"L'INCONTRO TRA PIER PAOLO PASOLINI E EZRA POUND" ---- Giovanni Cardone --
In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Pasolini e l’incontro con Ezra Pound apro il mio saggio dicendo : Pier Paolo Pasolini uno dei più grandi intellettuali del nostro tempo il suo pensiero ancora attuale, nel festeggiare i cento anni dalla nascita e nel ricordare questo grande Poeta, volevo evidenziare attraverso una mia ricerca storiografica e scientifica la sua figura apro questo saggio dicendo: La complessa e articolata vicenda artistica e intellettuale di Pier Paolo Pasolini, l’ossessione per l’esprimere e l’esprimersi si pone come forza trainante della sua magmatica produzione, che spazia dalla poesia dialettale alla narrativa, dalla scrittura critica e giornalistica alle sceneggiature teatrali e cinematografiche, dalla pittura alla canzone, dagli interventi radiofonici e televisivi alla grande avventura del cinema. Per lo scrittore, infatti, il linguaggio rappresenta al contempo un elemento di estrema privatezza, che gli consente di instaurare un contatto immediato con le proprie diverse dimensioni di appartenenza, e un veicolo, eminentemente sociale, in grado di superare l’autoreferenzialità per farsi strumento d’azione nel mondo e sul mondo. La ricerca linguistica pasoliniana si inscrive allora in una più ampia concezione dell’esperienza artistica come forma di azione, inscindibile quindi dalla figura dell’autore, che in quanto tale entra a far parte, con ogni suo gesto, parola, presa di posizione, manifestazione pubblica, della totalità della propria opera. La sperimentazione linguistica incarna quindi una condizione necessaria di esistenza, in quanto riflette e al contempo garantisce il suo grado di partecipazione alla realtà circostante: allora, il suo furore comunicativo, al contempo gioioso e tormentato, non può evidentemente essere soddisfatto solo dal patrimonio espressivo del linguaggio verbale, nel quale egli scorge anzi il pericolo dell’impoverimento semantico, ovvero di un graduale scollamento dalla realtà delle cose, che egli rifugge volgendosi a una molteplicità di codici linguistici differenti, nell’ansiosa ricerca di strumenti comunicativi il più possibile autentici e trasparenti. Per tutta la sua vita, Pasolini vive in effetti una sorta di «sofferenza del linguaggio» dovuta alla reciproca estraneità dei differenti codici, i cui confini gli appaiono come barriere rispetto “alla cattura di una presunta realtà immanente» al di fuori di essi: è per questo che egli «non si è mai lasciato andare veramente e sino alle estreme conseguenze alla specificità dei vari linguaggi via via adottati e poi accantonati, per poi essere recuperati, mescidati, contaminati con altri”. In effetti, la pulsione del poeta verso l’universo linguistico incarna l’urgenza esistenziale del doversi esprimere per sopravvivere, il che richiama alla mente la concezione wittgensteiniana del linguaggio come «parte di un’attività, o di una forma di vita» e davvero, per Pasolini, i differenti linguaggi costituiscono altrettante forme di rapportarsi agli altri e al mondo, oltre che di entrare in connessione profonda con i diversi aspetti della propria identità. Il dialetto rappresenta in questo senso sicuramente uno strumento d’elezione, capace di suscitare nel poeta echi profondissimi, riconducendolo al Friuli della sua prima giovinezza e quindi a un’età in cui gioia, purezza, tormento e desiderio erano in lui ancora vivissimi e indistinti: nella visione pasoliniana, il dialetto coincide infatti con l’intero paesaggio naturale e umano delle campagne friulane, configurandosi come lingua dei desideri, della memoria e, soprattutto, come lingua per la poesia, una lingua «che più non si sa» e in cui egli invece scorge la straordinaria capacità di restituire alla Parola il suo potere primigenio, quello di ‘agganciare il mondo’ e contenerlo in sé. Così, non solo egli sceglie di conferire dignità letteraria al dialetto materno di Casarsa, privo di tradizione scritta, utilizzandolo per la sua prima raccolta poetica nel 1942, ma indaga e impiega il romanesco per i suoi romanzi degli anni Cinquanta, dedica numerosi articoli e saggi critici alla riflessione sul ruolo e l’importanza del dialetto fino all’ultimo intervento, a pochi giorni dalla morte, dedicato appunto al ‘volgar’eloquio’, e si impegna con passione e acribia filologica nella riscoperta sia delle opere, misconosciute, dei poeti dialettali novecenteschi, che dei canti popolari tradizionali.
La lingua italiana, d’altro canto, agisce sullo scrittore come un irresistibile fulcro di riflessioni tanto stimolanti quanto problematiche, che vanno dalle considerazioni in merito alla consunzione della lingua letteraria, esprimibile dato anche le vicende storiche succedute, fino alla celebre denuncia nel saggio Nuove questioni linguistiche del 1964 della drammatica assenza di una lingua nazionale in Italia, cui fanno seguito il proclama dell’imminente avvento di una neo-lingua tecnologica e antiespressiva e i vari tentativi, teorici e narrativi, di individuare e sperimentare nuovi ambiti e nuovi usi dell’italiano, per giungere infine agli angosciati appelli degli ultimi anni in merito alla progressiva trasformazione della lingua italiana in uno strumento asservito al Potere borghese, e pertanto degradato, vacuo e menzognero. Parallelamente agli articolati sviluppi della riflessione pasoliniana sulle condizioni e le sorti della lingua italiana, lo scrittore non manca di sperimentarne le differenti varietà: non solo l’italiano colto e letterario, dunque, ma anche differenti linguaggi settoriali, come l’italiano scientifico dei suoi scritti critici, il linguaggio giudiziario si veda il volume Cronaca giudiziaria, persecuzione e morte: «in un paese orribilmente sporco e quello politico-ideologico da intellettuale impegnato, l’italiano giornalistico e quello delle sceneggiature teatrali e cinematografiche, oltre ai registri più bassi dell’italiano informale-trascurato e gergale, cui Pasolini, a partire dagli anni Cinquanta, si interessa particolarmente. Quest’ampia gamma di usi del linguaggio verbale non sembra però soddisfare la frenesia espressiva di Pasolini, che lavora con molti altri materiali diversi, da quelli grafico-pittorici ama disegnare e dipingere alla musica scrive versi che poi diverranno canzoni grazie a maestri quali Ennio Morricone o Piero Piccioni, e saranno interpretati da personaggi del calibro di Domenico Modugno e Sergio Endrigo, fino a quel grande «amalgama di linguaggi eterogenei» che dà vita e sostanza all’universo cinematografico. Il cinema rappresenta in effetti per Pasolini un’esperienza teorica e sperimentale particolarmente significativa, in grado di attrarre a lungo il suo interesse semiologico, dando origine a un’importante serie di riflessioni ispirate alla sua visione del cinema come «lingua scritta della Realtà» , o lingua scritta dell’azione, moderna proiezione del «primo e principale dei linguaggi umani», ovvero “l’azione stessa: in quanto rapporto di reciproca rappresentazione con gli altri e con la realtà fisica” . Egli scorge infatti nella realtà «che è sempre azione» la fisionomia di un vero e proprio linguaggio, in cui gli oggetti sono segni di se stessi, non certo scritti-parlati, ma “iconico-viventi, che rimandano a se stessi» di questo Linguaggio della Realtà, allora, le lingue verbali ‘scritto-parlate’ non sarebbero che un’integrazione, o meglio, delle «traduzioni per evocazione», mentre il cinema ne costituirebbe «il momento “scritto” , in quanto sarebbe in grado di riprodurre meccanicamente tale lingua, dotandola al contempo di una funzione estetico/espressiva. Secondo il regista, allora, «oltre a essere la lingua scritta di questo pragma, il cinema «è forse anche la sua salvezza, appunto perché lo esprime e lo esprime dal suo stesso interno: producendosi da esso e riproducendolo» di qui, la scelta del cinema come strumento d’elezione per una rappresentazione autentica all’immediatezza dell’esistere, che solo attraverso questo linguaggio è possibile, finalmente, trasformare in arte. Così, attraverso questo peculiare strumento comunicativo, l’esperienza artistica non è svincolata dal contatto con il reale, e può anzi realizzare l’eterna utopia pasoliniana di una forma espressiva che sia anche, e soprattutto, un mezzo di intervento nella vita sociale. Ecco quindi che nel cinema si sublima l’ideale pasoliniano dell’espressione come forma di vita, cioè presenza attiva nella realtà; Pasolini sa bene che il cinema non è solo un mezzo di riproduzione del reale, ma è anche, e soprattutto, un mezzo di espressione della propria soggettività più volte parla del ‘cinema di poesia’, inteso come possibilità di svincolarsi dalle tradizionali norme cinematografiche per attingere ai sotterranei aspetti onirici, barbari, irregolari, aggressivi, visionari, arricchendo quindi la lingua del cinema delle caratteristiche «irregolari» proprie di uno stile personale, ma ciò che scorge in questo strumento è soprattutto la possibilità di interagire direttamente con la realtà, ‘inseguendone la sacralità’ e rappresentandola in forma mitica, come manifestazione di energia vitale. Nell’ottica pasoliniana, infatti, è proprio grazie all’accumulo e al reciproco scambio tra linguaggi eterogenei come appunto avviene nel cinema che si può sperare in una rappresentazione sufficientemente complessa, vitale e dinamica della realtà, perché solo «la complessiva interazione tra linguaggi diversi, come nella realtà, garantisce la massima continuità fra la realtà e le sue rappresentazioni.» Questa volontà di «dizione totale della realtà» si realizza in Pasolini come “interscambio, contaminazione e fusione dei generi e dei linguaggi tradizionalmente e rigidamente separati” egli, infatti, non si limita a portare avanti una serrata ed appassionata sperimentazione multimediale, ma oltrepassa ogni confine fra linguaggi e materiali, trasgredisce le loro normali condizioni di utilizzo, le norme e i limiti, e già col giustapporli in tal numero li trasforma, li violenta. Allora, la sua smania comunicativa onnivora e insaziabile, connotata dalla giustapposizione di stili, generi e finalità espressive, dilata all’infinito gli universi del discorso, oppure esonda fino ad attribuire alla parola artistica finalità pratiche, come in una straordinaria performance di cui i testi costituiscono in fondo solo un residuo; così, l’arte di Pasolini finisce per identificarsi con la «disperata vitalità» della sua intera vicenda biografica, in un cortocircuito che ben esemplifica la sua acuta consapevolezza del «senso profondamente vitale e culturale delle scelte linguistiche». La bruciante volontà di esserci, di comunicare, che «fa del linguaggio il centro vitale e propulsore della sua sperimentazione multimediale» , di ogni sua opera artistica, dei suoi saggi critici e degli interventi giornalistici, è infatti la stessa che anima le sue scelte private, umane e civili: riprendendo una bel pensiero di Tullio De Mauro che, a proposito di Pasolini, cita Rilke e la sua formula ‘Gesang ist Dasein’ , nel caso dello scrittore-poeta-regista, si può certamente affermare che, per lui, esprimersi è esistere, nel duplice senso di una vita vissuta sempre sulla scena, fino a diventare parte integrante della propria arte, e di una voce che, con il suo canto, ma anche con le orazioni, i lamenti, le battaglie, coincide con la ragione stessa del proprio esistere. In un intervento, rapido e folgorante, apparso sul “Tempo” del 5 aprile 1974, Pasolini si confrontava per un finale sguardo critico con l’opera e il pensiero di Ezra Pound, in particolare con i Cantos CX-CXVII, traendone spunto anche per una definizione, a suo modo consuntiva, del fascismo del poeta americano e delle ragioni che ne avevano determinato la scelta. L’argomento era delicato e incandescente, dentro la stagione italiana degli anni Settanta infiammata dalle contrapposizioni ideologiche. Ma per Pasolini si trattava di conciliare e giustificare l’ammirazione per le “incantevoli ecolalie” del poeta , fonti anche di lettura “inebriante” così scriveva in un altro appunto del 1973, sempre apparso sul “Tempo” e di poco precedente , con il rigetto per l’orientamento dell’ideologo ammiratore di Mussolini, e infatti stigmatizzato altrove e in più occasioni come artefice di un delirio farneticante, quando non francamente segnato dalla follia.Poteva dunque fiorire il prodigio linguistico di una poesia coltissima, vertiginosa e contaminata di oralità anche sul terreno avversario della destra reazionaria? Fin qui il dilemma. Ma Pasolini trovò una risposta, mettendo in campo la sfida del suo pensiero, sempre inappartenente e liberamente disorganico. Si spinse anzi fino a rintracciare provocatori ma mai equivoci fili di parentela tra sé e quella sorta di monumentale e ingombrante padre statunitense. Pound, dunque, aveva potuto lanciare la sua tumultuosa “chiacchiera al cosmo” in conseguenza e in virtù di una traumatica scoperta, che, molto in anticipo sull’Europa, l’aveva reso “inadattabile a questo mondo” e isolato in un altrove di esule visionario. “Con abnorme precocità”, il Pound cantore dei pionieri di frontiera aveva compreso cioè l’inconciliabilità tra il mondo contadino e il mondo industriale, quasi fossero competitori di una sorta di lotta epocale per la sopravvivenza. “L’esistenza dell’uno – commentava Pasolini- vuole dire la morte (la scomparsa) dell’altro”. Quella tragedia storica, intuita da Pound già sul suolo degli States ma verificata poi in Europa, poteva dunque con legittimità fondante porsi alla radice, più o meno consapevole, di un pensiero e di una scrittura proiettati all’indietro e tesi alla venerazione di un mitico passato rurale delle origini, da contrapporre a contraggenio al presente borghese e alle sue devastanti derive capitalistiche e plutocratiche. Ed era dunque su quei presupposti che si poteva collocare l’adesione poundiana al fascismo, equivocato in motore di “progresso conservatore”, malinteso e, nella sostanza, retorico e di facciata, il quale doveva esercitare “uno strano fascino nell’astoricistico Pound, che lo accepiva in modo del tutto aberrante, ma non senza logica” . Diverso, come è ovvio, e altrettanto inequivocabile, era invece il discorso su quanti si erano poi voluti appropriare dell’autore e della sua opera, per ragioni interessate di furbizia tattica. Ai suoi vampiri di destra, per Pasolini, questo Pound continuava ad opporre lo schermo della sua “altissima cultura”, capace di preservarlo “da una strumentalizzazione sfacciata”. “Il serpentaccio fascista – scriveva con immagine biblica- non ha potuto ingoiare questo spropositato agnello pasquale”.Dato dunque a Cesare quel che è di Cesare e piantati i paletti utili a marcare i necessari confini, a metà degli anni Settanta Pasolini regolò i conti con la complessità controversa di quel colosso della poesia del ‘900, finendo per sovrapporvi la propria fisionomia di intellettuale corsaro e per leggervi in filigrana il motivo condiviso di una comune polemica radicale contro la modernità, responsabile di sviluppo senza progresso e, negli esiti ultimi, di un (irreversibile?) genocidio culturale. In questa convergenza, Pasolini corroborava con altre esplorazioni e superava la settorialità della sua precedente attenzione critica al Pound poeta, di cui infatti aveva isolato la sola esperienza letteraria, e non sempre con afflato di empatia. E’ dalla fine degli anni Cinquanta, con l’esperienza di “Officina”, che il nome di Pound occhieggia tra le parole del Pasolini studioso e recensore in sporadiche e brevi incursioni, che genericamente lo ghettizzano nei recinti del neo-sperimentalismo e della neo-avanguardia, con sottesa sottovalutazione. Apertamente limitativo, in un inedito del 1965, è anche il dantismo di Pound, in quanto fabbro da “laboratorio” che tende a sottoporre il significato di ogni opera di riferimento a “violentazioni addirittura sadiche”: nel caso del poeta della Divina Commedia, poi, con un “uso del tutto arbitrario ed estetizzante”. Insomma, con finale stilettata, per il Pasolini ancora refrattario o non del tutto disponibile, il Dante di Pound è “esattamente come un ebreo nelle mani di Hitler”. Il complesso itinerario pasoliniano di avvicinamento a Pound, in vista di un possibile dialogo, è dunque lungo, conosce una sua evoluzione interna, si articola in un ventaglio sfrangiato di passaggi concettuali e di riverberi testuali. Ma piace ipotizzare che un momento decisivo di svolta sia stato fornito dall’incontro diretto tra i due che avvenne a Venezia sul finire dell’ottobre 1967, con l’occasione delle riprese per una intervista televisiva del più giovane poeta, allora di 45 anni, al vecchio e stanco patriarca statunitense, all’epoca di 82 anni. L’idea era venuta al regista-scrittore Vanni Ronsisvalle, che da parecchi mesi di quell’anno stava lavorando ad un documentario-focus su Pound, ormai autorecluso in un emblematico silenzio nelle sue due residenze italiane, in Liguria e, appunto, nella città lagunare, in Calle Querina. Si era trattato di vincere anche la preconcetta ostilità di Olga Rudge, timorosa che il marito Ezra potesse essere messo sulla graticola o fosse mandato al macello ideologico dal poeta italiano, ormai regista affermato e soprattutto così difforme per scelte di vita . Nulla di tutto questo, invece, si verificò e l’incontro-scontro tra il diavolo e l’acqua santa, paventato alla vigilia, si incanalò piuttosto nei morbidi binari di un gentlemen agreement improntato al reciproco rispetto e ad una insospettabile empatia umana.Lo stesso Pasolini, avvertito dell’incontro solo tre giorni prima e pur di non mancare a quella occasione a suo modo storica, accettò anche le condizioni-capestro poste dallo stesso Pound, che aveva preteso la visione di domande scritte, a cui poi egli avrebbe risposto in seconda battuta. Così appunto avvenne, nei retroscena di una conversazione i cui dettagli sono stati rivelati e chiariti da Ronsisvalle nel 1985. Pasolini, arrivato con l’amato treno da Roma, si presentò nella abitazione di Pound con le sue quattro paginette di appunti, che –ricorda Ronsisvalle- “recitò disciplinatamente”, seduto alla destra del vecchio poeta e intento con intermittenza a schizzare qualche ritratto di lui su dei fogli bianchi. In seguito, Pound fornì con calma le sue ponderate risposte, poi cucite al montaggio nel documentario finale di un’ora che, con la voce pastosa di Arnoldo Foà a leggere i versi poundiani, fu trasmesso dalla Rai nel giugno 1968 all’interno della rubrica “Incontri” di Gastone Favero. Tra l’altro, fu un esempio memorabile di televisione alternativa, poi non più imitata nel degradato intrattenimento permanente del piccolo schermo, di lì a poco commerciale. Fu Pasolini, in apertura, a dichiarare la resa delle armi e la ricerca del dialogo, personalizzando per questo il primo verso della poesia poundiana Patto e sostituendo il nome dello stesso Ezra a quello originario di Walt Whitman.. La risposta di Pound non si fece attendere, quanto alla condivisione di un analogo spirito di disponibilità: “Bene … -disse- Amici, allora … Pax tibi”. Avviata da queste premesse -di ascolto assorto, per il vecchio patriarca; di riverenza mite e visibilmente emozionata, per il più giovane sodale in versi-, non scattò dunque alcuna polemica e anzi lo scambio di parole e sguardi si dipanò nei modi pacati dell’incontro pensoso, come per un passaggio di testimone ideale tra generazioni poetiche pur diversamente atteggiate, da un vecchio di severo aspetto, quasi biblico, ad un erede contemporaneo e, lui pure, non conforme. Singolari, talora, furono anche le consonanze, sollecitate dagli spunti di riflessione suggeriti da Pasolini o dalla sua lettura di poesie poundiane, come nel caso di alcuni versi da Testamento spirituale, e dell’invito in essi contenuto a deporre la “vanità” e a considerare l’”amore” come sola e vera eredità umana. Solidali nel deprecare il saccheggio del paesaggio italiano, impegnati a indagare i valori della poesia e la sua moderna condizione da neo-sperimentalismo linguistico, ovattati in una sorta di rarefatto ed esclusivo cenacolo, i due non mancarono di divergere su una parola carica di senso, usata da Pasolini per instaurare un collegamento logico tra lo stato delle “nazioni industrializzate” e la conseguenza del loro essere “quindi culturalmente avanzate”. Proprio su quel “quindi” Pound ebbe da eccepire, quasi anticipando l’imminente pensiero apocalittico di Pasolini che di lì a poco infatti un “quindi” con quel senso non lo avrebbe usato più . Evidentemente, per i rapporti con Pound, quell’intervista rappresentò un giro di boa e forse Pasolini vi investì anche una sua personale ricerca del padre, recuperato in quei tardi anni Sessanta anche nella riconciliazione con il padre reale e nel bilancio retrospettivo di un tormentato rapporto personale e familiare.Ed è coincidenza, solo apparentemente singolare, quanto avvenne otto anni più tardi, il 21 ottobre 1975, con l’ultimo discorso pubblico di Pasolini pronunciato al Liceo Palmieri di Lecce e noto come Volgar’eloquio, che tra l’altro è espressione poundiana. Lì il rapporto padre-figlio, fondatore-erede appare invertito e ora è Pasolini a sentirsi e autodefinirsi in versi un “anziano” che consegna ad un “ragazzo” un suo decalogo vagamente testamentario di dieci comandamenti rifatti e mutuati dai Cantos. “Hic desinit cantus”, in un congedo definitivo nel nome di un Pound quasi nume tutelare e perfino con elogio depistante della “Destra sublime”. Ma è una Destra da proiezione mentale, utopia “completamente idealizzata”di forza vitale del Passato, su cui la destra storicamente reale non ha punti possibili di contatto, né diritto alcuno di appannaggio. La mostra racconta quindi l’omaggio che Pasolini tributa al poeta (addirittura presentandosi come un figlio che si riconcilia con il padre) dopo anni di rifiuto e ostilità, presentando anche una selezione di documenti storici, articoli di giornali e libri che contestualizzano l’evoluzione del rapporto tra Pasolini e Pound e ripercorrono una storia di devozioni, dubbi, perplessità, considerazioni sul ruolo della poesia e il disastro delle idee. Tra i documenti eccezionali e inediti in mostra, una lettera di Ezra Pound del 1959 indirizzata a Giorgio Almirante contenente una “presa di posizione” e un “Programma alla ricerca di un partito”. Alle narrazioni che emergono dai numerosi materiali d’archivio si aggiungono gli interventi di Allison Grimaldi Donahue, Olaf Nicolai e Luca Vitone, tre autori contemporanei invitati a dare la loro lettura di quanto è avvenuto e a indagare gli echi e le risonanze del pensiero di questi due protagonisti controversi del Novecento letterario, nel solco dei culti sotterranei di fedeltà alla poesia che lo hanno attraversato.
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GIOVANNI CARDONE