poetiche di alcune autrici viventi ( Maria Pia Quintavalla, Anna Ventura, Ida Vallerugo, Giuseppina Di Leo, Lucia Gaddo Zanovello e soprattutto le esperienze poetiche di Edith Dzieduszycka , per affinità di tema e di atmosfera con il suo “Diario di un addio”), è come andare dal suono dell’ombra alla poesia che ci scruta, interrogandoci sulla verità del vivere tra ferite del corpo, memoria della madre, eventi personali e collettivi, vicende di fiele e di miele, narrazioni del mistero a misura dell’anima, ora smarrita, ora ritrovata nei luoghi del ricordo, nei perimetri della memoria. Il linguaggio poetico è una creazione continua e l’idea di una lingua ideale va respinta. Ed è qui che si colloca questa raccolta di versi di Filomena Rago, se non altro per la spiritualità di un’esistenza fin qui vissuta sotto il segno di un incessante interrogarsi sul senso della propria presenza nelle dinamiche del mondo, in un dire poetico alimentato e mosso dal dolore, dall’assenza, dalla sottrazione, dalla presenza continua dell’assenza. Un dolore acuto, un’assenza tagliente, una sottrazione atroce, una presenza dell’assenza senza scampo la cui comunicazione, non appena viene avviata, è continuamente interrotta, risospinta e costretta in un labirinto emotivo, fitto di ricordi lancinanti («Te ne sei andato/all’improvviso in silenzio/donandomi l’ultimo sguardo./Un gigante eri…»), quasi a negare al lettore un filo di orientamento, un respiro di partecipazione: atteggiamento che fa tornare alla mente l’epigramma (per la morte immatura dell’amato Rocco Scotellaro) di Amelia Rosselli «Cercatemi e fuoriuscite» che è capace di fulminare l’interlocutore quando si sente coinvolto e, nello stesso istante, subito respinto, attratto e presto rigettato, come se Filomena Rago si spaventasse per ciò che potrebbe scoprire dalla mitologia personale, dal grumo stesso dell’animo, sottoposto a tale durissima prova. Perché Giacomo, il suo compagno amato, è stato prematuramente strappato all’affetto sconfinato di Filomena come al fiato della vita e alle meccaniche ingovernabili, spesso incomprensibili, del mondo e della Storia. E Giacomo, che anzitempo è tornato alla Casa del Padre, è la fonte d’ispirazione di questo libro poetico il cui nucleo centrale consta di 46 componimenti, tanti quanti gli anni terreni di Giacomo, che in sé recano smarrimenti e interrogativi sul perché si condanni a morte l’arcobaleno, spazzando via gli anni della giovinezza. Questa di Volo a metà di Filomena Rago, per chi ama i percorsi estranei ai circuiti professionali e alle cure specialistiche, è una preziosa occasione di lettura per la pronuncia semplice del dettato, per un registro espressivo volto a raggiungere ogni lettore, basato com’è su un lessico diretto ed essenziale, sopra il quale aleggiano, con lo spirito di Giacomo, le lacerazioni del cuore e l’ansia di eterno, la forza della Parola e la necessità del dire, il richiamo del divino e l’arte del dono e del donarsi agli altri, senza nulla attendersi in cambio, com’è in ogni atto d’amore autentico quando, con Ungaretti, ci si sente “docile fibra dell’Universo”, come i versi di Filomena Rago in Volo a metà** sanno dirci:«Siate liberi/ liberi di vivere la libertà…». Quel trauma senza precedenti, che l’autrice di Volo a metà ha cercato di analizzare e perfino di comprendere, annotando giorno dopo giorno pensieri e stati d' animo, emozioni e suggestioni, riflessioni, ricordi e fatti quotidiani, ha condotto la Rago nella «regione atroce» della morte dove, per dirla con il Roland Barthes del Journal de deuil (Diario del lutto) sulla scomparsa della madre da cui mai si riprese: : «C' è un tempo in cui la morte è un avvenimento, se si vuole un' avventura, che in quanto tale mobilita, interessa, tende, attiva, paralizza. E poi un giorno, essa non è più un avvenimento, è un' altra durata, compressa, insignificante, non narrata, tetra, senza ricorso: vero lutto non suscettibile di alcuna dialettica narrativa».
E in quella regione atroce della morte, in quella geografia del dolore, della perdita, del lutto si rimane per sempre impigliati. Ma il deuil-lutto si fa poesia, resistenza quotidiana nella Parola poetica, in una meditazione attiva come succede tra questo libro di esordio della Rago e i suoi lettori.

*

** Volo a metà, questo libro poetico intenso di Filomena Rago alla mia lettura stabilisce contatti di tema, di tono, di stile con molti altri libri che han come tema la morte dell’amata o dell’amato, ma in particolare i contatti per affinità elettive la Rago li stabilisce con il Canzoniere dell’assenza di Antonio Spagnuolo, libro nel quale il poeta, verso la sua Elena, per sforzo sovrumano della elaborazione del lutto, ricorda la potenza evocativa, metaforica, emotiva di Meleagro verso Eliodora (“[…] dov’è il mio amato germoglio? Lo strappò Ade,/ lo strappò. Ed ora la polvere sporca il vivo fiore./ Terra che ci nutri, ti supplico, accogli teneramente/nel tuo seno colei che è compianta da tutti.”) della antica Antologia Palatina.
*
Gino Rago

martedì 19 novembre 2019

SEGNALAZIONE VOLUMI = ANTONIO SPAGNUOLO

Antonio Spagnuolo – “Rapinando alfabeti”- Ed. L’assedio della poesia – Napoli – 2001 – pag. 95 - fuori commercio

Antonio Spagnuolo è nato nel 1931 a Napoli dove vive. Poeta e saggista, è specialista in chirurgia vascolare presso l’Università Federico II di Napoli. Redattore negli anni 1957 – 1959 della rivista “Realtà”, diretta da Lionello Fiumi e Aldo Capasso, ha fondato e diretto negli anni 1959 – 1961 il mensile di lettere e arti “Prospettive letterarie”. Condirettore della rivista “Iride”, fondatore e condirettore della rassegna “Prospettive culturali”, ha fatto parte della redazione del periodico “Oltranza”. Ha pubblicato numerosissime raccolte di poesia, per le quali ha riportato molti prestigiosi premi, e varie opere in prosa. Ha curato diverse antologie ed è presente in numerose mostre di poesia visiva nazionali e internazionali. Collabora a periodici e riviste di varia cultura. Attualmente dirige la collana “Le parole della Sybilla” per Kairòs editore e la rassegna “poetrydream” in internet. Tradotto in francese, inglese, greco moderno, iugoslavo, spagnolo, rumeno. Della sua poesia hanno scritto numerosi autori tra i quali A. Asor Rosa nel suo “Dizionario della letteratura italiana del novecento” e nella “Letteratura italiana” (Einaudi).
Il libro di poesia di Antonio Spagnuolo, del quale ci occupiamo in questa sede, risale al lontano 2001 e presenta stilisticamente e formalmente caratteristiche differenti rispetto a quelli dell’ultima produzione dell’autore che sono monotematici avendo per argomenti quelli del dolore per la scomparsa della carissima consorte Elena e della conseguente forte volontà della riattualizzazione della sua figura e della sua persona, cosa della quale il Nostro è perfettamente conscio nel farla rivivere nell’unico modo possibile, cioè attraverso la parola poetica che è sempre detta con urgenza nel suo frugare nelle pieghe della mente provenendo dall’inconscio controllato nel creare un felice connubio di fisicità e spiritualità attraverso i versi sempre densissimi a livello semantico, metaforico e sinestesico.
“Rapinando alfabeti” presenta una corposa prefazione di Plinio Perilli che per la sua estensione e la sua forte dose di acribia emerge quasi come un breve saggio per la sua acutezza e completezza.
A proposito di quanto suddetto rispetto allo stile e alla forma della poetica e del poiein di Spagnuolo, è doveroso e fondante mettere in evidenza che, nonostante tutta la produzione del poeta si configuri nel tempo come un continuum coerente con delle caratteristiche precise e stabili, nella fase del tema dell’addio, della quale si diceva e che dura ormai da circa sette anni, l’autore è giunto all’elaborazione di tessuti linguistici che emergono con una maggiore chiarezza pur rimanendo invariato nelle scritture il fortissimo scarto poetico dalla lingua standard per cui nella fruizione dei testi nell’emozione si affonda nelle pagine pervasi sempre dalla luminosa bellezza dei versi nei quali nulla è affidato al caso.
In “Rapinando alfabeti” prevale una scrittura più anarchica se non alogica in un discorso di incroci di versi che sono di grande icasticità pur nella loro leggerezza.
La raccolta non è scandita e anche per questo, nella sua sequenza di sessantasei componimenti tutti senza titolo e numerati, può essere considerata un poemetto nella sua consequenzialità.
Emerge nell’ordine del discorso una coerenza dell’io – poetante molto autocentrato nel suo meditare sul senso della vita con una certa rabbia nel costante tentativo di afferrarne il bandolo e da questa tensione scaturisce nei versi un’irrepetibile fantasmagoria di immagini sempre uniche e originalissime nel loro emergere connesse logicamente tra loro, schegge che rimandano ad una fortissima dose d’ipersegno.
È stabile il tragitto, il viaggio che parte dal dato corporeo, che passa per i sensi, che poi divengono pensieri e parole sublimi.
Frequente la presenza di un tu femminile al quale il poeta si rivolge del quale vengono detti pochi riferimenti e tutto è presunto qui a partire dal titolo “Rapinando alfabeti” che sembra evocare la salutare ansia trasgressiva di Spagnuolo in nome del pensiero divergente e salvifico che ne mare magnum della vita emerge solo nell’arte e in particolare della poesia stessa.
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Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIORGIO MONTANARI

GIORGIO MONTANARI : "NELLA PUREZZA" - Ed.Bertoni - 2019 - pagg.76 - € 12.00
Prefazione ---
Aprirsi alle alterità per poter esprimere la propria interiorità è come immergersi in una scommessa, al di là di un orizzonte multicolore e variegato, che disegni una non essenza e ripeta il falso movimento dell’apparenza per incidere alla fine semplicemente nel senso quotidiano dell’esistere. Il candore diviene allora la comprensione degli accadimenti al di là della piega del velo che appanna le trasparenze ed illude nell’inaccessibile.
In questa pagine il carattere episodico dei testi, realizzati nel verso quasi sempre molto breve e martellante nel ritmo musicale, rivela l’imprevedibilità del dettato poetico in un fraseggio che sfida anche la linearità narrativa per agganciarsi al momento simbolico della metafora o del sussulto esistenziale. La serrata progressione da un lato e la svelta concisione della frase dall’altra mettono in risalto i varchi della figurazione, suggerendo a tratti anche un collage ininterrotto per incastri e stupori che rendono la lirica vibrante, da confrontare e centellinare.
“Il mio corpo/ è una cornice appesa storta,/ una fotografia che, sbiadendo,/ acquista ricordi e nostalgie…” Il poeta spinge la sua mimesi in un processo di disintegrazione corporale intravisto nello sbiadire della fotografia e nello sciogliersi doloroso della memoria. Una memoria che nasce dalla fascinazione delle figure e si sgretola nella illusione della quotidianità.
Forse le verità non possono essere dislocate nell’impulso della domanda, “nel solenne silenzio/ della basilica/ il vuoto mi circonda. / Volgo gli occhi verso l’alto/ e il respiro mi strozza.” fino a quando l’assenza ha un ordine immaginario che al giusto richiamo accenna ad una risposta quasi sempre in ombra.
Allora gli accadimenti hanno la piega del velo e come “la farfalla/ prima attirata dalla/ luce/ ora si agita/ cercando di salvarsi/dalla lampada..” così la parola ha il groviglio della fuga, e come una spugna imbevuta di meraviglia cerca di levigare la roccia della coincidenza. La seduzione delle immagini rompe, nella poesia di Giorgio Montanari, ogni vincolo, perché l’autore riflette sulla sua parola, che insorge ad ogni accenno di immersione, tale è il tempo della vita che è nell’istante, o che era, o che sarà. “Uno, è il cuore che dimora in noi. / Uno, l’astrazione dei numeri primi. / Uno, solitudine non colmata. / Uno, l’anima in ascolto accoglie il mondo. / Uno, sono io. / Ci si evolve, quindi Due.” Il numero DUE ed il numero TRE li troveremo diverse pagine più avanti ad interrompere le pennellate divenute protagoniste della catena poetica.
L’accento filosofico che imbeve molti versi di questa raccolta mostra orizzonti fuori del tempo, ossia nasconde il pericolo di Thanatos, che è sempre in agguato, per toccare le grazie dei ricordi o delle schermaglie adatte al sub conscio, ove le cose non svaniscono, ma ghermiscono lo schermo delle visioni oniriche per i contraccolpi dell’assoluto.
Particolarmente suggestiva al seconda parte: “Lettere dal Paradiso”, ove l’autore si chiede ingenuamente come sarà morire, quando nella tenebra ombre di luce indicheranno la direzione, o quando la musica sarà finita, ma potremmo incontrare di nuovo Tenco, Ciampi, Stratos, Mia Martini ed altri, nel refluire di note indescrivibili. Allora anche i simboli, di ritmi temporali o di figure spaziali, si succedono nelle composizioni, in configurazione di grafie luminescenti o nei richiami che consentono di elevarsi nel magnetismo che suggerisce la fantasia.
Anche la semplice umile materia ha un suo ruolo di mediazione , ed insiste nella immobilizzazione fuori da ogni mito, perché “ la seconda/ pietra, / rivolta al collo, / mi soffoca per/ un istante. / Inondo la terra/ di lacrime.”
Sino all’oblio il poeta attinge dai sorrisi magnifici che si offrono oltre l’asfalto, o insegue la risposta del proprio DNA, o sigilla i segreti per condividere l’essenza delle cose, o interroga il mistero della sfinge la cui chiave sono rebus traducibili e nuovamente compare il numero UNO. La sapienza compositiva dell’autore è plastica, mobile, aderente ad una ricerca che lo pone tra le raffinate scelte del verso, anche se la musicalità si ripete in una coscienza enigmatica, collocandosi tra la tradizione ed il ripensamento di una crisi fluttuante.
Il testo dunque è come l’argilla da plasmare, una gemmazione segnata dalla esperienza, che avvolge, e da una fioritura virtuale che racchiude alterne soste, momenti in cui la sorpresa sorride al mistero, lo sguardo riconosce spaesamenti, l’affermazione dissolve il paradosso in gioco tra la rappresentazione e la metafora.
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ANTONIO SPAGNUOLO