"Giacomo Leopardi : Il Rapporto Tra Il Nulla e la Vita"
*
La storia della critica leopardiana ha assunto con difficoltà la figura di un Giacomo Leopardi filosofo. Soltanto nel 1947 apparvero due testi che segnarono una svolta all’interno della considerazione critica del pensiero di Leopardi: Leopardi progressivo di Cesare Luporini e La nuova poetica leopardiana di Walter Binni. Tali testi assumevano il pensiero di Giacomo Leopardi sulla base di un interesse che rimosse dal campo degli studi critici su Leopardi la centralità e soprattutto l’esclusività della poesia. Gran parte della critica si era fino ad allora rifiutata di considerare l’opera di Leopardi come un’opera di respiro europeo, e si era soffermata sulle riflessioni del poeta di Recanati, intendendole soltanto come l’espressione di un pensiero provinciale, a-sistematico, formulato da un poeta idillico. Frutto di un’esperienza individuale di dolore e solitudine isolati, tale pensiero non era suscettibile di una considerazione storicamente determinata che potesse assurgere a chiave di lettura di un’epoca, né tanto meno era degna di concettualizzazione in sede interpretativa, a discapito del conferimento di univocità a tutti gli scritti del recanatese, che perpetuarono nell’essere considerati ora come espressioni in termini idillici di una debolezza fisica e corporale dell’autore, ora come espressioni di una fenomenale capacità di resa stilistica e letteraria di temi e figure tipiche dell’infelicità romantica, ora come entrambe le cose. L’attenzione da parte di Luporini e Binni alla ricostruzione storica degli avvenimenti politici che potevano aver segnato l’evoluzione del pensiero di Leopardi, e la ricognizione di questi temi all’interno delle produzioni liriche del poeta, favorirono una lettura che faceva della dimensione politica e attiva quella centrale per l’elaborazione poetica e moralistica di Leopardi. I problemi dell’operosità, dell’attività, della prassi, vengono letti, in queste opere, come aspetti dell’analisi delle grandi azioni, che Leopardi accosta al tema dell’illusione, della virtù e del rapporto con la civiltà. Questo modo di intendere la riflessione di Leopardi sull’azione, con analisi dell’idea di progresso, e la sottolineatura della smentita da parte di Leopardi della perfettibilità dell’uomo e della civiltà, comporta però un sacrificio di quegli aspetti più cari ad un diverso e più recente filone di critica leopardiana, l’attenzione della quale si è spostata piuttosto su temi di carattere prettamente filosofico e ontologico. Tra tutti gli altri interessi della critica, non si può prescindere dal ritenere rilevante il modo in cui la vita attiva, intesa da Luporini e Binni - e da molti sostenitori e seguaci delle loro tesi quasi esclusivamente come eroismo e fonte di grandi azioni in ambito politico, possa essere letta sul piano dell’attenzione alla metafisica leopardiana, conseguentemente al rilievo che assume in questa prospettiva il tema del nulla. Questo diverso modo di approcciare il tema dell’attività nelle opere di Leopardi emerge una volta che dell’azione si sia sottolineata l’attenzione alla quotidianità, alla corporeità dell’esperienza, alla critica dello spiritualismo e alla definizione di alcune figure, esemplari per questi aspetti, sia all’interno della poetica leopardiana, sia all’interno dello Zibaldone. Tratto peculiare della critica leopardiana degli ultimi anni è proprio l’attenzione nei confronti del concetto di nulla leopardiano, che individua in Giacomo Leopardi un precursore rispetto a delle correnti del pensiero nichilistico o negativo. Alberto Caracciolo nel 1987 radunò i passaggi delle proprie opere all’interno di una raccolta “artigianale” intitolata significativamente Leopardi e il nichilismo. L’attenzione prestata da parte dello studioso all’interno delle diverse parti delle proprie opere nei confronti del nulla leopardiano nasce dichiaratamente da un’esperienza di vita da lui stesso definita «analoga» a quelle vissute da Leopardi e Heidegger nel corso delle loro esistenze. Tale vicinanza comportò, per lo studioso Caracciolo, una volontà di interessamento nei confronti di quelle che lui stesso definisce le tre «Leitworte: morte- Dio- tempo». In lui nacque così il rifiuto per la dimensione della critica che faceva di Leopardi e Heidegger un’espressione della
crisi del pensiero borghese europeo in decadenza. Caracciolo interpreta la questione della meditazione sul nulla in modo da non leggere tale riflessione svolta da Leopardi come un motivo di evasione dall’impegno politico o di rifiuto pessimistico della vita. Egli si esprime contro la critica letteraria leopardiana, colpevole di generare in lui una «impressione di esaurimento», perché incapace di «sentire la domanda estetica come domanda totale». Nel caso della lettura di Croce nota una incapacità di comprendere la vera dimensione del vissuto leopardiano, da Croce stesso descritto come una «vita strozzata», come se Leopardi fosse stato un uomo da principio votato all’azione, ma ostacolato in ciò da una «forza bruta di carattere fisico e intrinseco». Vera natura di Leopardi, secondo Caracciolo, era quella della contemplazione, del senso vitale e poetico, che si spense interiormente in lui a causa dell’«aridità più quotidiana e insignificante». Coerentemente con questa ricostruzione, Caracciolo sottolinea «la coscienza vivissima che Leopardi ebbe del carattere religioso infinito e catartico dell’esperienza poetica rispetto alla bassezza e alla quotidianità, la coscienza della necessità della poesia perché si abbia vita morale», dando il proprio consenso all’interpretazione metafisico-religiosa della poesia leopardiana fornita da Vossler, per il quale «”il distacco del poeta dal cattolicesimo e il suo approdo alla metafisica del Nulla infinito” non rappresentano “lo spegnimento di ogni fede religiosa”, ma “il passaggio ad una forma tutta personale di religione seppure di inconsapevole religione”». L’«insopprimibile bisogno di trascendere il limite e il sensibile» si configura, secondo Caracciolo, come espressione di «un’esigenza religiosa anche se non si obiettivi in Dio». La critica di Caracciolo alla lettura di Croce del pensiero e della vita di Leopardi può essere compresa soprattutto facendo riferimento alla questione del nulla. Il riconoscimento, da parte di Caracciolo stesso, di una certa rilevanza al pensiero di Leopardi è giustificato, oltre che dalla presenza della riflessione sul problema della strutturalità del male nel mondo, anche da quella sul nihil stesso, cui Caracciolo attribuisce la caratteristica della bipolarità. Caracciolo confronta il testo del Cantico del Gallo Silvestre di Leopardi con Was ist Metaphysik? di Heidegger: essi rivelano che, quando si guardi a fondo, ci si accorge che ad essere determinante nel nichilismo non è la perdita di senso (Wertlösigkeit) legata al nihil inteso «come niente oggettivo e oggettivante», ma «il nihil come Nulla religioso». Nihil consiste perciò in un’espressione identica stante a significare due realtà «antagonistiche»: 40 il Nulla come «spazio trascendentale di Dio, di quello che assicura il senso, come scaturigine della fede e delle varie possibili figure della fede» e il niente «come negazione del senso, dell’esser degno di essere, come morte». Il dualismo è tra il Nulla religioso, che nell’interrogare privo di risposta dà senso all’«arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale» del Cantico; e il niente oggettivante, inteso in senso onto-assiologico, configurantesi come «bruto e muto». L’aspetto di trascendentalità caratterizzante lo spazio di Dio nella riflessione sul nichilismo svolta da parte di Caracciolo trova particolare giustificazione innanzitutto per merito della teoria sull’opera di genio di Giacomo Leopardi, la quale rappresenta «al vivo la nullità delle cose». Il rapporto tra la poesia e il male nel mondo è analizzato dallo stesso Caracciolo, e riconosciuto come strumento con valore catartico, «incontro dello Spazio della Trascendenza e del mondo» disvelante la dimensione della sofferenza. In una nuova forma della discussione sulla fede come fondamento delle opere, tale dolore risulta evocato e placato, attribuendo alle opere un valore solo se perseguite in coerenza con la dimensione della fede. L’inevitabilità della validità delle «tavole di legge» come «principio o imperativo o apriori dell’eterno» per l’uomo contemporaneo è dimostrata dal fatto che «nessuna critica finora ha anche solo scalfito la realtà vera allusa dalle parole» «assoluto, spirito, eternità». La lotta della poesia contro il male nel mondo appartiene alla realtà della fede perché consiste nel trovare un senso, o un maggior senso, proprio dove questo appariva assente. E questo intravedere una luce di senso nella negatività assoluta è l’esito della lirica di Leopardi: l’assunzione dell’angoscia si converte in «pace» e «gioia», divenendo il fondamento della possibilità stessa di agire. Caracciolo afferma, in sintesi, che nel pensiero di Leopardi la possibilità di «innumeri figure»
trascendenti, personali o impersonali, indipendentemente dalla presenza di un Dio o meno, è espressa dalla bipolarità che il poeta di Recanati ha colto tra il nihil oggettivante di significato onto-assiologico e il nihil inteso nel senso del Nulla religioso, spazio della trascendenza che consente di intravedere un senso e di fondare l’«arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale» del Cantico del Gallo Silvestre. L’adesione alla critica che di Leopardi fece K. Vossler e l’attenzione per un aspetto per così dire “platonico mistico” e “salvifico-soterico” della concezione del Nulla in senso religioso per continuare ad utilizzare l’espressione caraccioliana – è oggetto generale di critica da parte di un altro autore del XX secolo: Sergio Givone. L’autore della Storia del nulla intraprende la sua lettura del pensiero di Leopardi a partire soprattutto dalla volontà di critica nei confronti degli sviluppi della lettura che del pensiero del poeta di Recanati dà un altro importante protagonista della critica leopardiana degli ultimi anni: Emanuele Severino. La contrapposizione tra i due interpreti si gioca sulla possibilità di considerare la questione del nulla leopardiano come «negazione pura e semplice di qualsiasi ontologia», per Severino, oppure come meontologia o metafisica del Nulla che preserva l’enigmaticità dell’essere che si converte nel nulla, per Givone. Le critiche rivolte a Severino da parte di Givone si possono riassumere in tre punti: innanzitutto il punto di vista sul nulla, impiantato sulla verità, verrebbe a dissiparsi se fosse fondata l’idea di una verità che è nulla, che è annientamento. Tale punto di vista o sguardo rende possibile il rapporto con la verità nonostante sembri negarla. Givone descrive questo sguardo definendolo come sguardo che accomuna poesia e filosofia all’interno del pensiero di Leopardi. Si tratta di un punto di vista capace di cogliere la verità in tutta la sua totalità di annientamento, ma che porta dentro di sé il nulla che la costituisce, non essendo esso stesso annientato nella dialettica tra verità ed illusione. Dunque la poesia diventa la «suprema ironia» che giunge alla verità al di là della verità stessa, illudendo e mentendo. L’ al di là in questione della verità non è la pura autotrasparenza del non essere di tutte le cose che sono, ma è laddove «la verità è sempre altra da sé, figlia del divenire». Il secondo aspetto della critica a Severino da parte di Givone intende esprimere una caratteristica propria del nulla stesso. Esso deve necessariamente stare metafisicamente al di là del processo temporale di dissolvimento proprio del cosiddetto divenire. Se così non fosse non avrebbe senso parlare di nulla come origine di tutte le cose - e Leopardi ne parla in un passo dello Zibaldone in modo più radicale delle sue stesse fonti di ispirazione. Givone lascia intendere come per lui Leopardi stesso consideri il nulla non stante «al culmine o alla fine di una parabola di consumazione», bensì come ciò in cui l’essere è convertito fin dall’inizio. Questa viene presentata come uno dei migliori argomenti a favore della meontologia o ontologia del nulla. Ma questo riconoscimento della volontà di Leopardi di non negare il fondamento non è sufficiente per illustrare la posizione di Givone, originale anche nei confronti degli altri autori sopra citati (Caracciolo e Vossler). La terza critica a Severino può dare ragione di tale originalità: riguarda il non annientamento delle cose da parte del nulla, ma il fatto che esse risultano dal nulla poste in evidenza in tutta la loro enigmaticità. Secondo Givone il pensiero di Leopardi si rapporta alla verità del nulla in modo estetico: la verità è libertà, perché libera fornendo all’uomo un’«autentica esperienza di libertà» attuando uno “sfondamento” di quello che può essere inteso come il presupposto che dovrebbe, secondo necessità, governare la realtà ossia il principio di ragione, inteso come ratio che tutto spiega ma che «tutto annichilisce». Per Givone in Leopardi la verità non si oppone all’illusione come nel nichilismo, ma ha luogo nell’illusione e nella menzogna. Si tratta di un platonismo eccentrico, di una meontologia, o ontologia del nulla, che privilegia la dimensione estetica del nulla. È ultranichilista nella sua volontà di superare il nichilismo all’interno del nichilismo stesso, fornendo una diversa visione dell’alternativa interna ad esso che contrappone mondo vero e mondo falso: la poesia e l’arte si presentano come «consolazione metafisica», da condannare per il loro carattere illusionistico, e da salvare per lo stesso motivo della loro condanna. Givone, dunque, in questo senso asserisce che la tradizione del neoplatonismo a cui far assurgere il pensiero di Leopardi non è quella mistica, ma quella estetica: «l’accento cade sull’essere che è lasciato essere piuttosto che sull’essere che è al di là dell’essere. Cade sull’incanto e sull’enigma di un puro e libero star lì, piuttosto che sulla certezza, sul possesso, sulla piena soddisfazione. Ed esige uno sguardo che non chiede perché, o se lo chiede, è per far risuonare l’inoggettivabile, il non afferrabile dalla risposta». Il ruolo del nulla in merito a tale arcano enigmatico è quello di salvaguardare l’”essere come sono” proprio delle cose: «fragili, effimere, mortali» esse permangono proprio per questo nella loro dignità di «essere amate nella loro realtà sospesa tra una doppia negazione». Secondo Givone nel pensiero di Leopardi la verità è la libertà propria dell’Uno o nulla, la possibilità di manifestare la sua potenza indifferentemente negli opposti, la libertà dell’essere principio. È l’«arcano che il principio di ragione non può mai sciogliere e perciò suscita orrore e meraviglia, spavento e stupore, angoscia e incanto». Ed il ruolo di conciliatrice della realtà con la verità spetta alla poesia. L’Infinito di Leopardi assume spesso, tra i canti, il ruolo di somma espressione poetica di quel concetto di infinito che in molteplici passi dello Zibaldone, e non solo, trova la sua corrispettiva espressione in prosa. In questi testi non poetici Leopardi sostiene che l’infinito «è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia è un’idea, un sogno, non una realtà, pare che solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, possa essere senza limiti, e che l’infinito venga in sostanza a esser lo stesso che il nulla». Perciò, anche se per definirlo l’autore fa riferimento alla limitatezza dell’individuo, alla sua immaginazione, l’infinito stesso appare di fatto avere un legame con il nulla, a prescindere dal singolo che lo concepisce, ma per propria fattezza, per così dire, ontologica. Si rivela dunque interessante osservare come alcuni critici di Leopardi abbiano saputo cogliere il rapporto tra il nulla e l’infinito all’interno di questo componimento poetico che per eccellenza è dedicato al tema, e che come tale si dimostra essere una sorta di definitiva consacrazione della concettualizzazione di questo legame. In particolare si vedano le opere di Massimo Cacciari dedicate a Leopardi e un saggio di Cesare Luporini intitolato Assiologia e ontologia nel nichilismo di Leopardi, scritto qualche decennio dopo rispetto al saggio Leopardi progressivo. In esso Luporini considera il tratto assiologico-emozionale del nichilismo leopardiano. Il fallimento della capacità immaginativa e della facoltà intellettiva nel cogliere il nulla si deve al fatto che la rivelazione di esso avviene in termini emozionali, attraverso la noia e il tedio, autonomamente rispetto alla ragione. Secondo Luporini, in Leopardi «la realizzazione di siffatta possibilità strutturale» delle facoltà umane di immaginazione, intelletto - o ragione - e sentimento 84 affiora per la prima volta proprio in forma poetica in un canto come l’Infinito, che esprime attraverso la dolcezza finale del naufragare leopardiano in quel «mare», proprio quella sconfitta dell’intelletto e dell’immaginazione di fronte al coglimento del nulla. Se si conosce il nulla è solo grazie alla facoltà propria dell’uomo di sentire. Se il pensiero «annega» nell’infinito, per esso indominabile così come per l’immaginazione, così non fa il sentimento, che naufraga con dolcezza all’interno di esso. La dolcezza estatica non è espressione di misticismo, ma di un atto emotivo-assiologico. Di tale atto, sempre secondo Luporini, si impregna anche il nichilismo di Leopardi, che fa del disvalore emozionalmente percepito un’assiologia. Secondo Luporini il nichilismo di Leopardi deriva dal suo «sentirsi negato e cancellato dalle cose e dal mondo». In sostanza il nichilismo assiologico di Leopardi è, secondo Luporini, frutto del suo materialismo. Secondo le tesi di questo saggio sono venuti definitivamente meno, in questa fase del pensiero di Leopardi, il senso della vitalità, del valore della vita, a favore del sopravanzare del «senso della morte» presente in molti passaggi dello Zibaldone e delle Operette morali. In quanto antagonista del vitalismo, il senso della morte, appunto, si presenta come «senso del nulla totale», «vanità, o nullità di valore, di ogni esistente in quanto esistente». La conseguenza di questo è stata la smentita della «compattezza e coesione finalistica» propria della precedente concezione leopardiana della natura. Questa prospettiva è, per Luporini, la prima delle due concezioni della natura di Leopardi, e si presenta come il nucleo della lettura data alla produzione del poeta di Recanati, all’interno del testo di Luporini Leopardi progressivo. In realtà, qualora si voglia dare un respiro cronologico ai passi che vengono presi in considerazione da Luporini nel saggio dell’88, va sottolineato come Zib. 85 sia, come la numerazione stessa della pagina zibaldoniana indica chiaramente, un passo risalente proprio agli anni di stesura dell’Infinito, quindi certo non facente parte di quella fase in cui Luporini sostiene avvenire il solidificarsi della visione non più vitalistica della natura. Anche qualora si voglia confermare la suddivisione della concezione della natura leopardiana in diverse fasi di sviluppo, non si può affermare che questo passo faccia parte della fase di declino del vitalismo, ma se la percezione del senso del nulla è correttamente letta da Luporini come atto assiologico-emozionale, si deve cogliere in questo non tanto un’espressione anticipatrice della critica alla prima concezione della natura vitale, quanto un sintomo già piuttosto chiaro dell’importanza della meontologia di Leopardi, e si dimostrerà in che senso questa ontologia del nulla abbia influito sul suo modo di intendere il legame tra la vita attiva e il nulla. I versi dell’Infinito presi in considerazione all’interno del saggio intitolato Leopardi platonicus? scritto da Massimo Cacciari sono quelli che illustrano il naufragio del poeta nel mare dell’immensità, e la dolcezza sentita di questo naufragare. L’attenzione di Cacciari è rivolta alla descrizione del particolare tipo di platonismo che all’interprete è dato di riconoscere nelle pagine leopardiane: secondo Cacciari, Leopardi si accosta alle idee platoniche con la volontà di tenere ben saldi quei presupposti del suo pensiero materialista che lo avevano condotto alla negazione radicale di «ogni teleologismo, di ogni provvidenzialismo, di ogni retorica esaltazione della “dignità dell’uomo”». Leopardi è portavoce di un platonismo «duro, disincantato, affatto scevro da tutti quegli elementi dialetticoconciliativi che ne avevano pesantemente segnato la tradizione». Anche nei versi del famoso naufragio dell’Infinito, secondo Cacciari, un tale platonismo, spogliato dalla tradizione dialettica, tornato alla radice del suo rapporto con l’assoluto, conduce alla possibile comprensione della risposta alla seguente domanda: «ciò che criticamente reagisce al senso immanentistico- materialistico dominante nel procedere della ragione, può essere semplicemente la dimensione del “giovanile error”?». Con l’introduzione del problema del «procedere della ragione» Cacciari desidera fare affiorare la leopardiana concezione delle idee platoniche, chiarendo cosa Leopardi intenda più profondamente indicare con l’espressione «caro immaginar». Leopardi, secondo Cacciari, oppone l’immaginazione dell’«età fiorita» alla ragione, sulla base di uno scontro che però appare molto meno duro del contrasto tra quest’ultima e il pensiero, soprattutto sul piano della riflessione leopardiana sulle idee. La delicata analisi di Cacciari si contrappone implicitamente all’analisi delle facoltà umane fatta da Luporini nel saggio sopra analizzato, facendo emergere una ragione che non è pensiero, che si manifesta come «ratio calcolante», pretendente esclusività e totalità di dominio sul sapere, insaziabile volto dell’idea del nichilismo. Ma fa soprattutto affiorare il carattere di un pensiero che naufraga dolcemente nel mare dei «sovrumani silenzi» e della «profondissima quiete», leopardiane espressioni del nulla: l’«incanto che pensa» di Leopardi, «più resistente al procedere del vero effettuale di tutti gli altri “incanti dell’età più bella”» consente la salvezza rispetto alla pretesa insaziabile della ragione, che opera in modo tale che «discoprendo/ solo il nulla s’accresce». Perciò Cacciari risponde all’interrogazione su ciò che si oppone al senso immanentistico-materialistico della ragione: in Leopardi è il pensiero stesso ad essere soggetto antagonista in questa lotta. Il pensiero permette di osservare il mondo non riconoscendone l’intrinseca aporia costitutiva. In questo senso salva dal nichilismo della ragione che scoprendo accresce il nulla. Per Cacciari una volta distrutto l’oggetto del pensiero, ossia l’idea nel senso platonico, con tutto il suo carico di illusione, viene meno nell’uomo la capacità di stare, il momento dell’«en-ergheia», la possibilità di essere illusoriamente felice, perché l’individuo stesso è destinato all’insaziabile desiderio di sapere e scoprire. Il problema dell’azione può dirsi collegato a questa lettura del platonismo di Leopardi? Solo se ci si sofferma per un ulteriore approfondimento sul tema del pensiero.
Cacciari si occupa, tra gli altri, del problema dell’azione e del vivere occupato in un altro saggio sul Leopardi: Solitudine ospitale. Il solitario leopardiano è «sempre insieme al ricordo, incapace di oblio». Ma la sua solitudine, oltre ad ospitare il ricordo, è anche accogliente rispetto all’immaginazione: «continuo è il travaglio dell’immaginazione, che affligge il solitario». Tutto ciò è un «tormento» che è accompagnato anche dal pensare. La ragione della negatività del pensare, immaginare e ricordare del solitario sta tutta in questo: «nella solitudine raggiungiamo piena consapevolezza della nostra impossibilità di disperare», ossia si tratta di una solitudine priva di illusione, che immagina, ma tale immaginazione non permette l’oblio della «miseria e vanità del tutto». Secondo la lettura che Cacciari offre di Leopardi «l’”occupato”, che dimentica l’immaginare, per il quale l’immaginare è niente, potrebbe disperare e far dunque tacere la cura della speranza». Perciò colui che da solitario è anche inoccupato sa di non poter disperare, mentre l’occupato può disperare, perché dimentica di immaginare. Se l’occupazione viene letta in modo positivo rispetto alla possibilità di acquietare la speranza, l’accezione data all’immaginare è invece negativa in questo senso. Le idee di Leopardi sulla vita occupata non sono lette da Cacciari con riferimento alla possibilità che l’attività aumenti la speranza, ma l’esatto contrario: essa rende capaci di perdere la speranza, e quindi capaci di disperare. Ciò che al solitario, non occupato, non è dato, è invece tale disperazione. Per concludere: secondo Cacciari, in Leopardi, ragione, pensiero e azione sono tre dimensioni che si contendono l’individuo, ognuna delle quali gioca un ruolo diverso nei confronti dell’illusione. Se il pensiero si presenta come salvezza dal nichilismo della ragione, l’azione è salvezza dalla solitudine del pensiero. Ma in entrambi i casi l’illusione si conserva nella forza di quel «caro immaginar» che non sembra celare soltanto le illusioni del fanciullo o la favola dell’antico, ma che si fa facoltà creatrice dell’idea, secondo il mito di un «platonismo nuovissimo e disperato». Si deve tenere presente, per il momento, un ultimo lavoro, l’unico forse esplicitamente dedicato al problema della vita attiva in Leopardi, che fu scritto nel 1988 da Antimo Negri: Leopardi e i giorni del “lavoro usato”. Nel saggio dell’88 Negri si occupa del tema del “lavoro usato”, ponendo in evidenza non soltanto quasi tutti i frammenti delle opere di Leopardi in cui il tema della vita attiva e occupata in senso materiale viene trattato, ma lasciando aperto in finale di trattazione un aspetto che per la presente servirà da punto di partenza del ragionamento: gli «scritti in favore dell’attività» «hanno una motivazione che non è affatto quella che soggiace ad una valutazione del lavoro suggerita da preoccupazioni di ordine unicamente o prevalentemente politico, sociale ed economico». Il lavoro «usato» del v. 41 de’ Il Sabato del villaggio (e di molti altri passi dell’opera di Leopardi di cui si avrà modo di parlare nel prosieguo della trattazione) è inteso da Leopardi, secondo Negri, in senso aneconomico e apolitico, perché va inteso nel significato di «occupazione esterna» e come aderente al tema della «distrazione». Leopardi, secondo Negri, scorge «un margine “civile” contro la noia intesa come “mancamento e voto”» e problematizza il lavoro «all’interno di una meditazione di respiro metafisico che investe l’uomo nel suo destino esistenziale» e come «mezzo più efficace non tanto per guadagnare una felicità di fatto irraggiungibile quanto piuttosto per godere della maggior felicità possibile o meglio, forse, della minore infelicità possibile». Negri sostiene, in sintesi, che non ci si deve sentire esonerati dal considerare in senso critico «il senso più profondo dell’”invidia” che Leopardi nutre verso» gli animali, ma anche verso quegli uomini che sono attivi o occupati. Per Negri «il “Leopardi progressivo” non è tutto Leopardi». E questa conclusione, che dal tema di questi oggetti di invidia leopardiani apre a ulteriori approfondimenti in termini metafisici, è quanto da ora in poi ci interesserà approfondire.
*
GIOVANNI CARDONE