ROCCO SALERNO - "Nonostante questo" - Ed. Macabor - 2019 - pagg.62 - € 12,00 -
Ogni valido tentativo ha sempre il suo prezzo. Per essere valido il tentativo deve possedere nel suo carico un bagaglio culturale di tutto rispetto, incuneato qua e là nei passi lenti della ricerca o nel messaggio che la scrittura cerca di offrire, ed il prezzo varia a seconda dei luoghi e delle aperture nei quali tenta di spaziare, nei passi attenti della mente che si incontrano e si scontrano nell’imponderabile mistero della finitudine. Anche l’equilibrio della mente oscilla tra la capacità di chiedere il perché del dubbio e la imprevista scansione delle parole scelte per una scrittura che abbia il pregio di coniugare il desiderio e la realizzazione del dettato.
Rocco Salerno indaga con acuta illuminazione nelle vicissitudini umane della coppia, ricca di improvvise vicissitudini nell’atto stesso della vita quotidiana e contemporaneamente aggrovigliata nelle immagini fulminanti del tradimento. Nelle pagine che scorrono rapide, per un dettato musicalmente realizzato in ogni composizione, il suono aggraziato della voce si propone come un grido “appeso agli infissi” , quasi una visione stereotipata del suono che riesce diventando corporeo a sostenere un atto materialmente tangibile. Gli occhi si sperdono nella speranza di riaccendere un sentimento assopito , e tutto si stempera in “questa notte in cui si confondono idilli e disperazione” e per il poeta rimane soltanto “il sudario della carne” o “gli occhi appesi alla fonte dei sogni”.
Il poemetto è un delicato dialogo intorno all’amore e nell’amore si incatenano le tre figure protagoniste di questo allettante intreccio sentimentale, esploso tra le mura indiscrete del rifugio e le tentacolari ramificazioni del tradimento. Il gioco si fa duro : due uomini e una donna si abbandonano alle vertigini di passione , ammiccamenti , tradimenti , ripensamenti , affondando tra le ombre del tempo che corrode . “Io che ho cercato in ogni dove il tuo amore/ io che interi ho vissuto i tuoi giorni solo in sogni,/ io che il colore dei tuoi occhi ho bevuto goccia a goccia,/ io che solo mi trovo in questo funesto paradiso/ di ricordi, convulsioni,/ io che non ho respirato sino in fondo la mia morte/ sul tuo corpo,/ io che non ho incendiato i desideri sul golfo dei tuoi seni.” Urla da un lato colui che aspira all’amore sincero, privilegiando il tocco della voce per invocare una vera sospensione dell’attesa.
La poesia , si sottolinea , è racconto per figure e percezioni, di pensieri alti , colti, nell’esigenza di distogliere lo sguardo dalla pochezza quotidiana per rivolgerlo verso l’infinito, per configurarsi nelle metamorfosi dell’accadimento e ripetere i riflessi multicolore della meraviglia. Qui un’architettura bella, solida, protettiva e abitabile, perché drammaticamente esile nei suoi confini interni , si traduce nella penna di Rocco Salerno nel copro , nella carne palpitante, affogata nella pulsazione irrefrenabile del desiderio. La labilità del divenire materia è fantasma originario che si scioglie attraverso l’incombere del divieto , o dell’oscura conoscenza dello sconfinamento . Ma è proprio in questa labilità che si esprime la forza, la durata, la permanenza di ogni atto quotidiano che divide la propria compattezza e sconfina nel trauma della lacerazione.
Le relazioni umane nella poesia potrebbero non avere “limite” o distanza se non dovessero passare attraverso elementi esterni, robusti, insindacabili, assoluti. Elementi che al cospetto di una struttura così complessa come il sub conscio, non possono essere che miseramente umani. Un cassetto antico se aperto può svelare segreti che destrutturano ogni forma di autorevolezza umana. Ma gli oggetti no, non rischiano allo stesso modo. La struttura del verso, robusta scandita da metriche precise come vuoti e pieni in un’architettura neoclassica mantiene consolidate le distanze protettive dentro-fuori ma si sviluppa al suo interno secondo rituali che si predispongono all’incontro, alla visita sporadica, ai ritorni.
L’immagine della donna con i suoi misteri, con le segrete profondità del suo essere, si staglia in questi versi per divenire spinta di una libidine sopita nella propria compattezza interiore e nella morbida apparenza esteriore. “Ma mi sei la statua da modellare./ Mi sei cancro nonostante,/ il sogno che mi scoppiava negli occhi rossi./ Ma i tuoi occhi sciabordano/come golfo sul mio cuore.” E ancora nel sussurro : “Sulle mie mani si sono aperte tutte le albe/ coniugandomi sulla tua carne;/ tutte le margherite sono state smaltite/ attraverso le mie iridi;/ ho incendiato il mondo/ carezzando solo il tuo corpo.”
L’Io nella gratificazione della scrittura non è sospeso nell’illusione dell’incontro ma prepotentemente si manifesta nel polo catalizzatore del ridefinito, del possibile a tutti i costi, e trasforma la rappresentazione del canto quale nucleo principale di contenimento della libido.
In apertura del testo l’autore inserisce una poesia di Majakovkij quasi a voler sottolineare il coinvolgimento sentimentale di un grande poeta nella stesura di uno sceneggiato che intesse, con eleganza ed ottima interpretazione, il racconto di una infuocata relazione amorosa, intrappolata nella aspra realtà di un rapporto che dovremmo dichiarare pericoloso, tali le occasioni di contrasto fra la delicatezza della figura femminile e il vorticoso avvicendarsi delle figure maschili. Il corpo, con le sue curve anatomiche modellate dalla gioventù si manifesta come entità che volge senza tregua verso lo sfiorire , qualcosa che si palesa come entità passeggera, destinata a sparire, anche se la favola dei simboli tenta di esorcizzare la morte, con il fuoco della passione. Allora il possesso dell’anima rimane l’unico scoglio al quale riparare , nella ricerca dell’ignoto e nella rielaborazione del demone orfico. Inconsapevole ritorno alle origini la rielaborazione interiore avviene nella mente del poeta quale involontario sconfinamento nel sentimento panico, nel segno di un bisogno fisico che sappia coinvolgere anche il subconscio e divenga menestrello innamorato nella dimensione del metafisico. Alla fine di nuovo Majakovskij compare quale nume lirico tra le labbra infocate: “Ascolta il mio silenzio,/ scruta il mio sguardo incavato./ Troverai la tua stessa pace,/il tuo Siddharta./ Devo andare./ Ma tu ricordami come un sogno/ che ti scoppia negli occhi./ Anzitempo abbiamo sepolto/ ogni cosa di noi/ per troppo amore?/ Ma tu ricordami come un sogno/ che ti scoppia negli occhi./ Majakovskij pende ancora/ dalle labbra di Maria./ Nonostante.”
Costantemente in bilico tra lo straniante e l’incantato le epifanie delle persone si illuminano di quelle fascinazioni che rendono le figure tenere e nello stesso tempo accorate, testimonianza vivente dello scorrere del tempo sempre inseguendo illusioni, entro l’urgenza degli affetti che sembrano evaporare nella ossessione di un anarchico sogno. Il tu martellante in questi versi non ha nulla di misterioso , ripetuto ad ogni piè sospinto ad invocare la presenza di questa donna amata e imprendibile, agognata e sorprendente. L’alternarsi delle invocazioni la rende un idolo da venerare, anche se nella spirale dell’agguato, palesemente irragiungibile. “-Mi porterai in ogni angolo,/ ti sarò viatico?/ Io pietrificherò ovunque il tuo sguardo,/ involerò i tuoi occhi oltre gli orizzonti,/non troverai scampo se non nel mio corpo/ troppo presto profanato,/ troppo presto dimenticato./ Le mie labbra lontane saranno il tuo lago,/ le tue coppe di latte;/ non conoscerai altra alba.”
Una crescente capacità alta di scrittura avvolge questo volume di poesia, in cui il verso si armonizza con le pulsioni degli amanti, con gli slanci improvvisamente emotivi che fanno della passione un vincolo indissolubile per la necessità di vivere senza sfumature. La pienezza dell’atto amoroso ha qui il tratto dell’infinito, dell’infinito che non ha limiti e sfiora l’eternità, mentre le metafore immergono a tratti nel ritmo della meditazione e dell’inquietudine, anche se l’illusione di un’attesa lascia momenti di angosciosa solitudine: “Nacque./Nacque una velleità,/ nacquero lacrime/ da portare come viatico/ ristoro alle mie desolate giornate./ E tu non hai voluto essere ventaglio/ in giorni arsi,/ non hai voluto essere fontana.”
Il poeta conduce, solitario, la rappresentazione di un passaggio cruciale, quale può essere un rapporto amoroso, teso e conteso fra due forze puntellate alla passione, e tra parole e cose, trascrittura e immagini incarna anche la dinamica del discorso poetico, un sentiero che si apre quando la lettura diviene, come in questo caso, coinvolgente. Strutturalmente il poemetto presenta la strategia dello sdoppiamento, anzi della frantumazione delle figure, che per la crudeltà erotica sottesa si avvicendano nei dispositivi temporali che l’autore ricama, si alternano nel sussurro o nell’invocazione, si abbandonano nell’impensato che sfugge inesorabilmente. Questi brividi da cui la nostra mente è attraversata, una volta posta di fronte alle vicende narrate, mettono in moto gli opposti tremiti del preludio di un’estasi, che appare e scompare, tra verso e verso, per divenire una ininterrotta melodia di essenze, in forma di immagini rivelatrici, individuando l’essenza di segreti nascosti, capaci di un suono che coglie esemplarmente la cifra della meraviglia.
In questo suo operare Rocco Salerno scioglie la musica del verso tra l’illuminazione silente della parola scritta e la feconda mistica dell’indeterminabile.
*
ANTONIO SPAGNUOLO