martedì 31 marzo 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = GABRIELLA CINTI


Gabriella Cinti, La lingua del sorriso/ Poema da viaggio, PROMETHEUS Ed., Milano 2020, pp. 160, E. 15,00, Introduzione di Francesco Solitario
*
Leggiamo insieme questo componimento tratto dal volume poetico di Gabriella Cinti di recentissima pubblicazione, La lingua del sorriso, ed entriamo così in medias res

ENTANGLEMENT-CONGIUNZIONE QUANTICA

La vita, il ricordo breve
di quel volo, le ore
come cirri in fuga
e ritrovarsi ad accogliere il glicine
obliquo caduto in diagonale
sulle ciglia, l’accento di un sorriso
consegnato a soffi di memoria.
Maggio, raggio e assaggio
del più bello dei viaggi.
Ricomincio dalla gentilezza
di verde nascenza,
scandita da minuscoli soli,
nel vestito cremisi
delle frasi al mattino.
E insegnarti il mestiere della luce,
quando si opaca la musica
solare intorno al tuo sguardo.
Navigando il filo del mistero
ci si trova uniti a dorso,
congiunzione quantica,
nel calderone cosmico,
nell’urto dell’imprevisto celeste,
nell’entanglement che ci irreta.
La certezza di esserti accanto
- anima mia correlata a te
nel groviglio cosmico –
addestra il mio incedere
nella misura stretta
dei giorni prigionieri.
Attorniata dal tuo viso lunare,
emerso nel multiverso,
mi appaga il tuo
decollo divino di luce.
*
Fenomeno che si verifica a livello quantistico; coinvolge due o più particelle generate da uno stesso processo o che si siano trovate in interazione reciproca per un certo periodo. Tali particelle rimangono in qualche modo legate indissolubilmente (entangled), nel senso che quello che accade a una di esse si ripercuote immediatamente anche sull’altra, indipendentemente dalla distanza che le separa.

L’aspetto che si coglie in questi versi non esito a intenderlo come un’apertura dell’autrice a una sorta di «Estetica della interdisciplinarità» perché tentando di far dialogare dinamicamente la parola scientifica con la parola poetica Gabriella Cinti tesse audacemente una fitta rete di rapporti di complementarità, di integrazione, di interazione fra gli svariati frammenti dispersi qua e là, sparpagliati in tanti rivoli del contemporaneo sapere al fine di farli convergere tutti in un sapere unitario per cui discipline diverse, (scienza, fisica quantistica, letteratura, poesia, religione, mitologia) convergono in principî comuni sia nel metodo applicato alla ricerca, sia nell’ambito della costruzione teorica, per l’ottenimento di un sapere unitario che d’altra parte accoglie e valorizza la molteplicità e la varietà delle conoscenze acquisite nella storia delle civiltà e delle culture, con uno sguardo diretto al travolgente progresso del sapere scientifico e al mutamento della stessa lingua della poesia. Nel parallelismo fra particelle subatomiche entanglate e parole che tra di loro interferiscono nel suo componimento poetico Gabriella Cinti associa alla «Estetica della interdisciplinarità» la «Poetica delle interferenze», che in poesia non possono che essere «interferenze linguistiche». Apre così la sua ricerca poetica verso approdi “altri” sia ontologici, sia estetici, lasciandosi alle spalle tanto novecentismo becero di idillio, di «mini canone» minimalista, di elegia post-crepuscolare. E’ di per sé già questa una autentica novità nell’acqua stagnante di tanta “roba”, pubblicata e diffusa come “poesia contemporanea”, di truismo, di emozionalismo d’accatto, di ipertrofia di significanti, di io narcisistico e basterebbero da soli questi versi “- anima mia correlata a te/ nel groviglio cosmico –“ per suggellare la facoltà della Cinti di osare linguisticamente spostando il baricentro di questa sua poesia verso approdi fono-prosodici nuovi e verso esiti estetico-formali “altri” percorrendo l’unica strada possibile: il profondo lavoro sul logos.

Ma per Gabriella Cinti la poesia è anche un «luogo di incontro» nel senso tranströmeriano del termine, un luogo della meditazione attiva che tiene desto l’uomo nel mondo, come in questi altri versi

DA CAOS A CAOS

L’incontro era già nell’Alto,
confusi primordi dell’essere,
noi indistinti portatori di intento.
Nel momento esploso della collisione,
capiremo il senso del riconoscersi,
la fiammella dal caos al caos,
materia anima significato.
Eravamo nubi di spore vaganti
pellegrini dei sistemi solari,
intermittenza di sorrisi stellari.
Io ero un ramo del tuo pensiero,
la fronte coraggiosa della tua chimera,
i giochi dell’ombra,
l’arcano del gioco astrale.
Nel transito d’abisso,
tra le intenzioni incenerite,
si dissemina informe
la storia delle nostre pupille,
il palpito invisibile disincarnato,
la Rosa di sangue precipitata nel buio.
E ora, tra pareti d’inverno,
tra araldi di gru, alati pentagrammi
a bordo del nulla,
dipingo quel lontano soffio,
le convergenze, le frecce
e il ricordo della luce.
Strappata dal tutto,
incommensurabile esilio,
vedo, ai lati del tempo,
sovrumana Dimora,
La Risposta di tutte le vite,
l’ultima Domanda d’amore,
infine esaudita.
*
Versi nei quali la parola chiave che regge il componimento è «esilio» che nel caso del poeta non è il transito dalla patria ad altra terra, nel caso del poeta l’esilio coincide con l’idea centrale della poetica di Josif Brodskij:«[…]L’esilio del poeta è sempre un fatto linguistico». L’esilio della Cinti coincide con il dover abitare al di fuori della sua «patria linguistica», con l’essere sospinta dalle atrocità della Storia o da altri sfavorevoli eventi al di fuori della patria delle sue parole «abitate», le uniche a dare autenticità alla poesia. Le «parole abitate» da Gabriella Cinti manifestano tutte la necessità di essere dette, di essere pronunciate. In esse, come per esempio nel Manzoni dell’ Addio ai monti… o di Quel ramo del lago di Como…, (Giovanni Testori ha condotto uno studio severo su questo tipo di parole nell’ambito di quello che fu «il Teatro della Parola») si avverte come uno struggimento che spinge le parole di poesia della Cinti a voler uscire dalla bocca del lettore per farsi «voce». Ed è questa, per ammissione della stessa Gabriella Cinti, la vera cifra costitutiva dell’intera sua poetica: le sue parole aspirano a diventare «voce» perché sentono di poter dire e di poter dare un qualcosa in più rispetto alla semplice parola scritta.
*
Gino Rago

SEGNALAZIONE VOLUMI = FABRIZIO BREGOLI


Fabrizio Bregoli, Notizie da Patmos, La Vita Felice, Milano 2019

Verrebbe da pensare, soffermandoci sul titolo del libro, che si tratti del resoconto di un viaggio, stazione provvisoria o permanente della mente, poco importa. Un fermo immagine - da uno dei più bei luoghi del Mar Mediterraneo, da sempre crocevia del mondo, di antichissime leggende e culture; e perché no, di sogni inaspettati e di nature meravigliose. Se è pur vero che, se non si tratti esattamente del taccuino di un viaggio, (inteso in senso geografico), siamo comunque, invitati in un altrove tangibile, metafisico, e reale. Sappiamo bene che ogni scrittura che si rappresenti, evolve con una certa necessità del distacco, voragine della distanza, da cui emergere, empiere a quel vuoto, (o sogno), che ogni essere umano porta con sé. Ciò nonostante, l’esigenza del distacco, del confine o demarcazione, sembra proprio suggerirci il bisogno di indicare la stretta, le differenze, consapevoli che non basta: …C’è bastato credere/ franca una terra di nessuno, noi/intatti territori d’oltremare, / colonie di un’uguale solitudine. (Pag.35).
La poesia di F. Bregoli dal punto di vista stilistico, già nelle prove precedenti, si compone in forma di esattezza metrica sapientemente dosata, frutto, forse, della sua formazione scientifica, del suo amore per i classici; o anche in rapporto ai suoi illustri compagni di viaggio, (come sembra riferire Piero Marelli nell’introduzione al testo), ma essa resta pur sempre in attesa di un annuncio, di un miracolo o di una rivelazione.
Lo stesso autore afferma in apertura del libro, di aver avuto sempre il tarlo delle scienze esatte: Stechiometria, grammatica, calcolo differenziale, logica formale. E l’algebra. Soprattutto l’algebra. L’algebra è, nel suo stesso atto costitutivo, anello di congiunzione. Arte della riparazione, simile alla Poesia. Da quest’assunto, o logica, e direi atto di fede, si snoda la trama invisibile del libro. Diviso in ben otto sezioni, a dimostrare la necessità del suo lungo travaglio e tragitto: Sette paia di scarpe ho consumate/di tutto ferro per te ritrovare:/sette verghe di ferro ho logorate…/ Cinquanta poesia/tutto quanto ho scritto (pag. 15). Da qui appaiono le avvisaglie di una fatica, la ricerca di una verità che non logora, ma che declina la necessità del suo lungo peregrinare, agire, per giungere a noi. E cinquanta nella perfezione e ambiguità dei numeri, sembra essere la misura esatta: […] Cinquanta è anche, nella fisica delle particelle, numero magico, sa dare stabilità ai nuclei. Terra salda. (pag. 17). Poesia colta e raffinata, ricca di rimandi etimologici, e che per alcuni numerosi aspetti, svela un suo segreto carattere liturgico, dichiarato e non. Un indicativo esempio: Offertorio delle ceneri (pag. 66): “Di questo scrivo / di ciò che non si compie. Del coraggio / che non si fece verso, vi si perse /per difetto di vita, debito di cielo” e, ancora, Preghiera da una fine (pag. 82): “Ti prego dal rovescio del miracolo, / ti porgo la sua lebbra intatta. Ne sillabo / l’opaco, una novena di gelo. Prego /come si raccoglie un grano da zolle / malvagie, come si pigia da un’uva / sterile. […] Prego - e dovrei dire scrivo - / perché il silenzio è denso, immedicabile / più nulla è da difendere, / soltanto la disciplina del fuoco, / il suo Angelus di cenere / candela diligente della fine.”
*
Lina Salvi

lunedì 30 marzo 2020

POESIA = VALERIA SEROFILLI



Come su rosa

Perché non sfioriscano le rose
ne va colta la fragranza
che invade la stanza
accarezzata appieno l'essenza,
senza aver mai timore delle spine
senza guanti/ anche se di seta
senza mai chiedersi/ fino a quando la rugiada
delle foglie e stelo il fresco verde
e il rosso acceso/ dei petali d'amore

Tutto questo penso
mentre mi poso sul tuo petto
come su rosa/ perché la felicità
in fondo, non è altra cosa!
*


Madre

Nei piccoli gesti / consigli
ti ricordo:
tu che togli l’aria al sacchetto
per la fragranza
a riempire della tua presenza
l'intera stanza

E quando l'alba mi chiamerà al tramonto
saremo entrambe luce comunque
mentre luce rischiarerà il tuo corpo
per un prossimo /più duraturo incontro

Sarà allora che s'intrecceranno per sempre
le nostre mani
a nodo imprescindibile d'amore:
quando luce ne suggellerà il calore
unica forza condensata in esplosione.

VALERIA SEROFILLI

NOVITA' EDITORIALI = RAFFAELE PIAZZA

*
TITOLO: Raffaele Piazza, In limine alla rosa, Prefazione di Ivan Fedeli
COLLANA: POESIA
ISBN 978-88-31428-08-8
PAGINE: 70
PREZZO: € 12,00
*
Raffaele Piazza (Napoli 1963) ha pubblicato Luoghi visibili
(1993), La sete della favola (1996), Sul bordo della rosa (1998), Del
sognato (2009) Alessia (2014), Alessia e Mirta (2019). Nel 2020
ha pubblicato l’e-book Linea di poesia delle tue fragole su LaRecherche. Ha riportato premi per l’edito e l’inedito in numerosi
concorsi di poesia: ha vinto nel 2014 il Premio Michele Sovente per l’inedito, nel 2016 il Premio Tulliola con la raccolta
Alessia e nel 2017 il Premio Speciale della Presidenza al Premio Lago Gerundo; è stato finalista al Premio Lerici Golfo
dei poeti (opera prima, 1993), terzo al Premio Mazza (1996), e
finalista al Premio Gozzano, 1998). È redattore di Vico Acitillo 124 Poetry Wave. Ha scritto sui blog Poetry Dream, Rossoveneziano, Bibbia d’ asfalto e La Recherche. È collaboratore
esterno de Il Mattino di Napoli alla cultura. Ha curato per Fermenti Editrice le antologie Parole in circuito (2010) e Inquiete
indolenze (2017). Ha pubblicato poesie, saggi e recensioni su
varie riviste tra le quali Punto, Anterem, Gradiva, Silarus, Le Muse
e Fermenti. È inserito nel saggio Forme concrete della poesia contemporanea (Novi Ligure, 2008).

"La vita fantasmatica, mai doma, di un tu evanescente, dai
toni sfumati, caratterizza la produzione di Raffaele Piazza
e, nello specifico, “In limine alla rosa”. In linea con la tradizione post-novecentesca, il poeta affronta la tematica
della mancanza con atmosfere rarefatte, talvolta calate nella
natura marina, altre in interni tratteggiati e mai stabilmente
dati, come se dialogasse in absentia, con tono meditativo e
avvolgente, calando il lettore in passaggi lirici limpidi e
metamorfici. La prima evidenza del libro è legata alla scelta
stilistica: il verso, spesso breve o puntiforme in Piazza,
ritmicamente levigato, nello specifico diventa discorsivo,
piano e idealmente spostato in una pacatezza narrativa
legata al respiro, spesso lungo e incisivo, più marcato, mai
lirico. In limine alla rosa segna, quindi, una tappa ineludibile
nella ricerca poetica di un Autore complesso, moderno,
che tende, oggi, a una sorta di sperimentalismo metrico
dalle soluzioni ardite ma convincenti." (Dalla Prefazione di Ivan Fedeli)
*
CollezioneLetteraria
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POESIA = MARIAPIA GIULIVO

"COME BALSAMO DI VENTO IMMAGINATO"

come balsamo di vento immaginato
torna la parola dalla sua estinzione
in questa prigione di giorni
senza primavera
il corpo mescola luce
ad aromi di boschi lontani
e dolcemente sa di preghiera
questo risveglio consacrato al tempo eterno
quello che schizza una timida linea d 'aurora
su questo miracolo di esistere
che non sapevamo più
di quanto valore di quale peso
sperperato nel niente del possesso
senza essere senza lode
senza infamia
giorni arrotolati in gomitoli di ego
di cuori rinchiusi
di stelle cadenti cadute
in polvere e catrame
la libertà scambiata con il buio
mentre il sole raccontava altre storie
che più non ascoltavano
anime senza lievito di pace
il bene bussa per chi ascolta
e sa aprire porte scardinare usate ore illividite
il morbo era già dentro
tra il rumore acido del mondo
tra solchi di terra senza più speranza
tra bugie e inganni
senza ritegno radenti al suolo senza più volo
come dimenticanza
come se più non esistesse un sogno
ma un lungo avaro sonno di coscienza
e quando il cielo aprirà le nuvole
sarà tutto compiuto
il disegno
la selezione della specie
fuori dal vero isolamento
che era già virus e paura
e ora da queste sbarre una voce ci parla
di gesti incompiuti e sordi
di ciò che abbiamo perso e più non torna...
*
MARIAPIA GIULIVO - 30 marzo 2020

domenica 29 marzo 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = RAFFAELE PIAZZA

Raffaele Piazza – Alessia--- Associazione Rosso Venexiano – Roma – 2014 - € 12,00

La poesia di Raffaele Piazza non disdegna assolutamente dal porsi in un preciso canone di riferimento: quello della lirica, nella accezione più tradizionale ed autentica del termine, ossia di poesia che prende la forma essenzialmente del canto e della lode (e con il genere della lode, in fondo, nasce la nostra letteratura nazionale), lode della figura femminile qui di indiscussa centralità: quella Alessia che dà il titolo al libro e già fondamentale in tutta la produzione dell’autore. Si considerino alcuni versi come esempio di questa poesia che sceglie la forma lirica con consapevolezza di riferimenti stilistici e nell’impronta versificatoria che sceglie di darsi:

Sera serena in limine all’acqua
di sorgente fredda e azzurra
Alessia, anima di stella nel nero
dei rondoni sui fili della luce
a scrivere parole con i voli.

Alessia è l’eroina e la protagonista di questi versi che la vedono attraversare, con una logica non sequenziale e non strettamente narrativa nel senso diacronico del termine, diverse fasi ed episodi della sua vita, da giovane ragazza e studentessa fino a donna matura e sposata, in una successione di eventi riferiti, che si svolgono dal 1984 (più volte citato) fino al 2014, nell’arco di un ventennio che pur avvenendo in una formula storicamente determinata, in un elenco preciso di luoghi (Ischia, Capri, Assisi, Salisburgo, etc.) e contesti naturali, pare in realtà sospeso in un’atmosfera indefinita, fra la favola e il sogno. Alessia si distingue per la sua gioia di vivere, si impone per l’immediatezza, l’ingenuità verrebbe da dire, della sua persona, tutta centrata nella ricerca di un completamento nell’altro per il tramite dell’esperienza amorosa (il suo amore per Giovanni, vissuto con consapevole passione, con una carnalità da un lato ingenua e dall’altro spregiudicatamente disinibita), esperienza per lei centrale come chiede una donna che desidera la vita, senza mediazione o pentimenti tardivi.
Come fa correttamente e diffusamente notare Antonio Spagnuolo nella sua partecipata prefazione, tutta l’opera è come scritta in una lingua sospesa fra immaginazione e ricordo, fra desiderio e volontà, come se vi fosse una epochè spazio-temporale, nonostante tutti i riferimenti ben precisi e circostanziati di cui si è detto: questo porta a un’idealizzazione della figura femminile, che trasforma Alessia in una sorta di archetipo del femminino. Alessia sembra vivere in un tempo sospeso, quello in cui tutto può accadere, all’incrocio fra un tempo che si arresta per proiettarsi in un futuro possibile o ambìto, come si inferisce bene in questi versi:

Alessia illuminata, plenilunio
mistico e sensuale sulle cose di sempre,
la casa, la stanza, la città
il rosso del telefono. Tutto si ferma.
Tutto accade.

Altrove si dice anche che Alessia “sta infinitamente nella camera / ad angolo con il tempo”, dove quell’avverbio “infinitamente” ribadisce questo concetto di tensione e di conflitto fra essere e tempo, in lotta “contro un tetto di cielo / da sfondare con mani affilate” per trasformarlo in evento, vita compiuta. Questo bisogno di un “varco”, di una soglia di senso che possa illuminare il percorso lungo cui si muove la vita, di Alessia per prima, ma, con il suo tramite, di tutti, è lampante lungo tutto il libro e trova espressione particolarmente felice in questi versi, così limpidi e dal tono quasi messianico:

ansia stellante a sommergerla
nell’inalvearsi col pensiero
nella radura del futuro, anni
a manciate ad attenderla al varco

Il linguaggio usato dall’autore è saldamente innervato nella nostra tradizione poetica, a tratti arcaizzante nello sfoggio di termini ricercati ed eruditi, ardito nella costruzione sintattica con frequenti inversioni e iperbati insoliti. Il lettore è trascinato in un mondo verbale, quasi un idioletto personale iterato con consapevolezza e persistenza, certamente originale, capace di restare sospeso fra reale e possibile, fra memoria e desiderio (i due estremi di cui ci parla anche Eliot, riscritto in un passaggio singolare che merita di essere citato: “Alessia azzurrovestita per la vita dopo marzo / sarà aprile, il più buono dei mesi”, capovolgimento del celebre incipit di “The Waste Land” in cui si dice: “April is the cruellest month”).
Come ho già avuto modo di sostenere in una precedente recensione, credo che soprattutto per questo lavoro di Raffaele Piazza si possa ribadire, a fortiori, che egli “si schiera al di fuori di qualunque ordine stilistico e contenutistico precostituito, la sua è una poesia quasi anti-storica e anti-contemporanea per temi e scelte. Si potrebbe essere tentati di ritenere che voglia essere coscientemente “inattuale” con questa sua scelta “deviante” di poesia, perché forse è proprio questa per lui la strada perché si possa (anzi si debba: “il faut”), dicendola con Rimbaud, être absolument moderne.” E soprattutto in questo lavoro, particolarmente coeso sia contenutisticamente che stilisticamente, Raffaele Piazza conferma la sua cifra stilistica che lo porta lungo un percorso solo suo, aldilà di qualunque condizionamento, di qualunque moda o indulgenza verso il lettore.
*
Fabrizio Bregoli

SEGNALAZIONE VOLUMI = ADRIANA TASIN

Adriana Tasin – Il gesto è compiuto---puntoacapo Editrice – Pasturana (AL) – 2020 – pag. 79 - € 10,00

Il gesto è compiuto, la raccolta di poesie di Adriana Tasin che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta una nota dell’Autrice e una nota di Lamberto Garzia esauriente e ricca di acribia.
Il testo, composito e articolato architettonicamente, è suddiviso nelle seguenti sezioni: In_fertilità, Amoreterno, In aria di mistral ora mi trovo e Stanza remota.
Già ad un primo impatto con la materia proposta dalla poetessa ci si rende conto che ella sia alla ricerca delle sue radici della sua identità di donna e di persona.
È doveroso ricordare che nel corso della storia recente la donna stessa si è ritagliata un altro ruolo nella società nel pubblico e nel privato, emancipandosi e facendo valere i propri incontrovertibili diritti.
Così in tutte le culture la donna non è più l’angelo del focolare domestico, assoggettata all’uomo, ma è divenuta persona che ha instaurato un rapporto paritario con l’altra metà del cielo attraverso il lavoro e il diritto al voto politico, per fare alcuni esempi dell’esito del processo.
Adriana Tasin è perfettamente conscia di quanto suddetto e il titolo della raccolta Il gesto è compiuto evidenzia la perfetta presa di coscienza di questo sviluppo positivo del costume nel sociale quando anche la Chiesa, attraverso il pensiero di Giovanni Paolo II, ha spezzato una lancia a favore della parità uomo – donna attraverso la reificazione della dignità della figura femminile nel mondo anche se purtroppo i dati recenti delle cronache registrano una fortissima presenza della violenza sulle donne che raggiungono il picco doloroso nel femminicidio.
Si avverte fin dai primi componimenti anche una vena creaturale nel nominare la poeta la madre e si sente implicitamente anche un vago senso di fiducia nell’essere implicitamente dette le generazioni che si passano il testimone l’una con l’altra nella normale concatenazione della genesi degli esseri umani che è simile per certi aspetti a quella della parola poetica salvifica.
In Diagramma, componimento tratto dalla prima scansione non a caso intitolata In_fertilità nella prima strofa la Tasin si ripiega su sé stessa alla ricerca di una definizione ontologica della sua essenza definendosi: Femmina, donna/ infine madre/ ultimo scalino non compiuto/. Quindi una vena intellettualistica permea i versi di questa splendida raccolta che sono sempre raffinati e ben cesellati espressioni di strumenti scaltriti e di una forte coscienza letteraria.
C’è vaghezza e magia nei dettati quando la poeta afferma che forse rinascerà figlia, verso icastico e pregnante come tutti quelli della raccolta.
In Abiti i vestiti stessi, detti con urgenza, diventano correlativo oggettivo del tempo che passa e della necessità di coprire il corpo secondo le mode e il proprio gusto e, infatti, è tema centrale del libro quello della corporeità, carne che si fa parola, appunto poetica.
La forma è sempre densa e condensata nell’eleganza dei dettati e pare esserci fede da parte dell’autrice anche nell’amore uomo – donna, nonostante tutto, quando una sezione del testo è chiamata Amoreterno, parola coniata dall’Autrice.
Una sorprendente chiarezza connota il versificare scattante e luminoso nella sua vaga bellezza.
*
Raffaele Piazza

venerdì 27 marzo 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = FILIPPO PASSEO

Filippo Passeo – Osmosi---puntoacapo Editrice – Pasturana (AL) – 2020 – pag, 73 - € 12,00

Osmosi, la raccolta di poesie di Filippo Passeo che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta una postfazione di Mauro Ferrari esauriente, sensibile, acuta e ricca di acribia.
Il testo non è scandito è per la sua unitarietà contenutistica, formale e semantica potrebbe essere considerato un poemetto.
Il titolo Osmosi metaforicamente sembrerebbe indicare proprio la continuità e la fluidità logica ed estetica tra un componimento e l’altro che porta alla definizione suddetta del volume nella sua totalità.
Una parola sempre detta con urgenza crea tessuti linguistici plastici e imbevuti da una fortissima dose di magia, energia icastica e sospensione.
Cifra essenziale della raccolta pare essere una vena anarchica che incontrovertibilmente emerge come primo dato alla lettura.
E si tratta di una poetica complessa, vista la sua densità sinestesica, ed è opportuno soffermarsi su ogni singolo componimento che diviene un’esauriente fonte carica di senso fortissimo nella sua ipostasi.
Accensioni e spegnimenti subitanei costellano il susseguirsi incandescente delle immagini di ogni singolo testo che sgorgano le une dalle altre acuminate per emozionare il lettore che non può rimanere indifferente davanti alle acrobazie lessicali che Filippo produce senza sforzo apparente nel dipanarsi affabulante dei testi tutti divisi in strofe e intrisi, anche se sembrerebbe un controsenso affermarlo, da un grandissimo nitore, legato al controllo formale.
Poiein luminoso quello del Nostro e anche numinoso attraverso la densissima dose d’ipersegno che si viene a creare.
Non manca il senso di un’accorata vena creaturale che si realizza per esempio nell’incipit di Avolizione: La quarta e ultima piantina del giardino…. giardino che potrebbe essere inteso come giardino segreto, definizione risalente ai poeti romantici tedeschi che sta a indicare la zona più intima della coscienza di ognuno di noi nella quale abbiamo il dovere morale di custodire i nostri segreti da non rivelare a nessuno perché nel mare magnum della vita sono la nostra salvezza.
Nonostante la complessità della materia mai si creano ingorghi semantici e la forma stessa contiene come un inconscio controllato lo sdipanarsi delle emozioni fortissime che sottendono i testi.
Poetica generalmente antilirica e anti elegiaca quella del nostro anche se nei tessuti si aprono squarci bellissimi di lirismo dalla luce abbacinante capaci d’incantare il fortunato lettore.
E la natura, della quale la presenza non manca nei componimenti, che sono sempre raffinati e ben cesellati, è raffigurata in modo condensato e rarefatto e fa da sfondo alla gioia e al dolore nel loro sovrapporsi, che sono i protagonisti del libro nel quale la partita vinta o pareggiata si gioca attraverso lo scavo che l’autore fa con la penna nel mettere in scena, per usare una metafora teatrale, la sua sensibilità a 360
gradi, come se con la penna scavasse in una terra che genera fiori e frutti preziosi con una parola che rigenera.
*
Raffaele Piazza

POESIA = LILIANA MANETTI


“Girotondo di pace”

Ci sarà…
un giorno nuovo
dove baci
sbocceranno come rose!
Sarà un giorno
pieno d’Amore
quando il mondo
si risveglierà dall’abisso
E le strade torneranno
a far festa…
Ma non sarà un giorno qualunque…
...ci saranno energie rosso porpora
mai viste finora
tra noi poveri uomini
e rimarremo sorpresi
si,
di avere ancora tanto cuore…
Ci saranno mani da incontrare
nel giorno dell’Amore…
Ci sarà un abbraccio
grande come il mare
in cui ci ritroveremo…
UNICO girotondo di pace!
**


“Il grande capolavoro”.

(La Natura).

Che bellezza disarmante la vita…
la natura così trascurata così trafitta dall’egoismo umano
fa la sua rivolta in un giorno qualunque…
mi ha chiamata da molto lontano
questo mattino
vicino al mare…
A guardare un’alba di quasi primavera…
Un richiamo lontano e antico…mi ha svegliato e mi costringe a guardare i suoi colori meravigliosi…
che profumano di buono e freschezza infinita…
Nonostante tutto mi ricorda questo cielo
di striature color porpora e azzurrino
che la vita è un piccolo grande capolavoro…
Grazie…
**

Liliana Manetti

giovedì 26 marzo 2020

POESIA = FRANCESCA LO BUE

*
FRANCESCA LO BUE TRADUCE ANTONIO SPAGNUOLO
*
Primavera

Iridiscentes colores a raudal
improvisamente en el cielo:
las golondrinas
encontrarán a lo largo de la rivera
las tupidas frondas de los pinos,
un musical acento…
y la brisa que entona brillantes
susurros
de auroras que se ciñen de
inmaculadas inmensidades…
En los campos ya hiende la reja del arado
nuevas ilusiones:
entre los terrones
vibran aún transparencias:
no me preguntes si un día
un escalofrío nos acerque:
es primavera.
*
Traduzione di Francesca Lo Bue

POESIA = RAFFAELE PIAZZA

"Alessia e i mesi prima della felicità"

Cameretta di Alessia nell’amarla
sorgivo microcosmo per l’amore
al tempo della pandemia nel seguire
fiorevoli al computer lezioni
e il viaggio a Praga è rimandato
come del virgiliano verde rugiada
per la storia dei baci.
Mesi prima della felicità di quando
ricominceranno i cinema e ora
ragazza Alessia è del suo film
prigioniera ma lieta tra piantepareti
in attesa di Giovanni per l’amore
lui che ha avuto il posto in banca.
Di donna di Alessia desideri,
una sua casa con lui nerovestito
nel consumarne la duale soglia.
*
Raffaele Piazza

POESIA = MARINA PETRILLO


Poesia contemporanea : Marina Petrillo

commentata da Gino Rago

-Marina Petrillo-

Irraggiungibile approdo tra diafanie prossime alla perfezione.
Digrada il mare all’estuario del sensibile
tra risacche e arse memorie.

Si muove in orizzonte il trasverso cielo.
Fosse acqua il delirio umano perso ad infranto scoglio…
Sconfinato spazio l’Opera in Sé rivelata.

Conosce traccia del giorno ogni creatura orante
ma antepone al visibilio il profondo alito se, ingoiato ogni silenzio,
ritrae a sdegno di infinito, il brusio della spenta agone.

E’ nuovo inizio, ameno ritorno alla Casa della metamorfosi.
Saprà, in taglio obliquo, se sostare assente o, ad anima convessa,
convertire il corpo degli eventi in scie amebiche.

Un soleggiare lieve, di cui non sempre appare l’ambito raggio.

*

Si traccia a sua somiglianza
il pallido sorgere del sole.

Tace della natura il lascito
lunare e inciampa raggi annichiliti da brividi albescenti.

Incerto sullo splendore, annida l’ombra
in emanante abbraccio e lì si abbandona.

Eterno è il suo momento
mai avvizzito dal ciclo delle divine stagioni.

*

Commento

Scrive Andrea Sangiacomo a proposito della «Civiltà della solitudine»: «All’uomo non è indifferente il luogo dove spende la propria esistenza, abitare è per lui il verbo dal significato più affine a quell’altro verbo, così austero e misterioso, Essere. L’uomo abita, è un abitatore di spazi. Ogni spazio è una campata di cielo e una fuga di sguardi, un’apertura inventata dall’orizzonte suo custode, una volta per tutte o forse ogni volta diversa. Abitare un luogo è imparare a pensare e a pensarsi in rapporto alla geografia del dove, all’ordine dello spazio che lì si dispiega, in relazione alla luce che in quella con-trada il giorno conosce. Esser nati tra colli tranquilli, o tra valichi montani, o sulle spiagge del mare senza fine, sono diverse domande a cui ciascuno dovrà rispondere esistendo. Ma l’uomo non abita solo gli spazi e i luoghi che la natura disegna, anzi, egli, forse, abita soprattutto quegli spazi ideali che sono le parole […]». Marina Petrillo si mette in viaggio alla ricerca di una “sua” patria, di una sua “patria-linguistica”, l’unica patria dove il poeta, per dirla con Brodskij, non avverte lo strazio della condizione dell’esilio. Per la Petrillo l’unica patria è la poesia, l’unico spazio di vita è il linguaggio della poesia che per l’autrice di materia redenta diventa il suo «cerchio del dire», la porzione di spazio in cui le “cose” sono in grado di prendere la parola e di andare incontro all’uomo-poeta per raccontarsi, per farsi comprendere. «Quando si pone la propria esistenza nel luogo del dire, nello spazio della parola, si incontrano le cose in modo diverso, non più come mute e indeterminate cose in sé, chiuse nel mistero del loro silenzio inviolato, ma come cose-per-me, voci che prendono ad abitare con me la mia esistenza».

Anche questa poesia di Marina Petrillo va interpretata come «Poetica delle parole abitate». Perché? La risposta la affido a Giorgio Linguaglossa: «Perché il poeta è colui che abita le parole e che si inoltra nella contrada del dire, che esplora gli Holzwege e gli Irrwege […]».

Alcune parole godono a restare come «parole scritte»; altre parole invece aspirano a esser dette, aspirano a farsi «voce», aspirano a uscire dalla bocca [una idea di Giovanni Testori, svelata da Letizia Leone su Il Mangiaparole, n.6, pag. 12] per poter dire e dare un qualcosa in più rispetto alla sola scrittura. Queste parole scelte da Marina Petrillo all’interno del «cerchio del dire» (eterno, stagioni, abbraccio, raggi, lascito, somiglianza, sole…) sono in grado di dire e di dare tutto ciò che semanticamente ed emotivamente è possibile esprimere , sia che si facciano «voce», sia che restino soltanto come parole scritte, perché queste della Petrillo sono le «parole giuste».

Vale per ogni poeta autentico il rimpianto di non poter dare ospitalità a tutte le parole che bussano alla porta della sua poesia. Vale anche per Marina Petrillo ciò che, come meglio non è possibile fare, ha scritto in una densità e intensità poetiche inconsuete proprio sulle parole «escluse» Tomas Tranströmer:«È cosí povero quanto vi ho scritto./ Ma quello che non ho potuto scrivere si è gonfiato come un vecchio dirigibile/scivolando via alla fine per il cielo notturno».

*

Gino Rago

Roma, marzo 2020

[Marina Petrillo vive a Roma dove è nata. Nel 1986 pubblica Normale astratto e, nel 2019, materia redenta con Progetto Cultura da cui è tratta la poesia]

POESIA GRECA = THEODOROS VORIAS

"ANCHE I MURI AFFONDANO"
Sono anche i muri che affondano.
Se li guardi con insistenza
ti rivelano ciò che
sta scritto sopra,
la vecchia ocra si sbriciola e cade
come una febbre gialla,
i nostri sguardi li hanno devastati
a lungo andare.
Chi ce la fa a rimanere tranquillo
in questa città
può sentire le voci
e gli slogan
che ogni giorno vanno in giro
e la notte tornano
a intanarsi
dietro agl'intonaci sbriciolati
*
THEODOROS VORIAS

mercoledì 25 marzo 2020

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO

“Azzurri” -
Trafiggemmo nel cielo alcuni azzurri
pastello,
ché non avevi spazi ad inseguire favole.
Era la storia che spezzava gli anni
tra le mie parole,
la paura di un flauto ferito
da quel dio insolito schermato fra i cespugli,
sgualcendo cattedrali.
Nei solchi il tuo mantello , le unghie
del silenzio per ritorni d’amore,
nel gesto incaute occasioni.
Là dove c’erano glicini o soltanto
segni di una possibile scomparsa,
compaiono le orme delle nostre scansioni,
compaiono i giorni del giardino
che ripete il mio gesto.
Resta sospeso un capogiro
nel quaderno di un’ora.
*
ANTONIO SPAGNUOLO

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIORGIO MOBILI

Giorgio Mobili – Dimenticare un hotel---puntoacapo Editrice – Pasturana (AL) – 2020 – pag. 79 - € 12,00

Giorgio Mobili (1973) vive negli USA dal 1999. Attualmente insegna alla California State University di Fresno. È autore di vari saggi e di uno studio. La sua poesia in lingua italiana è apparsa nel volume collettivo 1° non singolo: Sette poeti italiani (2005) e in varie riviste. Ha pubblicato due raccolte in lingua italiana e una in spagnolo. Per puntoacapo ha pubblicato il libro di poesie Waterloo riconquistata.
"Dimenticare un hotel", la raccolta di poesie del Nostro che prendiamo in considerazione in questa sede presenta una postfazione di Alessandra Paganardi esauriente e ricca di acribia.
Il testo non è scandito e per la sua unitarietà contenutistica e formale potrebbe essere considerato un poemetto.
Cifra distintiva della poetica di Nobili espressa nel testo è quella di una vena intellettualistica che a tratti diviene criptica e oscura con un accumularsi delle immagini, di poesia in poesia, che è spesso caratterizzato da una connotazione anarchica, che giunge a sfiorare l’alogico.
Un’atmosfera di onirismo purgatoriale domina in molti componimenti e nel leggerli, per la magia delle atmosfere evocate, sembra di affondare nella pagina.
Icasticità e leggerezza sono le caratteristiche prevalenti nel libro e il discorso si fa denso e intenso nei vari tessuti linguistici.
Dominano densità metaforica e sinestesica in un rivelarsi di parole che si fanno immagini cariche di accensioni e spegnimenti.
La scarto dalla lingua standard, nel linguaggio di Nobili, raggiunge livelli notevolissimi e l’esito di quella che si potrebbe definire un’originalissima sperimentazione è quello di una scrittura neo orfica, fortemente imbevuta di mistero nella sua controllata ridondanza.
S’incontra nella lettura un tu del quale quasi ogni riferimento resta taciuto, al quale il poeta si rivolge non sentimentalmente, ma in maniera filosofica e speculativa.
Tale misteriosa presenza potrebbe essere identificata come una figura femminile, un’amata, quando il poeta, rivolgendosi a lei, le dice che vorrebbe stare sotto le sue lunghe ciglia.
Una fortissima densità sinestesica, metaforica e semantica emerge nelle concentratisime composizioni cariche di un avvertito ipersegno e gli scenari evocati sembrano essere spesso quelli delle città americane che esprimono il mito del nuovo mondo pur con tutte le loro contraddizioni.
Coglie nel segno la Paganardi nel suo scritto quando parla di tempo a una dimensione nel poiein del Nostro perché entrando nel merito di questi componimenti si nota come il poeta, tramite la magia di una parola detta con urgenza, riesca a unificare nelle immagini prodotte passato presente e futuro attraverso l’attimo nel raggiungere un affascinante straniamento.
Del tutto antilirica e anti elegiaca la produzione di Giorgio e attori, comparse e figuranti come gli anonimi passanti acquistano fascino perché rappresentanti di vite presunte che potrebbero essere quelle di ciascuno di noi.
Particolarmente alta la composizione eponima che chiude il volume nel quale si parla di un hotel che senza limiti impalma il panorama.
E l’albergo stesso potrebbe nell’oscurità della materia trattata simbolo e luogo dell’amore e non a caso le parole iniziali dell’incipit sono quei due.
*
Raffaele Piazza

lunedì 23 marzo 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = AUTORI VARI

Al di là del labirinto – Antologia di arte – poesia---a cura di Antonio Spagnuolo – con disegni di Leonardo da Vinci
Edizioni L’Arca Felice – Salerno – 2010 – pag. 63

Il presente volume antologico racchiude testi poetici di Stelvio Di Spigno, Francesco Iannone, Rossella Luongo, Marisa Papa Ruggiero, Ugo Piscopo, Raffaele Urraro e Giuseppe Vetromile.
Le antologie costituiscono un genere letterario sempre attuale e praticato nel nostro panorama letterario della contemporaneità.
Anche piccoli e raffinati editori pubblicano raccolte antologiche che o sono sottese ad una traccia, un tema comune a tutti i poeti e da approfondire, o non sono soggette a nessuna tematica dando la piena libertà al poeta autore di rappresentare gli esiti della sua creatività.
L’Arca Felice, prestigiosa casa editrice, diretta da Mario Fresa, che vede in catalogo anche il nome di Maurizio Cucchi, oltre a pubblicare plaquette e libri di poesia, coltiva anche il genere dell’antologia con perizia e c’è da notare che, come in questo caso, il singolo volume poetico contiene anche contributi di arte figurativa, come in questo caso i disegni di Leonardo.
Tout-court l’arte nell’arte, dunque, quando Al di là del labirinto, per il sovrapporsi delle due linee di codice, potrebbe essere considerato un ipertesto.
Ad avvalorare il prestigio dell’operazione culturale spicca come curatore di questo volume Antonio Spagnuolo, poeta e critico letterario storico nel panorama non solo italiano della letteratura e della poesia.
Illuminante lo scritto introduttivo dello stesso Spagnuolo che nell’incipit afferma che la scrittura poetica, così come ogni manifestazione artistica che sia di notevole interesse, rompe l’isolamento dell’io ed invita al recupero del tempo, un’alterità che può essere mantenuta dal rapporto, nei confini di una pagina, nei limiti dell’opera, ove suoni e voci allestiscono la scenografia del tempo che trascorre, il suo evolversi in un ritmo incantatorio capace di stordire, il suo declinare in una poesia che stordisce ogni illusione.
Continua Spagnuolo affermando che il poeta ama la vita e le sue moltiplicazioni e non scappa anche quando non si sente corrisposto, in consonanza concettuale con le interferenze dell’altro.
Il poeta è l’uomo delle massime relazioni: piante, alberi, animali, fiori, sassi, mare, terra, cielo, stelle, persone individui, soprattutto intelligenza, fantasia, concetti, idee, intuizioni, per un espandersi della sua capacità evocativa, potenzialmente interattivo nella fruizione.
Voci diverse, età diverse, poetiche diverse, per un confronto che non richieda alcun impegno di selezione, ma offra uno spacco sinuoso del fare poesia oggi.
Perché Al di là del labirinto? Se incontrovertibilmente a livello ontologico, la vita per l’essere umano in generale presenta delle difficoltà che danno scacco alla persona in sé stessa, proprio tramite la poesia si trova il filo d’Arianna per uscire dal labirinto dell’oscurità, della nevrosi e del dolore.
Se il quotidiano di ognuno con il suo faticoso tran tran rappresenta la pesantezza, la pratica della poesia diviene salutare contraltare a questa situazione ed è testimonianza della leggerezza in un salutare elogio e recupero delle radici più profonde della coscienza.
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Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI = GINO RAGO

Gino Rago, I platani sul Tevere diventano betulle, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2020,
pp. 176, E. 12, Saggio introduttivo di Giorgio Linguaglossa, Postfazione di Rossana Levati
Retro di copertina di Giorgio Linguaglossa, Copertina elaborata da Lucio Mayoor Tosi

I platani sul Tevere diventano betulle (Ed. Progetto Cultura, Roma, 2019) è un libro poetico di 5 sezioni. In ciascuna di esse Gino Rago affronta temi ben individuati, direi imprescindibili al modo ‘nuovo’, di sicuro un modo “altro” di tentare di far poesia, un modo teso verso nuovi paradigmi estetici e verso nuove basi ontologiche.
Nella Sezione 1 il poeta si confronta con il Vuoto, con il tempo, con gli scampoli, con gli specchi, con gli stracci, con la plastica, con le piazze-agorà.
Nella Sezione 2 stabilisce una sorta di dialogo a distanza con alcuni dei poeti-fiaccole sul mio nuovo cammino poetico (Tranströmer, Rózewicz, Herbert, Linguaglossa, Pessoa, Kristoff, Mandel’stam, Achmatova, De Palchi, Pecora, A.A.Alfieri, De Robertis, Brodskij, Seifert).
Nella Sezione 3 il poeta Gino Rago si misura con il tema davvero arduo di Lilith, la prima compagna di Adamo che in nome di una sua idea di libertà rinunciò all’Eden.
La Sezione 4 è tutta dedicata all’epistolario del poeta con Ewa Lipska,
La Sezione 5 merita un’attenzione a parte, vi si affaccia il ‘metodo mitico’. Nella Sezione 5 de I platani sul Tevere diventano betulle viene affrontato il tema della guerra incentrato sul Ciclo di Troia, sulla storia scritta dai vinti e non più dai vincitori. Il poeta Pronuncia la sua parola sulla sorte delle donne quando sono ridotte a bottini di guerra. Nelle liriche, l’orrore si focalizza nella prospettiva delle vittime, dei loro corpi umiliati, spogliati delle loro identità. Gino Rago scrive: «Ilio in fiamme dunque è da intendere come luogo archetipico del saccheggio, della distruzione, dei crimini di guerra, della deriva di una terra devastata e di un popolo calpestato. Il destino dei vinti, né omerico, né euripideo, viene seguito nell’articolazione di una sorta di sfilata di tre figure femminili emblematiche: Andromaca, Cassandra e soprattutto Ecuba, su cui incombe il trauma della partenza verso un “altrove” di schiavitù e miseria, nella certezza che nessun tribunale di guerra potrà mai riparare la catastrofe di queste in cui i fantasmi del mito “ripetono e insieme rappresentano le atroci esperienze di vite offese e di corpi violati” , al di là dei confini dello spazio e del tempo, perché il mito antico è metodo per dare significato e forma alla caotica, altrimenti indicibile, realtà del presente». Da qui, il “metodo mitico”, nel poemetto espresso per “frammenti”. Cinque Sezioni diverse per temi e per lingua e sembrano 5 libri diversi confluiti in uno stesso volume poetico. Questo aspetto del libro di Gino Rago è stato acutamente colto e interpretato, come meglio non è possibile fare, da Giorgio Linguaglossa nella sua intensa nota critico-ermeneutica che appare come retro di copertina del libro. Linguaglossa scrive:«[…] Il risultato è uno stile da Commedia che impiega il piano medio alto e quello medio basso dei linguaggi, con gli addendi finali di continui attriti semantici e iconici, dissimmetrie, dissonanze, disformismi, disparallelismi… il principium individuationis è fornito dalla peritropè (capovolgimento) di un attante nell’altro, di una «situazione» in un’altra, di un luogo in un altro. Una autentica novità per la poesia italiana».
Nulla fu detto che non fosse transito veloce. Determinante avvio della coscienza bulimica in aerea sospensione. Giacque una infiorescenza di perduta allegria tra il petulare di primule tardive. A specchio denso, il mercuriale responso illividisce altra via. Se pur data all’umano lignaggio, la vulgata spira in sillabe e vaticinio. Responso dell’Arcano in limite adiacente il subitaneo silenzio. Fummo mai umani nel gloriare dell’insulso gesto a fine….

“Si abbracciano come due sconosciuti sull’abisso”.

I tuoi platani, Gino, trasmutano in betulle, alchimia del poeta delle ombre. Accede egli forse all’Ade, nel vuoto arrendersi di ogni specchio alla vita. Torneranno ad essere alberi nelle sere prossime al catarsi di un tempo degno di infinitezza, mentre ogni foglia cade e medita silenziosa. Avrà il nome di eteronimi, il poeta, nella Lisbona delle idee e porterà compassione poichè “i morti ai processi dei vivi si avvalgono sempre della facoltà di non rispondere”. Nell’architettura dei tuoi versi coabitano microrganismi mutanti che traggono linfa da tutti i passaggi
esperienziali, reazioni chimiche in dissolvenza, scissure del pensiero metafisico. Con grande delicatezza del sentire, ti dono le sensazioni del momento, in attesa di leggere l’intera silloge poetica.

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Marina Petrillo -
Roma, 20/21 marzo 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCESCA LO BUE



“Venezia” di Francesca Lo Bue

“Venezia” fa parte dell'ultima raccolta di Francesca Lo Bue, intitolata “I canti del Pilota” (Roma, Società Dante Alighieri, 1919) ed è una poesia che possiamo ritenere paradigmatica della scrittura della poetessa italo-argentina, trapiantata da tempo in Italia.
Come scrive l’autrice nell’Introduzione “La poesia, con gli enigmi che ci pone, con le sue metafore, con l’espressione pura di parole-visioni, folgorazioni e sinestesie, ci apre all’oscurità del mistero” (ed. cit. p.9) e proprio di questo mistero ci parla Venezia.
Il componimento presenta, come di consueto - secondo una precisa scelta dell’autrice- una doppia redazione in spagnolo e in italiano, la seconda, però non è da considerarsi una traduzione interlineare della prima: per Francesca Lo Bue si tratta di una ispirazione contigua in cui una lingua va incontro all’altra e dove è soprattutto il piano fonico a dettare la scelta delle parole.
La poesia è costituita da 22 versi liberi, con alternanza di metri brevi e lunghi, che trascinano il lettore in un “caleidoscopio infinito” grazie al potere immaginifico delle metafore.
Venezia viene evocata mediante una serie di metafore di primo grado, come ad esempio al v.2 “opalescenza di stelle e riverbero di plenilunio”; v.14 “Venezia, libro di viaggi”, v.17 “Venezia, sentiero di cielo”; v.18 “tepore di lucignolo”; v.19 “ ombra di fuoco perenne”, che si intrecciano al tessuto metaforico dell’intero enunciato poetico in cui le immagini-visioni emergono da un fondo magmatico ( v.5 Il naviglio che scende nel labirinto del sangue; v.8 ( C’è Medea che chiama tra muraglie di piombo ) creando un forte contrasto con la luminosità (“opalescenza di stelle, v.2; C’è una lagrima di brina, v.7; “mentre lo straniero mangia acini d’argento”, v.9, “negli occhi d’ambra della sera “v.10) che pervade il testo.
Al centro della poesia, come dell’intera raccolta, vi è l’idea del viaggio, rappresentato visivamente dal “naviglio”, v.5 (laddove lo spagnolo predilige il termine ‘bajel’) e successivamente dalla ‘gondola’, evocata dall’elegante immagine del ‘cigno’, v.15: “fra i tuoi ponti il cigno/nel ventaglio delle onde” (la parola ‘cigno’ ricorre anche nella poesia “Astronauta” in un contesto totalmente diverso): a Venezia, città di marmo, l’io lirico (il pilota) approda dopo un lungo viaggio (“Spume antiche mi portano alle tue soglie”, v.11) per prendere coscienza della propria pena: “nelle tue maschere,/la pena ancestrale del mio viso”, vv.21-22. Forti per intensità i richiami al mito greco degli Argonauti, al loro viaggio nella Colchide e al tragico amore di Medea (evocata, come ricordato sopra al v.8) per Giasone.
La struttura sintattica del componimento è prevalentemente nominale, le forme verbali sono piuttosto ridotte e ad esse è affidata la funzione narrativa appena percettibile nel testo.
Quello che colpisce in questa poesia, e che, a mio parere, costituisce la cifra stilistica più rappresentativa della produzione di Francesca Lo Bue, ben visibile in questa raccolta, è l’uso di un lessico estremamente colto e ricercato attraverso il quale la poetessa ci restituisce, come impronte (“parole-orme”), le tracce del suo e del nostro vissuto. Il tutto è tenuto insieme con grande perizia dal tessuto fonico delle parole dove allitterazioni, ripetizioni e assonanze conferiscono musicalità a una poesia certamente poco melodica.
Attraverso i fenomeni della ripetizione si creano dei grappoli di fonemi che si propagano di verso in verso come rintocchi di passi e fanno pensare al viaggiatore che si inoltra con cautela nel dedalo delle calli veneziane ( e non sarà casuale che la parola ‘labirinto’ vi ricorra due volte, al v.5: “labirinto del sangue” e al v.18 “fra labirinti profumati di luce”). Ad esempio, nei versi iniziali troviamo la ripetizione della ‘p’( Pallida, opalescenza, plenilunio) a cui segue la l’allitterazione della ‘l’ (labirinto, lontana, lagrima), quindi del fonema ‘m’ (Medea, muraglie, mentre, mangia), seguito dalla ‘s’ (Spume, soglie, incenso, mosaici) per concludersi con la ripetizione della ‘v’ ( incavi, Venezia, ventaglio, Venezia) e di nuovo della ‘p ’nella perfetta allitterazione (pena purpurea, v.20).
Alcune assonanze alla fine dei vv.3-4 Infinito/destino; vv.5-6 sangue acque; vv.9-12 argento/incenso; 13-14 incantati/viaggi compensano l’assenza di rima del componimento.
Nella quarta di copertina è collocata una poesia dal suggestivo titolo “Capitàno” che non troviamo all’interno della raccolta; questa poesia ci rammenta in un estremo explicit lo spirito con cui Francesca Lo Bue ha affrontato la composizione di questo suo ultimo lavoro: dare voce al mistero sepolto dentro alle cose e dentro all’interiorità di ogni individuo. Si leggano questi versi: “Dove vai capitano azzurro?... al mio cuore che ha un miraggio d’alberi? Dove vai? Verso l’orizzonte che sanguina?... E’ nata bellezza ed è visione di terrore e grazia/ed è canzone antica”.
Ecco, la Venezia che ritroviamo nella poesia omonima è una città apparentemente ferma, immobile: nelle sue architetture, nei suoi ponti, nei suoi canali attraversati dal leggero movimento dei remi di una gondola sono depositati millenni di storia e di memoria che soltanto la poesia, come Pizia, la sacerdotessa di Apollo, ci aiuta a decifrare.
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Roma, 19 marzo 2020
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Gabriella Milan

domenica 22 marzo 2020

ANTOLOGIA = TRANSITI POETICI


Giuseppe Vetromile , anche in momenti di "arresti domiciliari forzati", riesce a unire alcuni poeti in un virtuale volume antologico di pregevole fattura e di interesse culturale notevole. "Transiti poetici" volume primo, accoglie le poesie variegate e luminose di Maria Benedetta Cerro, Mariano Ciarletta, Monia Gaita, Carol Guarascio, Ksenja Laginja, Rita Pacilio, Antonio Spagnuolo, Raffaele Urraro, Veruska Vertuani, Vanina Zaccaria. Invito alla lettura e grati per commenti,oggi immersi nella illusione primaverile.
https://transitipoetici.blogspot.com/2020/03/transiti-poetici-antologia-cura-di.html
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sabato 21 marzo 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = ROCCO SALERNO

Rocco Salerno, L' origine del fuoco, Caramanica Editore, 2014

" Ora non sono più il passato remoto
di inezie, d'attimi persi,
lo specchio infranto delle illusioni
cui attingevi le tue storie,
le tue rievocazioni ormai morte.
Ora guardo in faccia la realtà,
mi denudo al cospetto della verità. "
Con questi versi parascevici della stessa protasi inizia il poemetto in sei canti di Rocco Salerno, che riporta subito alla cosmogonia mitologica del pensiero greco, piuttosto che a quella della rivelazione biblica.
Pur adottando divinità tribali, antropomorfiche, aliene, in questo caso Prometeo, per spiegare l'origine del cosmo, della vita, la creazione o la forgiatura, la clonazione dell'uomo e della donna, simili agli dei, riesce subito a tradurre tutta la simbologia panteistica, in una dimensione cristiana.
I versi 1- 6- 15-23-27-31 del proemio, rafforzativi, anaforici, marcano il tempo al presente, nel necessario hic et nunc in cui il poeta e l'uomo si misurano, aumentando il divario con il passato, a volte funestato da esperienze forti, da non ripetere.
Il poeta esperisce una sorta di exeresi delle incrostazioni del male sul corpo, di Metanoia, di astinenza da ogni forma malefica, convinto che lo stato di perfezione possa essere raggiungibile anche nel viaggio terreno transeunte, ma è altresì convinto del bisogno latente di espiazione, per il raggiungimento di una salvezza personale, di una palingenesi.
A sancire la volontà di procedere verso un Dove, un divenire ignoto, di partire per avventure nuove è questo distico della chiosa: fresco, sinestetico.
" Ora s'allarga il mio mondo e suona di colori,
cavalli trepidanti sul selciato.
Salerno spinge e conduce il fare dello scrivere come urgenza e non per riempire fogli di belle parole, atte a soddisfare la mera vanità del " creare ".
Vive la poesia in modo liturgico, e non concede nulla ai demoni del prolisso costringendo il suo dire in un solco profondo da cui spuntare come fiore in primavera e farsi polline nell'aria sovrastante, per assurgere alla funzione di Mistagogo, pur non rivelando i suoi segreti.
I suoi versi si insinuano come lontane meteori nelle crepe della scrittura sempre pronta a preparare il terreno che accolga il buon seme.
Ipotiposi, ricercatezza e spontaneità, melodia e ritmo, cercano il volo leggero di Psiche, degli Elohim.
" Vieni ancora una volta a me,
questa volta, angelo delle tenebre
più abbagliante delle nevi.
L'invocazione al Malak delle scritture ebraiche, all'Akero miceneo, al Sukkal mesopotamico, all'Angaro persiano, all'Aggelos dei greci, all'Angelus dei latini, all'ermetico Eone degli gnostici, all'Atomo di Leucippo, di Democrito, alla Monade di Pitagora, di Platone, di Leibniz, al Messaggero dei Vangeli, si fa costante presenza, tentativo di relazione con il Pleroma, ma l'atmosfera dialogica instaurata con l'angelo, che assume sembianze umane, carnali, con relazioni anche erotiche, viene spesso sostituita con un salutare solipsismo, dove la meditazione si fa profonda e scandaglia gli angoli oscuri dell'essere, per sfuggire agli errori dei primordi.
" Grido ancora una certezza, invoco il sale
sulle mie purulente piaghe
muto testimone di un evento
aperto al Vento incostante della mia tenera età
La magnifica similitudine dei versi 7 e 8:
" come un lago silano
sulla mia anima
ci porta all'oasi di purezza che si può trovare solo nelle acque dei laghi dell'altopiano silano, in Calabria, nei pressi di Cosenza, e crea un'atmosfera di pace in cui il poeta vuole identificarsi, alle cui fonti primigenie, abbeverarsi.
È un hapax legomenon che sintetizza una necessità insostituibile di essere ciò che si è, dove si è, e basta...
Versi ariosi che simulano galoppate di giovani giumente librate nel loro tenero e selvaggio scalpitio, accolte tra il vento, sull'erbe verdi di vaste praterie e gitani e cavalli lorchiani pervadono l'opera di Salerno.
"E sulla nuca dei tuoi capelli
costruivo il mio impero
e annusavo certezze
respirando il vento della mia terra,
la certezza.
Strade desolate che battendo sputai
nella speranza di poter rinascere,
ritrovare l'identità.
( Canto 3 da 50 a 57)

Nugoli di versi mirabili, dunque, si annidano, serpeggiano e aleggiano nell'originale poemetto di Salerno, versi connotati da un grande "scarto poetico”, che non hanno nulla da invidiare al giovane poeta delle Ardenne, versi che scavano solchi profondi, che esplorano gli angoli stregati della carne, del vizio, sino al caldo fetore delle viscere, per poi risalire verso gli orli merlati della purificazione, dell'Assoluto, dello Spirito.
" Devo trovare la scorza verde dell'Albero,
aprire il poro perché respiri il giorno,
tendere agguati all'erba che dimena
il suo Essere perenne,
scalcinare quest'intonaco che serva
come un sudario
una vecchia immagine sempre protesa
al Cielo.
*
La poetica di Rocco Salerno è sempre sospesa nel tesissimo arco tra l'essere e il suo divenire e trae linfa vitale da tutti i wordsworthiani stadi evolutivi dell'umanità: fanciullezza, maturità e vecchiaia, nutrendosi di una forte e salda speranza.
In tanti suoi versi è presente un caldo dolorante nostalgico Spirito ungarettiano, il "naufragio interiore", ma anche la recondita certezza di una Terra Promessa, di un approdo salvifico in un porto dove anche le navi alla deriva, quelle più malconce, lungamente straziate e sciabordate da tempeste e da venti funesti, da corsari e da pirati, possano trovare un sicuro appiglio, un rifugio.
Il senso ultimo, escatologico, confluisce in una Resurrectio che trasforma e ridà un senso ai patimenti, alle angustie dell'esistenza terrena, plasmando il corpo nuovo, finale.
"sento che s'aprono nelle mani orizzonti disfatti
si contorcono come linee sinuose e si prostrano
dinanzi alla parola”.
Trasgressioni, dispersioni entropiche, ammutinamenti della carne e della mente, ammaraggi, spiaggiamenti, indugi, simulazioni di eterno, attese logoranti, il Prometeo ribelle, che sfida il Padre, va via via divenendo mansueto e l'impeto della giovinezza si stempera per fare spazio alla contemplazione, ricercando con sempre più urgente palpabilità un " Piacere catastematico" e non " Cinetico", come in questo trittico di chiusura del VI e ultimo canto, di sapore foscoliano.
"Trovare che tutto è candida illusione
candido smeraldo in questa lunga cappa
che ci sovrasta ".
*
Biagio Propato blasius

SEGNALAZIONE VOLUMI = DANIELA MAURIZI

Daniela Maurizi – Attraverso le rapide---puntoacapo Editrice – Pasturana (AL) – 2019 – pag. 99 - € 12,00

"Attraverso le rapide", la raccolta di poesie di Daniela Maurizi che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta uno scritto introduttivo di Elio Grasso intitolato "Subito prima del futuro".
Il testo corposo è composito e articolato a livello architettonico e nella sua costruzione la poetessa adopera una tecnica scaltrita sottesa a raffinati strumenti, espressione di una notevole coscienza letteraria.
Il titolo del pezzo iniziale di Elio Grasso fa riflettere sul tema dell’attimo in senso heideggeriano feritoia tra passato e futuro, attraverso il quale si entra virtualmente nel non tempo che è la dimensione in cui s’invera l’indicibile.
L’attimo, che si differenzia dall’istante e dal momento è la vera dimensione della poesia alta che trova un esempio in questo libro.
Il volume è scandito nelle seguenti sezioni: Cantico della città sommersa, Dedale, Grani d’acquaio, Identità di una guarigione, L’inizio della pioggia, Come noi c’inseguivamo sulle acque, Uno specchio di ceneri.
Canto delle dighe aperte ha un incipit che pare eliotiano: oggi è il primo giorno di vecchiaia nella città larga verso denso in cui si condensa la nozione di cronotopo quando vengono detti il primo giorno e la vecchiaia (che appartengono alla sfera del tempo) e la stessa città larga (che è inclusa nella nozione di spazio).
Una scrittura veloce, leggera scattante e icastica caratterizza la poetica della Maurizi espressa in questo testo.
Non mancano accensioni e spegnimenti subitanei e tutto sembra immerso in un’atmosfera di onirismo purgatoriale in ambientazioni dove serpeggiano il senso della morte e della perdita quando sono usate metafore come la malattia dell’acqua.
È fondamentale identificare come nucleo generativo della poetica di Daniela una forte vena anarchica che non sfiora però l’alogico per cui le immagini descritte pur apparentemente irrelate tra loro presentano una buona dose di consequenzialità nel connettersi felicemente sulla pagina.
C’è da evidenziare che alcune poesie della raccolta sono realizzate da versi che arrivano alla fine della pagina e questi componimenti sfiorano la prosa poetica nella loro essenza affabulante.
Un forte senso della fisicità, della corporeità s’invera in molti componimenti come quando viene detto il sonno di una persona imprecisata nella poesia veramente memorabile Il corpo resta, lo spirito è aereo che è appunto sul tema del sonno che è qualcosa di veramente misterioso quanto il suo precipitato che è il sogno.
A questo proposito sono emblematici i due versi finali Le parole non esistono più. / Il corpo è un segno senza significato.
Nei suddetti versi si avverte un’essenza nichilistica che può essere associata al sonno senza sogni e non a caso gli antichi affermavano che il sonno è simile alla morte
Una parola vibrante, detta sempre con urgenza sembra connotare la scrittura della Maurizi che attraverso la visionarietà raggiunge esiti magici.
Attraverso la densità semantica, sinestesica e metaforica ogni componimento della raccolta nella sua densità concentrata raggiunge una forte dose d’ipersegno.
*
Raffaele Piazza

POESIA = PLINIO PERILLI


"Primavera stranìta..."

Spore, virus, polline e batteri –
cosa di più, per dichiarare aperta
l'incantevole, tiepida caccia grossa
della Primavera?... Questa ferocia
che sgorga cara ogni anno, spunta
– to spring – a rigemmare vita, fiori,
plaudire alla dittatura del Verde...
Che accadrà?, ora che una febbre
nefasta – oh, non più dell'oro! –
chiede al sole di vendicare l'ombra,
prega l'Invisibile di non transigere
con le lettere minuscole, sì, i microbi.
Primavera stranìta, riottosa ai sensi
e innamorata dell'aria, del vento
che infido ci affida perfidi baci.
Come se la dolcezza fosse invece
il miglior antidoto, per dire basta
al Male, finiamole, una volta per tutte,
queste guerre in famiglia nel Creato!
*
Plinio PERILLI

venerdì 20 marzo 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIANRENZO P. CLIVIO

Gianrenzo P. Clivio - Na lòsna an fior – Poesie in lingua piemontese---Centro studi piemontesi – Torino – 2019 – pag. 95

La collana di Letteratura Piemontese Moderna (avviata nel 1969 sotto la direzione di Gianrenzo P. Clivio) si propone di offrire in edizioni filologicamente curate una scelta di opere – poesia, prosa o teatro – che andranno dal secondo Ottocento ai migliori contemporanei. Con l’eccezione di pochi autori già ben noti, la letteratura piemontese dal 1850 in qua è un territorio ancora da esplorare e nel quale – senza pretendere di rivelare dei capolavori – può venir fatto di compiere qualche recupero interessante. Il secondo quarto del Novecento ha visto nascere in Piemonte una poesia raffinata, ancora poco conosciuta, che merita di essere letta più ampliamente. La collana ha, dunque, un ambito abbastanza vasto e promettente in cui spaziare. Perciò essa non riproporrà gli autori già meglio noti se di essi si hanno edizioni soddisfacenti, mirando invece a valorizzarne altri meno conosciuti ma degni di attenzione.
Il volume Na lòsna an fior – Poesie in lingua piemontese, che prendiamo in considerazione in questa sede, è curato da Albina Malerba e Dario Pasero, presenta una versione in lingua inglese di Celestino De Iulis e una prefazione di Giovanni Tesio.
Nell’esauriente prefazione Giovanni Tesio scrive che la poesia di Gianrenzo P. Clivio è tutt’altro che un esercizio a latere. Non numerosa, no, ma solida e profonda, sicuramente lirica, tendenzialmente poematica, ossia non frammentistica, e meno che mai frammentaria.
Clivio porta nella sua poesia la sua passione di studioso, ma dà soprattutto voce al suo bisogno di canto, alla sua necessità di sprigionare (e dunque di liberare) le sue più profonde ossessioni.
Collocarne storicamente il timbro non è difficile, perché siamo prevalentemente negli anni Sessanta (lui era del ’42), e dunque in età giovanile – quantunque ricca già di conoscenza -, satura di arditezza e di forza, di energia e di estensione.
Quantunque criticamente impropria, mi pare – leggendo qui raccolte le sue poesie – di vedere quel suo corpo imperativo muoversi in uno slancio della passione che si converte in lingua e in parola.
Lingua sua e dei padri, lingua studiata e studiosa, e parola innamorata, che scaturisce dall’aratura dei tempi, dalla fecondazione delle letture e dalla spigolatura del mietuto.
C’è una vena elegiaca nella poetica di Clivio che si riscontra nel suo amore per i paesaggi che da esteriori divengono interiori, paesaggi dell’anima.
Per esempio in Paride è detto un pastore vicino ad un faggio, su di una collina con i suoi capelli biondi sparsi al vento lungo la schiena nuda tranquillo a guardare fiocchi simili a cotone disfatto a luccicare sotto la volta blu.
E qui vengono in mente Le bucoliche di virgiliana memoria e gli ozi letterari e la fede in una natura bellissima e benigna.
Il gioco della traduzione in lingua italiana e in inglese rende affascinante la scrittura che per chi scrive è comprensibile solo in italiano e quindi per i cultori dei dialetti piemontesi come Dario Pasero, il testo diviene quasi un ipertesto nelle sue affascinanti sfaccettature.
*
Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI= ROCCO SALERNO



Rocco Salerno, L'emblema casto del passato - In memoria di Dario Bellezza, Edizioni Confronto, 2017

... Quando abitavo per la prima volta fuori San Lorenzo, a Centocelle, da un lustro e mezzo degli anni ottanta, nella graziosa casetta con un piccolo terrazzo, ( dove coltivavo basilico gigante, peperoncini, prezzemolo e anche un paio di piantine di Maria, con la deliziosa gatta di nome Icaro, Bianchina, sua figlia, il randagio Belzebu' e tanti altri che gattiavano, figliavano, si moltiplicavano, come funghi, senza sosta) vicino al piazzale delle Camelie, in Via Ceprano, e l'amico e poeta Rocco Salerno condivideva con me lo spazio edenico, ero solito organizzare dei convivi letterari, che diventavano un laboratorio poetico, animato e singolare, in grado di sostituire il calore della brace, delle fiamme dei caminetti del Sud, di un tempo, prolungando il racconto, l'oralità.
A tanti poeti frequentatori delle serate avevo dato degli epiteti: Dario Bellezza (il Vate), Dante Maffia ( il Divino), Giuseppe Selvaggi ( l'Eccelso), Rocco Salerno (il Sommo o il Maggiore), Luigi Gulino ( il Maledetto), io stesso (il Minore) e l'amico, estimatore dei nostri versi, Carlo Chiera, ( l’Infimo di Piticanne).
Centocelle era ancora un quartiere di sapore periferico, pasoliniano, dai tramonti rosso - scuri africani della Casilina, pieno di osterie e vini e oli, molto popolare, dove Bellezza, in modo particolare, amava ritrovarsi davanti a una rosetta croccante con mortadella e a un bicchiere di buon vino, nell'osteria della Signora Sofia, nostro bivacco serale.
Gli incontri si svilupparono e proseguirono a casa e nelle rassegne letterarie organizzate nella capitale.
Così dopo questo antefatto diventa naturale fare una chiara disamina dei versi di Salerno. Disamina che non necessita di particolari invenzioni per dare un quadro saliente e convincente dell'uomo e del poeta Bellezza, poiché la stima che Salerno ha per la sua opera e l'affetto sincero per la sua persona sono stati collaudati negli anni, nel tempo, con le serate estive trascorse a Roseto Capospulico, in Calabria, nei vicoletti del paese vecchio o sotto il castello, passeggiando sulla ghiaia della pulitissima e azzurra spiaggia, o nella capitale.
"L'emblema casto del passato" consta di venticinque liriche e il titolo fa risuonare alcuni versi del poeta " Maledetto nostrano", dalla sua raccolta " Proclama sul fascino".
Bellezza è uno scrittore multiforme, a cui sono state incollate molte etichette e forse tutte gli calzano bene, ma è anche il Poeta dell'amore caliente e gitano, come Lorca, conturbato e casto, come Catullo, piegato ed esaltato nell'immortalità dell'arte, della poesia: dunque un cultore romanticissimo della Bellezza, e poiché il suo cognome è Bellezza, cerca di adempierlo in pieno: " Nomen Omen”.
In questi versi della prima lirica, Salerno traccia con una metafora baudelairiana lo stato di impaccio del poeta, deriso e schernito, munito di grandi ali d'albatro che gli impediscono di planare sulla Terra, di camminare in armonia.
" Voi non sapete
chi è un poeta.
Che ne sapete voi
che squadrate la gente
di un poeta.
Non sapete le foreste vergini
che crescono dentro a un poeta
nel nostro Sud
pieno di sangue e profumo.
Non sapete le mani aperte
di un poeta
anche nella tempesta."
Un nostos, ovvero, una sana saudade è presente in questi versi. Il piacere di ogni incontro rimane scolpito come granito, per poi divenire diafano, rarefacendosi nella dissoluzione del transeunte.
Ogni attimo di presenza è vissuto come se fosse l'ultimo, quindi pregno di valore, irripetibile come ogni gesto umano che ha luogo sulla terra.

" Ti ritrovo sordo
ad ogni superfluo bisogno
se allarghi solo gli occhi
al delirante sole oscurato
di via dei Giubbonari".
"Il tuo ciao di commiato
mentre ti allontani
per recarti da Moravia
mi esplode negli occhi
come il giallo di Van Gogh."

Nei suoi versi di dedica, Salerno traccia una via e un viatico dell'esperienza sua e di Dario, riuscendo a creare uno specchio per far riflettere e meditare sulla caducità della vita, sulla presenza di Morte contigua alla vita stessa, ma anche sul senso profondo dell'amicizia, dell'arte, che ogni cosa trascende, per assurgere a quel corpo senza corpo, senza peso, senza tempo, anelato dagli Aedi di tutti i tempi.

" la tua voce affaticata
risuonava pure alta
nel locale/
spogliando Salomè
della sua virginea purezza
sfilacciando
anche la tua carne
come il sole
quando tramonta
come la luna infingarda
delirante
sui tetti di San Lorenzo.
Ammutolisce la sala
guardinga
guidata da Biagio
nei tuoi meandri
nei tuoi respiri vitali./



E mentre Bruno e David
ti accompagnano a casa
Roma
impietosa
inghiotte i tuoi sogni,
la tua storia,
l'ultima tua poderosa
parola.

(In occasione della lettura del testo teatrale "Salomè”, recitato da Bellezza al Luna Club, Via Degli Umbri, San Lorenzo, Roma, rassegna poetica" Il battello ebbro", a cura di Biagio Propato e David Colantoni, anno 1995... dove oltre Dario si sono succeduti Dante Maffia, Rocco Salerno, Vito Riviello, Marcia Teophilo, Gino Scartaghiande Maria Teresa Ciammaruconi, Lidia Riviello, Eugenia Serafini, Lucianna Argentino, Enrico Pietrangeli, Francesco De Girolamo, Sandro Di Segni, Manuela Vigorita, Daniela Negri, Maria Grazia Calandrone, Rita Iacomino e tanti altri... insomma, sembrava di assaporare un periodo di nuovo Rinascimento, che si alimentava con le molte altre rassegne, come quelle tenute al Caffè Notegen, in vIa del Babbuino).
Quella fu l'ultima volta in cui vidi l'amico Dario, subito dopo la lettura di Salomè ... Poi dopo qualche mese, la notizia della scomparsa, la veglia alla casa delle letterature, come per Amelia Rosselli, e quindi la sepoltura, al cimitero acattolico, presso la Piramide Cestia e l'assenza del Poeta dagli scenari televisivi, dalle viuzze e dai teatrini di Trastevere e di Roma.
Con il suo lavoro, appassionato e denso, concentrato come una pulsar, Salerno è riuscito a cogliere gli aspetti più importanti e più intimi della poesia e dello spirito di Bellezza, introiettandone persino gli odori, i sapori, i colori, entrando in modo altamente e delicatamente empatico nella personalità e nella poetica dell'Aedo romano di origine magno - greca, pugliese, che nella sua vita ha preconizzato e vissuto la sua stessa morte con grande consapevolezza, esorcizzandola e quotidianamente sfidandola, per allontanarla il più possibile. Però, accade, ahimè! " La morte raggiunge anche l'uomo che fugge".
Con un respiro per certi aspetti pavesiano e, comunque, stoico, Salerno ci regala una lirica testamento di vita e di arte che affronta il tema del viaggio ultraterreno e con tutta la lucidità di chi sa che qualcosa deve avvenire e che ineluttabilmente avviene.

" Certamente morremo, per sapere
o per essere certi
che niente dura su questa terra
se non la bellezza del verso.
Certamente morremo per nutrire
l'angoscia di questa vita.
Certamente per vivere moriremo
dentro l'angoscia
di questo sordo esistere.
Certamente morremo per essere. "

Nel concentrato e sentito florilegio " L' emblema casto del passato", con cui Salerno vuole omaggiare l'amico Dario Bellezza, troviamo una versificazione, che senza indugio alcuno, procede verso i campi di una composizione asciutta e lessicalmente, sintatticamente, semanticamente sicura, senza intoppi di mero descrittivismo, di ipocrita encomio ed elogio, di futile manierismo, che comunica all'istante una emotività pregna di condivisione umana e artistica.
Quando l’arte e la poesia sono pure, puro è il loro viaggio, e nulla le scalfisce, nulla le ferma e diventano vento leggero, Spirito, in grado di superare il tempo, la caducità delle cose: antidoto insostituibile all'amaro nettare della morte.

" Chiuderemo gli occhi
anche al Tempo
alla Morte
se avremo saputo cogliere
il segreto
della Bellezza. "
Roma, dicembre 2019
*
Biagio Propato blasius

giovedì 19 marzo 2020

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO

"Scherzo numero 1"
Se fossi il pesce goffo,
tozzo ma forte per le scaglie argento,
potrei correre il Golfo in primordiale
semplice ticchettio per tutta notte:
bianco panna che attende le occasioni.
Se io fossi!
Ma d'un balzo le mie colpe
hanno accostato il virus nel destino,
maltrattando chi m'ama e mi rintuzza,
mano dolente e tremula all'esordio.
*
ANTONIO SPAGNUOLO

mercoledì 18 marzo 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIULIO MARCHETTI

Giulio Marchetti – Specchi ciechi---puntoacapo Editrice – Pasturana (AL) – 2020 – pag. 49 - € 10,00

Giulio Marchetti, autore del libro di versi che prendiamo in considerazione in questa sede, è nato a Roma nel 1982. Ha pubblicato la raccolta di poesia Il sogno della vita, 2008, finalista al Premio Carver e segnalata con menzione speciale della giuria al Premio Laurentum. Vari critici si sono occupati della sua poesia.
Specchi ciechi presenta una prefazione di Maria Grazia Calandrone, una postfazione di Vincenzo Guarracino e una nota di Riccardo Sinigallia.
Il testo, che inizia con un prologo, non è scandito e, per la sua unitarietà formale, stilistica e semantica potrebbe essere considerato un concentrato poemetto.
Tema ricorrente in Marchetti, che si invera di raccolta in raccolta, è quello di una ricerca che a partire dalle tematiche dell’angustia e della perdita sottende la possibilità della gioia, raggiungibile solo attraverso la parola salvifica detta con urgenza.
Una cifra scabra ed essenziale che concede poco alla lirica e all’elegia connota i versi di Giulio che sono in modo incontrovertibile connotati da una vena intellettualistica e filosofica.
I componimenti sono tutti brevi e dotati di una formidabile icasticità che crea ipersegno, motivo per il quale, per un’esauriente analisi filologica ci si dovrebbe soffermare su ogni singola poesia in modo approfondito, perché ogni singola poesia per la sua preziosità dovrebbe essere oggetto di un close – reading.
Emblematica la poesia Dormendo insieme che costituisce veramente un momento alto: in essa in poeta afferma che ognuno tra le mani stringe una conchiglia, dove soffia e custodisce la propria voce e che la parola è un segreto da non svelare.
Riferendosi poi presumibilmente alla presenza dell’amata, afferma il Nostro che di notte ci urtiamo senza toccarci, immagine magica e di vaga bellezza.
Nella suddetta poesia il poeta pronunciando parole entra nella sfera della poesia nella poesia, della parola stessa che si specchia in sé.
Ed ecco il titolo della raccolta Specchi ciechi che evoca qualcosa d’inquietante, di anomalo perché se in uno specchio c’è il buio lo specchio spesso perde la sua essenza, perdendo la capacità quasi magica di riflettere.
Marchetti tende all’indicibile e pare raggiungerlo e la sua poetica speculativa sugli stessi sentimenti è un unicum nel nostro panorama letterario e il poeta di questo ha coscienza.
Ogni poesia del libro ha un tono epifanico e magico nella sua brevità e la vita detta da Marchetti pur nel dolore è degna di essere vissuta anche se la vita stessa si rovescia.
Parola fortemente avvertita quella di Giulio dal forte carattere ontologico: siamo qui infatti egli afferma nell’incipit della composizione liquido.
E se la vita nel nostro postmoderno occidentale è in sé stessa liquida nel villaggio globale velocissimo sotteso a internet, e-mail, cellulari e sms la poesia valore universale sottende la possibilità del riscatto.
Un gambo di un fiore in un deserto roccioso pare diventare il simbolo e la metafora dell’esistenza stessa quando per noi occidentali, in un mondo democratico e senza guerre, si realizza ancora la possibilità dello stupore e della meraviglia.
*
Raffaele Piazza

martedì 17 marzo 2020

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO


“Ansiolitici”
Punzecchio i lombi per non prendere ansiolitici,
sostituisco i ricordi di mia madre
a tempo perso,
fra i detriti delle ore
lambite appena da pagine impossibili.
Alle mie spalle per soffocare il vuoto
un’ombra appena il pensiero,
nell’afasia del video
per lusinghe e sospetti che tornano in un lampo.
I tuoi simboli , tra le piazze barocche ed i dipinti,
scandiscono rattoppi al tuo profilo,
come le ragnatele sospese in primavera,
gonfie di strane illusioni nel gesto di parole
adagiate all’impronta di sorrisi .
Il corpo offerto ha macchie , crittogrammi
che inseguono cadenze
nell’ultimo rifiuto.
*
ANTONIO SPAGNUOLO

POESIA = RAFFAELE PIAZZA

"Alessia verso maggio 2020"

Pienezza di primavera mi pervaderà
pensa Alessia ragazza nel farsi
di cielo una veste al Parco Virgiliano
dove con il pensiero torna mentre
sta nella cameretta con i poster
dell’artico paesaggio nel riposare
nel letto dopo che lui è passato
in lei a farla fiorire come una donna
di sedici anni contati come semi.
Mi è piaciuto e non ho fatto peccato
e spera che il telefonino alle 20
le squilli e ora è già maggio nelle
fibre dell’anima e Alessia è in amore.
*
Raffaele Piazza

lunedì 16 marzo 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = PRISCO DE VIVO




Prisco De Vivo – Il lume della follia- Oèdipus Edizioni – Solofra (AV) – 2019 – pag. 65 - € 10,00

Prisco De Vivo è nato a San Giuseppe Vesuviano (Na) nel 1971. È pittore scultore e poeta. Dal 1990 ad oggi ha partecipato a varie attività culturali sul territorio nazionale. Si è interessato di poesia, teatro e cinema.
Ha collaborato a diversi periodici e riviste d’Arte e Letteratura, cartacee ed on-line; è stato presente a mostre di poesia visuale e recitals poetici.
Ha tenuto numerose esposizioni personali e collettive in Italia e all’estero: (Bruxelles, Lugano, Postdam, Praga, New York). Le sue opere sono conservate in collezioni pubbliche e private. Ha pubblicato varie raccolte di poesia.
"Il lume della follia", la nuova raccolta di Prisco De Vivo che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta una prefazione di Alfonso Guida esauriente e ricca di acribia.
Per la sua unitarietà contenutistica e formale il testo può essere considerato un poemetto e questo è avvalorato dal fatto che il libro non è scandito in sezioni per cui risulta omogeneo alla lettura.
La prima considerazione da fare riguarda il titolo della raccolta: se la pazzia, la malattia mentale è di per sé stessa un fatto doloroso e penalizzante, parlare di un lume della follia potrebbe essere un controsenso.
Sembrerebbe, invece, che De Vivo, pronunciando con urgenza il vocabolo follia, si riferisca alla santa follia, quella della quale ha discusso il filosofo Erasmo Da Rotterdam.
Non a caso il vero poeta, l’artista in generale, è un essere ipersensibile e spesso nevrotico che tramite la sua produzione esprime le infinite sfaccettature della sua mente attraverso il pensiero divergente.
Spetta al poeta stesso il compito di dominare le sue emozioni per non cadere nello spleen, la malinconia dei poeti, o nello streben, il senso dell’infinito, che può portare a catastrofiche conseguenze.
Certo la poesia stessa nasce dal dolore, dalla ferita da risanare, e, quindi, se il poeta stesso è saggio e misurato (e qui viene in mente Goethe, che nell’epoca del romanticismo tedesco tendeva a recuperare un ideale di armonia ed equilibrio riferendosi alla classicità, soprattutto a quella della Grecia antica), riuscirà a trarre addirittura gioia e sollievo nel suo lavoro di scrittura salvandosi la vita e rimanendo nell’anima sempre come un adolescente (e qui viene in mente il saggio del pedagogista Demetrio intitolato L’elogio dell’immaturità).
Dunque qui la follia è intesa come qualcosa di veramente felice e positivo per raggiungere oltretutto una dimensione umana che possa avvicinare l’individuo alla natura proprio tramite proprio la pratica dell’arte.
De Vivo come artista a tutto tondo è un visionario che pratica un’arte estrema fatto del quale sono testimonianza le opere pittoriche sull’Olocausto.
Parallelamente come poeta raffigura spesso. sia se si tratti di amore o erotismo, sia che sia detta in generale la sofferenza dell’uomo, paesaggi dell’anima desolati con immagini crude e si avverte in lui il senso della morte, del limite, inteso però in modo costruttivo, come viatico per giungere alla pienezza dell’essere e della vita.
*
Raffaele Piazza