"La lezione di Vico e la Visione Poetica Ungarettiana"
di Giovanni Cardone
Posso dire che Ungaretti è un autore che non ha mai taciuto i nomi dei suoi autori di riferimento anzi, li ha sempre dichiarati esplicitamente: Leopardi, Petrarca, Mallarmé, Valéry, Platone, Vico, per citarne alcuni. Com’era logico attendersi, queste indicazioni, sparse negli scritti del poeta, si sono trasformate in altrettante piste per i critici che hanno voluto occuparsi della sua opera. Con esiti importanti in tutti i casi, tranne per l’ultimo che abbiamo citato. Vico è infatti, tra i grandi che Ungaretti elesse suoi mentori e ispiratori, l’autore meno indagato: i titoli della bibliografia sulla critica del poeta che rimandano direttamente al filosofo napoletano sono pochissimi e solo uno di questi affronta l’argomento in modo specifico. Ciò non significa, va da sé, che anche in altre sedi non se ne sia fatto cenno, ma sempre di passaggio, non essendo il rapporto tra Ungaretti e Vico il concreto oggetto della disamina. Questa lacuna nella bibliografia critica su Ungaretti ci sembra un fatto singolare. Uno dei motivi di questa scarsa attenzione può essere che, generalmente, la critica su Ungaretti si è concentrata sull’opera poetica mentre le tracce più cospicue del pensiero vichiano sono presenti nelle lezioni universitarie; infatti, nel volume mondadoriano dedicato ai saggi e agli interventi, la presenza di Vico è limitata alla seconda delle conferenze brasiliane a lui dedicate. La quale, pur essendo una testimonianza significativa, è pur sempre un testo dedicato al filosofo, è dunque ovvio che l’oggetto vi sia trattato. Per stabilire quanto profondamente le teorie vichiane siano penetrate a fondo nel metodo di avvicinamento del testo impiegato da Ungaretti, sono più significativi invece quei passi, disseminati nelle lezioni che denunciano implicitamente l’influenza del filosofo napoletano. Per rinvenirli, però, era necessaria la pubblicazione delle lezioni stesse, avvenuta solo nel 2000. Solo da quel momento è stato possibile a tutti i lettori ricomporre la diade delle conferenze vichiane ma, soprattutto, verificare come la lezione del filosofo napoletano si riverberi diffusamente nell’attività di critico e docente, attività che ne conserva le tracce più nascoste e probanti. Prima di entrare nel vivo del nostro discorso converrà però rileggere cosa è già stato scritto dagli studiosi che si sono occupati delle affinità tra il pensiero di Vico e la poetica di Ungaretti. Penso che il pensiero di Vico funziona come un reagente chimico nei composti tematici ungarettiani, specialmente per la comprensione del ruolo che l’uomo ha nella Storia, e nel suggerire ad Ungaretti il tema del corrompersi della ragione umana. Se però il filosofo lascia aperto uno spazio alla speranza, Ungaretti è meno fiducioso, vivendo un periodo storico funestato da due guerre mondiali, che mostra in modo sufficientemente chiaro il potenziale autodistruttivo di quella società che è stata definita ‘civiltà delle macchine’. Soprattutto nelle riflessioni degli anni Cinquanta e Sessanta, la volontà ungarettiana di trovare un antidoto alla crescente consapevolezza della sconfitta dell’uomo sulla scacchiera della Storia, lo fa volgere al mito vichiano delle origini, anche se la fiducia di una evoluzione positiva della condizione dell’uomo è, via via che gli anni passano, sempre più labile. Sostengo che i sintagmi «sentimento del vuoto» e «memoria dell’assenza» segnalano «in modo significativo la presenza di Vico» infatti la concezione ungarettiana dell’atto poetico ha molto in comune con «l’idea vichiana di una scienza nuova in quanto la poesia, definita come libertà e sentimento dell’eterno, è irrealizzabile al di fuori della memoria». La presenza di Vico nell’opera ungarettiana prenderebbe corpo, inizialmente, come un debito estetico, per via dell’appartenenza del poeta ad una corrente estetica che concepisce l’arte sì come un fatto estetico ma anche morale, il cui capostipite sarebbe il filosofo napoletano. Quanto «alla natura della determinazione morale, essa è da ricercarsi nella caratterizzazione della memoria come coscienza del perire», che va interpretata non come Manzoni cioè in senso neoclassico ma come Vico e Leopardi, cioè in senso rettamente così direbbe Ungaretti romantico.
Nella seconda prolusione brasiliana, continua Luglio, Ungaretti chiarisce che il perire non è la morte dell’individuo ma il suo vivere «in una temporalità che non abbiamo scelto, di cui non conosciamo la causa» grazie a questa consapevolezza del perire l’uomo scopre Dio ma, per recuperare la sostanza etica della parola, è necessario chiamare in causa la memoria storica. Inoltre se l’evoluzione dell’uomo e dell’umanità sottostanno alle stesse regole, si può pensare un tentativo di risalita alle origini dell’uomo attraverso il linguaggio, Vico docet, la cui teoria evolutiva, e la fondamentale connessione uomo-linguaggio, è ripresa da Ungaretti. Luglio prosegue mostrando che anche negli sforzi di comprensione del barocco romano si ritrova, ma in una luce diversa, la presenza di Vico: infatti le rovine a cui Ungaretti fa spesso cenno non sono altro che il richiamo dei frantumi dell’antichità che Vico pone alla fine del primo libro della Scienza Nuova. Inoltre la rovina, con il suo essere mutilata e con la complicità della memoria, è all’origine del mito (altro punto in comune con il filosofo napoletano), il cui processo generativo è influenzato dalla fantasia e dall’ingegno; tre facoltà memoria-fantasia-ingegno che Vico poneva in stretta relazione. Come si vede, i due studi usano argomenti simili per collegare la concezione della poesia di Ungaretti alle teorie del filosofo napoletano; in particolare ci fanno capire che il pensiero di Vico stimolerebbe la sensibilità ungarettiana sul tema della caducità della vita umana, ma solo Luglio sfiora l’argomento di cui ci stiamo occupando, ossia i possibili spunti che Ungaretti può aver còlto nel pensiero vichiano e riportato nella propria concezione della memoria. I motivi che hanno portato Ungaretti a leggere Vico possono essere molti; certamente negli anni ’20 non era ancora spenta l’eco del volume che Croce aveva dedicato al filosofo napoletano e che diede il via alla riscoperta della sua opera. Non meno importante era l’ammirazione nutrita dai principali responsabili de «La voce», in particolare da Giovanni Papini , che si fecero promotori del pensiero vichiano, una ammirazione che deve aver contagiato Ungaretti. L’opera che più di ogni altra ha avvicinato Ungaretti al filosofo napoletano rimane però, secondo noi, lo Zibaldone di Leopardi, letto fin dalla gioventù. Lo studio dell’opera e del pensiero del poeta di Recanati lo ha sicuramente indirizzato verso uno di quei pensatori che, a vario titolo, aveva influenzato molti autori della fine del Settecento e di inizio Ottocento. Alcune affermazioni contenute nelle pagine zibaldoniane, così come alcuni temi di più ampia portata, possono essere fatte risalire alle speculazioni del filosofo napoletano. Leopardi dimostra di conoscere Vico fin dal 1821 e di annoverarlo tra i grandi pensatori del calibro di Cartesio, Newton, Leibnitz, Locke, Rousseau e Kant anche se non fa mai esplicito riferimento alle sue teorie. Suggestioni potrebbero derivargli dalla conoscenza del pensiero di Madame De Stäel e di Cesare Beccaria. Anche nel Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica si possono facilmente rivenire echi delle teorie vichiane; si veda, per esempio: Ma che vo io cercando cose o minute o scure o poco note, potendo dirne una più chiara della luce, e notissima a chicchessia, della quale ciascuno, ancorché non apra bocca, mi debba essere testimonio? Quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli e partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia; quando il tuono e il vento e il sole e gli astri e gli animali e le mura de’ nostri alberghi, ogni cosa ci appariva o amica o nemica nostra, indifferente nessuna, insensata nessuna; quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare quando in nessun luogo soli, interrogavamo le immagini e le pareti e gli alberi e i fiori e le nuvole, e abbracciavamo sassi e legni, e quasi ingiuriati malmenavamo e quasi beneficiati carezzavamo cose incapaci d’ingiuria e di benefizio; quando la meraviglia tanto grata a noi che spessissimo desideriamo di poter credere per poterci meravigliare, continuamente ci possedeva; quando i colori delle cose quando la luce quando le stelle quando il fuoco quando il volo degl’insetti quando il canto degli uccelli quando la chiarezza dei fonti tutto ci era nuovo e disusato, né trascuravamo nessun accidente come ordinario, né sapevamo il perché di nessuna cosa, e ce lo fingevamo a talento nostro, e a talento nostro
l’abbellivamo quando le lacrime erano giornaliere e le passioni indomite e svegliatissime, né si reprimevano forzatamente e prorompevano arditamente. Ma qual era in quel tempo la fantasia nostra, come spesso e facilmente s’infiammava, come libera e senza freno, impetuosa e instancabile spaziava, come ingrandiva le cose piccole, e ornava le disadorne, e illuminava le oscure, che simulacri vivi e spiranti che sogni beati che vaneggiamenti ineffabili che magie che portenti che paesi ameni che trovati romanzeschi, quanta materia di poesia, quanta ricchezza quanto vigore quant’efficacia quanta commozione quanto diletto. Rispondendo alla lettera del Breme, Leopardi vuole sostenere la capacità del primitivo inteso come categoria poetica, riproposto in poesia, di stimolare l’emotività del lettore per farlo ricorre, tra gli altri, ad alcuni argomenti di matrice vichiana, come si vede bene nella citazione: ciò che siamo stati (ossia fanciulli) può essere detto anche degli antichi rispetto all’evoluzione dell’umanità; l’evoluzione del mondo è paragonata all’evoluzione dell’individuo; siamo stati fanciulli in preda all’ignoranza e alla fantasia. Inoltre la descrizione che Leopardi fa della nostra età infantile ricorda da vicino la descrizione di alcuni momenti della vita dei «bestioni» di Vico: ogni manifestazione della natura era per loro, come per noi, dice, motivo di sorpresa o di timore, i primi uomini si rivolgevano alle altre creature o piante con intenzione comunicativa; la meraviglia era un’esperienza quotidiana; da essa e dalla fantasia che ci governavano e dalle emozioni che connotavano la nostra vita sarebbe potuta nascere una quantità di poesia. Tutti i punti che abbiamo qui rapidamente richiamato rimandano alle teorie di Vico, indipendentemente da dove Leopardi li abbia attinti. Ungaretti dimostra di conoscere bene questo brano, tanto che lo riutilizza nella lezione intitolata Rapporto con il Petrarca e introduzione al commento dell’«Angelo Mai». Anche in pagine successive del Discorso leopardiano non mancano altri richiami alle teorie vichiane; eccone un esempio che riguarda la fantasia rapportata alle età dell’individuo: ed il vero conosciuto ed il certo hanno per natura di togliere la libertà d’imaginare. E se il fatto stesse come vogliono i romantici, il confine dell’immaginazione sarebbe ristrettissimo ne’ fanciulli, e s’allargherebbe a proporzione che l’intelletto venisse acquistando; ma per lo contrario avviene ch’egli ne’ putti sia distesissimo, negli adulti mezzano, ne’ vecchi brevissimo. Laonde, come vediamo chiarissimamente in ciascuno di noi che il regno della fantasia da principio è smisurato, poi tanto si va restringendo quanto guadagna quello dell’intelletto, e finalmente si riduce quasi a nulla, così né più né meno è accaduto nel mondo; e la fantasia che ne’ primi uomini andava liberamente vagando per immensi paesi, a poco a poco dilatandosi l’imperio dell’intelletto, vale a dire crescendo la pratica e il sapere, fugata e scacciata dalle sue terre antiche, e sempre incalzata e spinta, alla fine s’è veduta, come ora si vede, stipata e imprigionata e pressoch’immobile . Anche in questo passo sono evidenti alcuni riflessi vichiani: il paragone tra le età dell’individuo e quelle della società; la convinzione espressa che nei fanciulli, come nei primitivi, la fantasia sia una facoltà dominante che va scemando a mano a mano che l’uomo invecchia. Inoltre l’argomento secondo cui lo sviluppo delle capacità logico-razionali e pragmatiche è un ostacolo alla libertà della fantasia, che non può essere considerato strettamente vichiano, è più volte impiegato anche da Vico per sostenere il decadimento delle capacità immaginative umane a favore di quelle logico astrattive, inteso come effetto collaterale dell’evoluzione dell’uomo. Il passaggio di alcuni temi da Vico a Leopardi non avviene direttamente poiché, abbiamo detto, Leopardi non sembra conoscere direttamente l’opera di Vico; il passaggio è certamente mediato da autori diversi; uno di questi è probabilmente Ludovico di Breme, come suggerisce proprio Ungaretti, nel Secondo discorso su Leopardi: L’importanza che ha avuto sulla formazione del Leopardi il Breme è stata da tutti trascurata . Si è molto studiato ed è stato oggetto di molte discussioni il Discorso d’un Italiano intorno alla poesia romantica; ma non sono stati presi in esame i due articoli del Breme, apparsi sullo “Spettatore italiano” nel principio del 1818, articoli che avevano ispirato il discorso leopardiano, un discorso intessuto da echi vichiani, è la chiosa di Ungaretti, e aggiunge: «Leopardi accetta anche quasi tutti i punti positivi degli articoli, e innanzi
tutto, quasi negli stessi termini fissati dal Breme, il patetico». Che Ludovico Di Breme rammenti a Leopardi motivi di matrice vichiana, Ungaretti torna a ribadirlo in modo esplicito; infatti, dopo aver citato un passo dagli articoli del Di Breme, così commenta: Di qui presumibilmente deriva quell’immedesimazione dell’Antico nella fanciullezza e nell’adolescenza e nella prima maturità che porterà il Leopardi, come farà dall’Angelo Mai in poi, a immaginare la storia d’una civiltà, e, per analogia, la storia dell’universo e dei singoli, biologicamente condizionata dal perire. Si potrebbe anche fare il nome del Vico; ma non è l’antecedente diretto. Dunque Ungaretti individua, tra le pagine delle prose leopardiane, l’influenza di Vico e, nell’ambito del reiterato studio del pensiero del recanatese, tornerà ad approfondire la conoscenza del filosofo napoletano . Ad ulteriore riscontro della presenza di Vico negli scritti di Leopardi, riportiamo un commento di Lucio Felici il quale, in un saggio che ha per argomento l’ora panica quale tempo propizio ad ascoltare la voce della natura, cita una frase presa dal Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, in essa Leopardi sostiene di aver sperimentato quel tempo propizio, «quando ciascun oggetto che vedevamo ci pareva che in certo modo accennando, quasi mostrasse di volerci favellare»; lo studioso commenta: «Accennare significa qui “parlare per cenni”, con quella “prima lingua” che, secondo Vico, “dovette cominciare con cenni o atti o corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee”.L’accennare di Leopardi è riferito agli oggetti, quello di Vico ai soggetti, ma la favella per cenni è la medesima, per gli uni e per gli altri, e costituì lo strumento miracoloso perché gli uni con gli altri si intendessero, si sentissero in armonia".
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GIOVANNI CARDONE