giovedì 30 luglio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = ANTONIO CAROLLO

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Antonio Carollo: “Viaggio senza meta” –Giuliano Ladolfi editore – 2020 – pagg. 226 - € 15,00-
Voluminosa raccolta di “interventi” critici con la quale l’acuta analisi di numerosissime “scritture” realizza un panorama multicolore della letteratura italiana degli ultimi decenni e qualche accenno al passato. Figure illustri si inseguono nelle pagine che Antonio Carollo ha saputo ricamare con una capacità descrittiva eccezionale, limpida nella scrittura ed intelligente nel rastrellamento.
Da Piero Bigongiari a Roberto Carifi, da Mario Tobino a Francesco Belluomini, da Rolando Viani a Dostoevskij, da Serafino Beconi a Renato Serra, da Enzo Siciliano a Lamberto Pignotti, da Eduardo De Filippo a Ignazio Buttitta, da Umberto Boni a Marcello Lippi, da Riccardo Mazzoni a Vittorio Grotti, da Luca Ghiselli a Pupi Avati, da Lorenzo Viani a Pirandello, da Mario Rigoni Stern Roberto Alajmo, da Roberto Saviano a Renato Minore, la carrellata si offre in un ventaglio articolato e denso di sospensioni.
“E’ interessante notare – scrive Giuliano Ladolfi in prefazione – che l’autore sa unire raffinata cultura alla rievocazione dei ricordi, critica letteraria al paesaggio, nel quale fiorirono moltissimi scrittori e poeti. E proprio questa grazia narrativa gli permette di delineare le personalità del singolo autore all’interno e all’esterno della scrittura in un’alternanza tra rappresentazione impersonale e rapporto di amicizia, intrattenuto con molti di essi.”
Squarci di vita vissuta che diventano mano a mano dei veri e propri stralci di racconto, incontri con personaggi letterari celebrati nella fusione degli orizzonti, sospensioni di atmosfere nella limpidezza dei ricordi, rievocazioni di episodi, di eventi, di incontri, di pensieri, di emozioni, in un fiume di parole che decorano tempi per i quali spiccano fascinazioni.
La stesura è piana, corretta, ricca di seduzioni, intrisa da una straordinaria delicata sensibilità, che contrassegna con vigore il bagaglio culturale che la sostiene.
ANTONIO SPAGNUOLO

mercoledì 29 luglio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCESCA LO BUE

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Francesca Lo Bue,"Albero di Alfabeti", Società editrice Dante alighieri, Roma 2020

Gli elementi centrali delle composizioni poetiche di Francesca Lo Bue sono riferibili alla magia del linguaggio in tutte le sue espressioni. Così le emozioni, la parola e gli itinerari, danno luogo ad una serie di espedienti simbolici capaci di evocare e di invocare dei significati arcani quali cifre del mistero in tutta la sua profondità. Il presente volume affida l’immaginazione poetica ad un elemento nel contempo ludico e simbolico costituito dall’alfabeto che, a partire dalla memoria simbolica sedimentata nei testi biblici, giunge all’attualità delle due lingue che danno luogo alle poesie della nostra autrice, vale a dire l’italiano e lo spagnolo nel loro parallelismo semantico che prende corpo nel fluire dell’immaginazione creativa. In questo quadro di riferimento la complessità delle immagini che esprimono i contenuti delle poesie, compiono il tentativo di comunicarci i pensieri e i ricordi oggetto dei significati nascosti delle parole che raccontano il mondo della natura, il mondo della vita e il mondo dei sentimenti interiori. Del resto non possiamo dimenticare che biblicamente i racconti della Creazione realizzano attraverso la parola la presa di possesso del mondo degli esseri viventi da parte dell’uomo, allorché accetta il dono gratuito che Dio gli consegna nel mondo paradisiaco dell’Eden. In tale situazione la Lo Bue, riconferma l’idea che la poesia e il racconto sono delle reali manifestazioni del pensiero in tutte le sue modalità espressive.
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Aurelio Rizzacasa

A

Aspirazione è dissotterrare il ritmo del tuo
alfabeto.
Acque solenni desidera il mio cuore che mastica desolazione,
aria limpida e sedili di pietra per leggere nei solchi del tuo
abaco enigmatico. Nelle
azzurre forme delle nubi fuggenti la tua
anima modella il ritmo di una
assonanza remota nel vespertino grigiore luminescente.
**
Aspiración es desenterrar el ritmo de tu
alfabeto.
Aguas solemnes quieren mi corazón que mastica desolación,
aire límpido y asiento de piedra para leer en los surcos de tu
abaco enigmático, en las
azules formas de las nubes errantes. Tu
alma modela el ritmo de una
asonancia remota, en las vespertinas astillas luminiscentes.
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martedì 28 luglio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIOELE AMMIRABILE

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Gioele Ammirabile – Tutto il resto appassì…- Terra Marique ed.- 2015 Pagg. 116; Prezzo € 10,00

Un triennio e poco più di mutamenti avvenuti per la condizione propria, vitale; trattasi di una situazione ordinaria quella di ottenere definizioni che si evolvono, proporzionali ai testi che si compongono instaurando un principio di neodecadentismo.

I passi si compiono cominciando dalla scontrosità accertabile per un’avversione forte dacché triste e veritiera è l’esistenza terrena, per giungere al desiderio di concentrarsi sui principi svenevoli ma radicati nell’umanità di quest’epoca moderna.

Un grosso, amaro boccone a seconda dei modi di fare e di ragionare imperanti oggi va tuttora inghiottito; ciononostante brilla l’invito di concepire assieme al giovane autore l’intensità scaturita da singoli versi, omaggiando con completezza una passionalità sempre e solo da mirare.

Gioele sembra costretto a sostenersi con una memoria vagante, e, non badando alla destinazione, deliziarsi con qualsiasi viaggio, tanto da sentirsi allegro contemplando un concetto primordiale mentre diventa leggero giustappunto per sorvolare, assistito animosamente, il pianeta che lo influenza, che merita troppe pene da infliggere, puntando su di un’aspirazione purché sia piacevole.

Il tramutarsi in un combattente privabile delle sue sfide rappresenta d’incanto il sorgere del sole, alla riprova della superficialità di molti individui che si conservano, non dando adito alla necessità di ulteriori esperienze di vita, e dunque al riparo dall’estraneità, senza comprendere il danno letale che si provocano perdendosi in un niente, non volendo pazientare sensibilmente, accentuando della falsità indiretta per costituirne vanteria.

Eppure ci affermiamo in base a una selezione spontanea, non vale dire alcuna bugia se non si demorde in concreto.

Inquadrando esclusivamente un fulmine viene meno la sua potenza, sfruttando della saggezza allusiva per ogni immagine della coscienza, con un carico d’energia da comportare affianco per misurare il malessere collettivo, la carenza di verità ridicolizzante il bene immateriale.

Strattonati da menti dolorose, ecco che risuona l’ilarità per una vista così gagliarda da farla finita.

La dimensione del poeta si rischiara interiormente, come l’augurio per un buon appetito; ma le soluzioni per riemergere vanno a farsi benedire perennemente, date delle ambizioni che intensificherebbero dei dispiaceri con accessori e trucchi alle strette di una negatività sociale che affonda nell’oltre.

La meraviglia, mai di base, viene immaginata attraverso la musica del tempo libero, in privato, nell’assenza di prospettive per un qualsiasi stato dell’anima.

Dall’esterno, ci si aspetta un contributo indispensabile, materiale, senza dare retta ad alcun rapporto tra la causa e l’effetto; ma intuendo il pensiero a forza di raccoglierci, per una compatibilità ambientale, relegante le difficoltà che sono sempre più spigolose, possiamo caratterizzare il buonsenso apertamente.

Gioele soffre di un sapere sproporzionato, e ciò gli condiziona unicamente la salute; come anche di un’egemonia spirituale a prova di scompenso emotivo, nell’intento di essere riconosciuto, col destino segnato, cioè col dovere di muoversi per non annoiare, di far passare il tempo amabilmente,

consigliando a chiunque di dotarsi di un sogno da esprimere, per appisolarsi infine tranquillamente, eternamente.

“Se avete in mente qualcosa che vi tiene svegli, tiratela fuori. Poi addormentarsi sarà più semplice”.

L’ignoto oscura le confidenze, però arreca la probabilità d’improvvisare alla grande per una degna alternativa al creato; con l’impossibilità d’essere felici che comunque serve per maturare appieno, con le conoscenze che nobilitano ma non ti spingono ad accettare in fondo le scuse in teoria per aver accennato all’immoralità in pratica.

Gioele non si reputa come lo sbaglio singolare dovendo dare conto della macelleria sociale, coinvolgente, sentita della cattiveria nell’individuo, nella questione da porre come una tempesta impetuosa, sempre insolita, che una goccia di dolore contiene, rimuovibile una volta scrollato un affetto.

Egli vuole sapere delle conseguenze di un autunno ridondante, soffocato dalla stupida, preesistente moltitudine, e annebbiato dalla falsità che quasi sempre ricolloca pazzamente il pensiero, volendo piuttosto smascherarsi appurato il flop di un film fatto come tanti.

L’impeto vitale si è rotto, è caduto irrimediabilmente per un incanto qual è riflettersi al microscopio, con l’immobilità da sfruttare per rialzare lo sguardo al massimo, per quel sollievo che ti sorprenderà con un tramonto dolce e intenso, da inculcare in vista del maltempo.

La risata consiste nella filosofia scontata, a fronte dell’offuscamento generato dall’euforia che è solo di rapido consumo, con lo stato in essere proporzionato per qualcosa che magari non ci riguarda, dove la compravendita strugge gl’infedeli a priori.

È come se non si fosse più capaci di spiegare lo squarcio di una nube per effetto di una luce primaria (“Non sarò mai in grado di descrivere il raggio di sole che attraversa una nuvola”), pervasi dal mistero, avendolo comparato a un vizio supremo, all’estremo degli alti & bassi d’umore, tipici del ragazzo che sa il fatto suo, somministrando al nulla l’eterno, con la solitudine umana, rilevante per tendere la mano, alla ricerca del nodo spirituale nel buio della miseria che è davanti a noi oramai, strattonata da curiosi fantasmi; con l’eccezione della sofferenza che scava nel respiro terreno, per l’avvenire avvincente aldilà di tutto.

Sono sinuose le paure indeterminate, alluvionate, per un’attrazione che rileghi la necessità al beneficio, così da immergere il proprio rammarico nell’odio liquidatosi, e ricominciare di gusto a chiedere banalmente dei consulti per un senso d’uguaglianza da bersagliare.

Storicamente i fatti hanno portato male a quelli che si accontentano di sopravvivere, le persone fuori dal comune, di riferimento, non trovano mai ostacoli per palesare sincerità concretamente, fino alla loro fine.

Si tralascia la propria importanza per sballarsi in compagnia, e non capire come si è arrivati a ciò, preferendo puntare sull’irresponsabilità senza complessare alcuna mente.

Per uscire matti Gioele può incorporare una novità tendenziosa, sfoderando conoscenze, non commestibili ma che servano per non essere deglutiti dalla visione globale.

Fredde primizie, di una profondità tenebrosa, permettono che dalla povertà esca fuori il buono di noi, alla faccia di un passato che sortisce le giuste condizioni infine.

L’illuminazione viene assorbita lentamente, per rimanere con gli occhi aperti, e coltri di una disperazione ricamata per il bene dei folli, essendo inconsistenti, abili a sopravvalutarci per le feste dell’immaginario, di una carne talmente tenera da far nutrire il sentimento che sogniamo quando per l’intelletto s’è fatto tardi.

La passività è trascinante purtroppo per gli anomali, nel chiuso del numero 0, nel potenziale da esprimere quando lo si vuole.

“La prigione sta nell'essere liberi nel più totale e inesistente nulla”.

L’inferno è come se appartenesse all’alba di un’idea avente inoltre un pubblico privo di stimoli ma irrefrenabile; e chi non crede al buonsenso in terra caratterizza lo sblocco emotivo altrove.

D’altronde non si perdona la mancata percezione del sacro, ne siamo particolarmente sicuri per fare in modo che s’incuta terrore, e non v’è diritto di replica.

L’umanità è alle prese con una forma di tossicodipendenza ricreativa, la fortuna di non comprendere ogni cosa da innocenti va tutelata con coraggio, viceversa possiamo aspirare alla custodia di un cimitero a perdita d’occhio.

Se il tormento cessa, allora si deve dare conto ai resti di ciò e in un tempo incondizionato, essendo emersi all’apice della fatica dimensionale, che annienta l’emotività.

“Siamo nati nell'esplosione di un affanno; come un universo che né si accende né si spegne”.

Il buon proposito consiste nella razionalità che deve pervenire, per far sì che un tormento pieno di contenuti sia visibile.

In realtà si scherza, ci si disorienta per via di una missione di fede, tra strumenti che si muovono da sé, da incoraggiare concependo la bellezza energicamente, senza che si dia più per scontata la scelleratezza del senso di trasporto, per armonizzare la frenesia quotidiana, confortati magari da un saggio fantasma, frutto di una storiella ben narrata alla fine del manoscritto, ossia dell’immaginario che stringe la mano della memoria plasmante la ragione in concreto; trattasi cioè dell’entità che sorride all’individuo a causa del vittimismo tipico dei nostri tempi.

Perché l’esistenza se volge davvero all’eterno allora inquieta al dir poco, ma arreca la necessità di comprendere il piacere, variegato, di tenere a bada la propria complessa attività; cosicché svegliarsi al sorgere del sole, sempre, significa stare bene per andare al massimo, e con tutti i colori da usare.
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VINCENZO CALO'

SEGNALAZIONE VOLUMI = GERARDO PEDICINI

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Gerardo Pedicini: “Verso sera” Ed. Etra/arte 2019 – pagg. 132 - s.i.p.
La dotta e corposa prefazione di Carlo Di Lieto ci avvia ad una lettura attenta e ponderata di questa raccolta, per quella colorata carica che cerca di misurarsi con il sub conscio e con le preziose architetture della tradizione.
“Gerardo Pedicini – egli scrive – in questa preziosa silloge poetica, dal titolo emblematico , mette insieme, per accumulo, le proiezioni del suo pensiero emozionale; le immagini si stagliano imperiose nel cerchio magico del ricordo, sospeso tra il tempo contingente della caducità e la ricerca inesausta dell’essere.”
Il ritmo che incalza ha il sapore dell’imprevisto anche se la quotidianità afferma la sua inequivocabile violenza: “a guardia della casa/ lasciammo il cuore/ aggrappato alle radici/ dei lillà riversi nel pantano./ altri lidi ci accolsero, altre essenze,/ non la tua/ lucivaga azzurrina./ il cammino è stato duro, e cieca/ la sorte si è confusa/ come uno stelo/ perso in mezzo al prato/ tra le grida pestilenziali della gente/ nell’ingorgo vorace dei rumori/ del nastro magnetico del traffico.”
Nelle aspettative del dettato appare sempre un richiamo alla cultura genuina, che non è semplice trascrizione, ma capacità di prospettare nuovi orizzonti ideali, di rianimare l’immaginazione, di rispolverare idee e sentimenti, nella consapevolezza del “graffiante”.
Il tempo che sfila divide aspettative e memorie, le foglie cadono per rammentare il destino degli umani, le “ombre chiuse nel presagio” cercano il riflesso delle apparizioni tra il mistero di una torre diroccata e l’azzurro che rincorre tramonti, la voce del compagno vortica sul punto grigio della battigia, il marmo conserva indiscreto il rosario che accenna alla cenere, l’alba ha il freddo smalto che annienta, la nebbia avvolge la sabbia di una clessidra.
Gerardo Pedicini ricama il palpito dell’attesa, il tessuto rigoglioso del racconto autobiografico, le condivisioni del ricordo, il riverbero degli affanni in un equilibrio dall’eccezionale struttura, nella scansione urgente della poesia che accompagna le pagine nel gioco aperto delle metafore.
La vera poesia è uno stato vivente della parola, che si espande in un rapporto di continuità nel tratto singolare del simbolo, che si illumina e si esaurisce in un semplice filosofare che resiste all’incedere dello svanire. Nelle figure che si stagliano in queste liriche la scena onirica si materializza dentro le tracce del fenomeno, con una rinnovata capacità del dire, ove l’oggetto ha la potenza dell’archetipo, dove il verso interviene per enfatizzare la musica.
Interessante constatare che moltissime poesie della silloge portano dediche a personaggi vari, amici, poeti, compagni di viaggio, così da incuriosire il lettore che voglia indagare nell’intimo bagaglio dell’autore, quando “l’estrema ansia brucia i giorni”, quando si abbandona “come un fuscello alla deriva di soglia in soglia”, quando “lungo il cammino lascia tracce d’incenso”, quando “spalanca la porta al ribollente magma del mondo contemporaneo”, quando “arso dal gelo resta in piedi davanti alla porta”.
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ANTONIO SPAGNUOLO


lunedì 27 luglio 2020

RIVISTA = LE MUSE

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Le Muse-- Bimestrale per il mondo dell’arte e della cultura – Anno XX – giugno 2020.

Le Muse è una rivista d’arte e cultura fondata da Paolo Borruto e Maria Teresa Liuzzo venti anni fa e quindi può considerarsi storica nel nostro panorama letterario, scenario nel quale molte riviste di questo genere chiudono i battenti dopo poco o pochissimo tempo dai loro inizi.
Le Muse è organo ufficiale dell’Ass.ne Lirico – Drammatica Arte e Cultura Pasquale Benindende.
Maria Teresa Liuzzo ricopre i ruoli di Editore, Direttore Responsabile e Direttore Pubbliche Relazioni.
I vicedirettori sono Davide Borruto e Stefano Mangione e lo stesso Borruto è Direttore della Redazione e gestisce i rapporti con gli Istituti Culturali.
Molto nutrito il Comitato Letterario di Redazione del quale ha fatto parte la figura di spicco di Giorgio Bàrberi Squarotti.
Le Muse annovera Corrispondenti Esteri in Romania, Spagna, U.S.A. e Argentina.
La Direzione e l’Amministrazione di Le Muse sono a Ravagnese di Reggio Calabria e tra le riviste artistiche cartacee del Meridione, quella che prendiamo in considerazione in questa sede può considerarsi una delle più serie ed eclettiche.
Ricchissimo il sommario che presenta l’Editoriale di Davide Borruto per la ricorrenza del centoventesimo anniversario della nascita di Edoardo De Filippo, gigante della cultura italiana ed europea del secolo scorso.
Seguono parti dedicate a poesie di poeti dei quali spesso sono inserite le fotografie e sezioni che contengono poesie di poeti italiani celebrati all’estero come Antonella De Siena tradotta in lingua spagnola.
Il personaggio del mese in Autori del Terzo Millennio è Marina Cicogna Mozzoni Volpi di Misurata, regina del jet set internazionale attrice e produttrice cinematografica, della quale è pubblicata la foto a colori in copertina.
Nel bimestrale s’incontrano saggi e recensioni di qualità e una Rubrica è dedicata all’esercizio della satira attraverso la metrica della filastrocca a cura di Maria Teresa Liuzza.
Una lettura impegnata, un caleidoscopio di articoli e testi poetici connotati dal comune denominatore della qualità a dimostrazione che ancora una volta scommettere sulla poesia e l’arte in generale con espressioni cartacee si rivela una scelta vincente per i valori dell’essere che sono ancora in piedi in un mondo dominato dalla mentalità dell’avere.
Un’immersione tout-court nella bellezza che supera di gran lunga la mentalità del mero apparire.
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Raffaele Piazza

sabato 25 luglio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = CARLO DI LIETO

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Carlo Di Lieto : “Angelismo e doppio nella poesia di Luigi Pirandello” – Il Convivio editore – 2020 – pagg.144- € 14,00-
Indagine accurata ed esaustiva condotta nel percorso dell’opera poetica di Pirandello, a volte precorritrice della narrativa e del teatro, ma inaspettatamente esplosiva nella sua sublimazione, in quell’universo poetico ove uno “straordinario candore angelico blandisce la coscienza disajutata del poeta, dimidiata tra élan vital ed Erlebnis”.
Pirandello naviga nell’etereo e la sua poesia diventa mito inquietante, enigma ricamato, sinergia io/altro che si palesa nella descrizione della quotidianità.
“La poesia per Pirandello è una sorta di malattia dello spirito, una vanità appagante, le cui immagini vengono da se…” non scelte dal poeta, ma espulse dal sub conscio, in una proiezione policromatica e densa di progressione.
I paragrafi si susseguono in un percorso alimentato da un bagaglio culturale genuino e veramente singolare, quale Di Lieto offre nella sua capacità particolare di saper esporre con delicata eleganza e con accattivante scrittura.
Ogni passaggio cattura la seduzione dell’essere, la trascendenza della vocazione, lo slittamento del vissuto, la luminosità dei contrasti e delle alterità, l’intimità inconclusa, le pulsioni emozionali, il tutto sapientemente sostenuto dal riferimento illuminante dell’indagine psicoanalitica.
ANTONIO SPAGNUOLO

SEGNALAZIONE VOLUMI = EDITH DZIEDUSZYCKA

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Edith Dzieduszycka – Tra un pensiero e l’altro--Genesi Editrice – Torino – 2020 – pag. 117 - € 16,00

Di origine francese, Edith de Hody Dzieduszycka nasce a Strasburgo, dove compie studi classici. Attratta sin da giovane dal mondo dell’arte, i suoi primi disegni, collage e poesie risalgono all’adolescenza passata in Francia. Ha partecipato a numerose mostre personali e collettive, nazionali ed internazionali e si è dedicata alla scrittura. Ha pubblicato numerosi libri di poesia, fotografia, una raccolta di racconti e un romanzo.
"Tra un pensiero e l’altro", la raccolta di poesie che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta una prefazione di Céline Menghi esauriente e ricca di acribia, nella quale viene detto anche il cambiamento di stile di vita al tempo della pandemia che sottende anche la scrittura poetica.
Il volume non è scandito è per la sua unitarietà stilistica e contenutistica potrebbe essere considerato un poemetto, anche per il fatto che tutti i componimenti che lo costituiscono sono senza titolo, elemento che accentua la fluidità dell’ordine del discorso.
Una poetica tout-court ontologica connota l’insieme compatto delle composizioni che scavano profondamente nel pozzo dell’essenza ultima dell’essere sotto specie umana, per dirla con Mario Luzi.
Vita, essere e pensiero, enti collegati tra loro e per molti versi inconoscibili e indefinibili nel loro mistero, e anche essenze sovrapponibili e contigue, sembrano essere i protagonisti di un libro di poesia nel quale l’io – poetante si ripiega e riflette su sé stesso in maniera lucidissima e autocentrata abbandonandosi ad un intenso solipsismo.
Del tutto antilirico il poiein di Edith che scrive: Girandola/ vertigine/ si ergono e ballano/ e furenti mi stringono/ i miei pensieri/ in una morsa viva/… e così crea una tensione e un’atmosfera di onirismo purgatoriale.
Leggendo i suddetti versi il lettore s’identifica con l’io-poetante inevitabilmente nell’attraversare situazioni universali e così l’io – poetante diviene universale archetipo di ogni essere pensante.
Se noi tutti come persone siamo più quello che pensiamo che quello che facciamo allora l’essere per dirla con Cartesio diviene sostanza pensante (cogito ergo sum) e così in questo caso il cerchio si chiude quando i pensieri divengono parole e le parole poesie, sublimazione dell’atto del pensiero.
Una poesia che non può non tenere conto della categoria del tempo: A qualcosa servissero/ le ore/ passate a rigirarsi nell’alveo dell’alba.
E i pensieri nascosti si fanno tessuti linguistici se siamo fatti della stoffa dei sogni che altro non sono che pensiero.
Per usare una metafora musicale ogni singolo componimento può essere considerato come la variazione su un tema, quello del pensiero, tema intrigante per la sua invisibilità e ammesso che la telepatia esista non si potrà mai conoscere il pensiero di una persona al completo come flusso di coscienza.
Un misurato intellettualismo è alla base del fare poesia della poetessa come già si era constata in molte raccolte precedenti.
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Raffaele Piazza

venerdì 24 luglio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = CARLO DI LIETO

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Carlo Di Lieto : “Scena onirica e radialità dell’immaginario nell’opera di Ugo Piscopo – Edizioni Scientifiche Italiane – 2020 – pagg. 336 - € 38,00.
Voluminoso omaggio all’opera di Ugo Piscopo, uno dei referenti più complessi ed articolati della civiltà letteraria del nostro tempo, saldo com’è nella nominazione e nella passione del segno vigoroso della poesia e della critica. La letteratura è un processo in atto, in continua tensione e svolgimento, in cui magmaticamente e per canali troppo spesso sotterranei si intrecciano e reagiscono prosa e poesia, come testimonia l’ampia produzione saggistica di questi, coordinata alla lirica, alla narrativa, al teatro. Con lui si naviga senza timore tra la complicità musicale dell’ascolto e le euritmie delle armonie, proiettate sempre nella interezza dell’immagine, il cui gioco continua a procedere per incastri di frasi e stupori, per schemi incisi con energia, con sobbalzi e trepidazioni, che fanno del testo una vera e propria vertigine della parola.
Con questo volume Carlo Di Lieto conferma ancora una volta il suo instancabile scandaglio immerso nella ricerca di preziose testimonianze culturali, particolarmente attento alla produzione poetica che manifesta bagliori di impegno indiscusso in questo universo incantato, che lega la creatività alla convulsa esperienza esistenziale.
I capitoli si susseguono incandescenti : da “Oltranza e inquieto sentire nella produzione poetica” a “Scena onirica e intermittenze del cuore nell’opera di Ugo Piscopo”, da “Identità, alterità e doppio nell’esegesi bontempelliana e oltre” a “La poesia contemporanea de La rotta di Ulisse”, a “Pagine critiche” e “Studi critici” con interventi di Luigi Fontanella, Stefano Lanuzza, Giorgio Bàrberi Squarotti, Marcello Carlino, Mario M. Gabriele, Carlangelo Mauro, Angelo Mundula, Paolo Saggese, Ciro Vitiello, Antonio Spagnuolo.
Completa il volume un’ampia Antologia poetica, teatrale, narrativa, saggistica, oltre a stralci di interventi giornalistici.
La scrittura ci avvince per la chiara stesura che la distingue, capace di sottolineare con semplicità le percezioni del reale che avvince, tra l’espediente narrativo ed il tocco del registro, sempre attento e controllato. Un profondo impianto strutturale attraversa la proposta di indagine, alla ricerca di quei traguardi che l’autore è riuscito a raggiungere con l’impegno di accorto uomo di cultura.
Particolarmente interessante la prefazione di Felice Piemontese quando con pubblica confessione sottolinea l’illusione, o meglio la negatività dell’avventura del Gruppo 63.
Chiude la postfazione di Matteo Palumbo con il sottile senso dell’intreccio dottrinario.
ANTONIO SPAGNUOLO

SEGNALAZIONE VOLUMI = BRINA MAURER

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Brina Maurer: "Vocabolari e altri vocabolari"- Ed. Macabor 2020 -

Claudia Manuela Turco, che si firma in arte Brina Maurer, è – per quel poco che so di lei – persona appartata che cerca di portare il proprio contributo a un migliore andamento del mondo da lontano, con la parola scritta e versificata e potrebbe essere per questo che la sua ultima raccolta si intitola VOCABOLARI E ALTRI VOCABOLARI. Si tratta di un libro alto, che si fa militante soprattutto sul fronte della protezione degli animali, e in particolare degli animali disabili. Ma, a partire da questo Leitmotiv – e prendendo la rincorsa da ancora ‘più indietro’: una bambola di legno abbandonata in discarica –, il discorso che si sviluppa è di nobile chiamata a una più sensibile attenzione a tutti gli altri esseri del mondo, a un «restiamo umani» che troppo spesso viene non dico dimenticato, ma direttamente (e intenzionalmente) calpestato, da indifferenza, sprezzo, diffusa violenza, slogan aggressivi – in una parola dal Male.
Di questa raccolta, scritta di getto durante l’èra del COVID-19, densa e dolente, in cui le parole si caricano di nuova vitalità, giocando con le colleghe di contesto, e levandosi sopra e contro i correnti egoismi, un passaggio in particolare mi ha colpito: «Perché bisogna difendersi dalla vita,/ non dalla morte». Dalla vita come miniera di sventure. Ma anche come deposito di viventi che la vita la complicano o la distruggono agli altri. E questi versi sono nella poesia che riporto qui sotto, e che si intitola “Ho ucciso”. Storia di un ‘minuscolo’ incidente come tanti ne càpitano, e che in certe esistenze non lasciano il segno. Ma in altre sì, per fortuna.
Raccomando caldamente a chi ami la poesia questa raccolta. Qualche giorno fa, parlando di Seneca, mi capitava di ricordare una sua celebre “sententia” che credo si adatti anche a Brina Maurer/Claudia Manuela Turco: “in hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem: posterorum negotium ago” (“per questo mi sono rifugiato in me stesso e ho chiuso ogni porta: per poter essere di giovamento a molti; è del bene dei posteri che mi occupo”).
Fra le interviste reperibili online all’autrice, segnalo in particolare quella a cura di Alessia Mocci: https://oubliettemagazine.com/2020/06/06/intervista-di-alessia-mocci-a-brina-maurer-vi-presentiamo-vocabolari-e-altri-vocabolari/
Mentre chiudo queste poche note leggo di un certo consigliere di un certo partito che avrebbe approvato con un like un post in cui «si inneggia a Hitler e ai forni crematori». Gli dedico questi pochi versi di Brina Maurer, consapevole, come lei e Patrizia Cavalli, che le poesie non cambieranno il mondo, ma anche, come lei e Vivian Lamarque, che invece sì, prima o poi, lo cambieranno, anche se “forse”, e fra tanto tanto tempo (“come un nevicare lento lento”: Lamarque, in “Madre d’inverno”): “Nessuno nasce nazista. / Qualcuno ha partorito e cresciuto / anche questi vigliacchi / dalla coscienza inerte.”
Di qui la necessità di un contrappeso. I vocabolari questa funzione la svolgono bene; e, se non bastassero, allora altri vocabolari.
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ALESSANDRO FO -

mercoledì 22 luglio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIANCARLO STOCCORO

Giancarlo Stoccoro – L’intuizione dell’alba-- puntoacapo Editrice – Pasturana (AL) – 2020 – pag. 147 - € 15.00

L’intuizione dell’alba, la raccolta di poesie di Giancarlo Stoccoro che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta una prefazione di Ivan Fedeli esauriente e ricca di acribia.
Nel suddetto scritto Fedeli parla di un ritorno ad Ungaretti nella ricerca del Nostro soprattutto nella rivisitazione della parola – luce.
I componimenti poetici sono tutti scabri e icastici, essenziali e densi nella loro notevole compattezza.
Spesso il tono che li permea è didascalico ed epigrammatico come se il poeta puntasse la sua penna – cinepresa sulla realtà circostante traducendola in versi carichi di suggestiva magia e sospensione.
Le stringhe di parole dette con urgenza si avvicendano producendo composizioni raffinate sempre ben dosate e ben cesellate.
Si realizza a tutto tondo il fascino della linearità dell’incanto anche attraverso la piena immersione dell’io-poetante nella natura, natura che costituisce uno dei temi fondamentali del volume ed è detta sempre in modo rarefatto, icastico ed efficace.
Per esempio viene nominato molto spesso il mare, un mare interiorizzato e simbolico.
È frequentissima e fondamentale la presenza di un tu del quale ogni riferimento resta taciutoal quale l’io-poetante si rivolge come se cercasse di trovare nell’interlocutore un’ancora di salvezza.
Tutti i componimenti sono brevi e senza titolo elemento che ne accresce il fascino e la raccolta per la sua unitarietà stilistica e contenutistica potrebbe essere considerata un poemetto.
Il volume è composito e articolato a livello architettonico ed è suddiviso nella parte eponima composta dalle sezioni L’esercizio del mare, Fessure minime e Parole accese e in Il privilegio dei sostantivi, costituito dalle parti Distanze, Ombre di luce ferma e Rima una voce sola.
Cifra essenziale della poetica di Giancarlo pare essere lo stabile inverarsi di una tensione neolirica nei sintagmi nel loro aggregarsi producendo immagini correlate tra loro cariche d’ipersegno e dense di senso.
Colpisce la chiarezza nei dettati, cosa rara nel panorama odierno dominato dagli orfismi e dagli sperimentalismi.
Nelle atmosfere intense che il poeta sa creare si realizza una forte densità metaforica, sinestesica e semantica in poesie che emozionano e illuminano il lettore che affonda nelle pagine.
La forma è sempre equilibrata e ben controllata e questo pare essere uno dei pregi essenziali di questa scrittura che sorprende per le sue accensioni subitanee e per gli spegnimenti.
L’ordine del discorso si risolve in un acuto esercizio di conoscenza e il poeta metaforicamente pare scrivere un diario di bordo del viaggio che è la vita.
Una vena speculativa si realizza nel ripiegarsi dell’io-poetante su sé stesso.
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Raffaele Piazza

SEGNALAZIONE VOLUMI = MARIO FRESA

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Mario Fresa : “Bestia divina” – La scuola di Pitagora editrice – 2020 – pagg. 64 - € 8,00
Il rapporto che Mario Fresa stringe con la parola poetica è un vincolo stranamente vertiginoso, che riesce a sorprendere pagina dopo pagina per quella singolare capacità di coinvolgere in un rapporto semantico, che dalla frase sospesa sposta in una articolazione empirica, che gioca nella sospensione di polarizzazione degli opposti, o travalica ogni senso di concretezza logica.
Nel verso si affaccia prepotente il bagaglio multicolore che il sub conscio racchiude gelosamente tra le circonvoluzioni cerebrali, sempre accese da uno scintillio cromatico che cerca di espandersi nella interminabile evoluzione dell’onirico, divenendo improvvisamente amalgama inscindibile della creatività, sia mediante l’auto osservazione sia nel conflitto di indagine del territorio circostante.
“I versi di Fresa – scrive Andrea Corona nella prefazione – osano l’aporia, osano avventurarsi oltre le catene della sintassi per approdare a quel che la psicanalisi freudiana chiamava l’ombelico del sogno, nodo inaccessibile all’analisi. La poesia si fa allora estroflessione dell’inconscio, si fa condensazione e spostamento, si fa sogno stesso.”
“E qui dov’è il dolore? Sta giusto ai piedi del mese / e poi da solo si fa un enorme letto, quadi dal niente; / ma poi si sa…gambe magnolia che hanno corta memoria/ proprio di te, forno dolore; e chi dorme non è distante/ dal piccolo semino morto, dalla sua bianca/ vena di terrore.”
Il poeta traccia con segno spavaldo lo svelamento delle figure, le tensioni della storia quotidiana, l’abbozzo del paesaggio che circonda, le sospensioni della memoria, l’allarme improvviso di una metamorfosi, il confronto a volte ingiusto dei sentimenti. E per il poeta l’inconscio è lo psichico reale, nel vero senso della parola, per la sua natura intima e per la rappresentazione del mondo esterno, rinchiuso come in un cerchio, che costringe a sua volta nel contesto delle pulsioni.
“Avete visto com’è spettro e bicchiere, questo corpo? / Quando la noti, si fa destino intero;/ viaggio di lingua e orrendo viso di terrore./ Il nostro colloquio s’apre come un insetto male/ che ad ogni dolce notizia spara, dalla ringhiera, il due;/ s’ingoia proprio tutto, stomaco e sogno:/ fino al cervello celeste, possessivo.”
Il laboratorio dell’autore si fonde in un intreccio ingarbugliato della realtà, e la caratteristica polifonica ha senza tema richiami lirico drammatici, nella composizione della rivelazione che coglie la pienezza della “presenza”, e nella essenzialità del dettato tutto teso alla interpretazione istintiva della fantasia.
ANTONIO SPAGNUOLO

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCO DIONESALVI

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FRANCO DIONESALVI : "Base centrale" - Ed. Arcipelago Itaca . 2020 - pag. 68 - € 12,50
Nella premessa a "Base centrale" Franco Dionesalvi ripercorre le vicende della propria alterazione psichica. Quale la ragione di questa sommessa cronistoria? Non certo per rievocare le fasi della sua malattia, né tantomeno la sofferenza di due anni di apprensioni e consulti, di attacchi di panico, di micro-crisi epilettiche succedutisi “alla media di due al giorno”. Quel che gli sta a cuore è testimoniare che in lui ciò che è vivo, dopo il recupero delle proprie energie, è la poesia. Egli è consapevole che in lui agiscono “due spinte opposte, forse entrambe vere: sentire che se una cosa non la ricordi l’hai persa per sempre; percepire che se di una azione non hai alcuna memoria ti viene donata una seconda volta”. Da qui la necessità di riappropriarsi del proprio vissuto senza, per questo, abbandonarsi al massimo tormento di lasciarsi prendere dalla ricerca della parola come accadeva a “quei quattro pa-ranoici impalpabili / veggenti” che “almanaccavano di vocabolari / si struggevano ansimavano del niente”. Come per Eliot e Montale, il tessuto emotivo e il ripristino dei risvolti memorali non si esauriscono in sé stessi, diventano la fonte essenziale e insostituibile per palesare il proprio disagio esistenziale. Fin dalle prime raccolte, e valga come esempio per tutte: La fragola e il pianoforte, (Marra editore, 1980), in lui la parola poetica, epurata da qualsiasi orpello letterario, assolve a un carattere istitutivo-rivelativo, nel senso indicato da Heidegger, per portare alla luce ciò che è nascosto, ciò che si cela o, al momento, è stato seppellito, in parte o in toto, nei meandri della psiche. Da qui il continuo scandaglio interiore; da qui l’insistente lavorio per rammendare la rete smagliata della me-moria che la malattia ha lasciato dietro di sé. Ricomporre il tempo perduto è l’unica via per superare questa nuova forma di “sindrome di Stendhal”. Più facile a dirsi che a farsi. Come superare l’impasse? Come riportare alla luce le tracce del passato? Come consentire di far affiorare dal profondo l’inten-sità emotiva “senza limare nulla”? La scalata non è agevole. Secondo la logica matteblanciana ciò è possibile attraverso un continuo processo introspettivo che consente agli eventi del passato di ritor-nare alla luce ordinati in una serie infinita di insiemi corrispondenti alle reazioni a catena tra le emo-zioni e gli sviluppi delle rifrangenze concettuali. Nel ritorno del rimosso infatti il flusso della co-scienza e il principio di simmetria, connotandosi tra di loro, consentono alla realtà esterna di corri-spondere a quella interna, palesando e potenziando, come scrive Virginia Wolf, “l’incoscienza come peculiare caratteristica del proprio status”. In questo Svevo è stato un maestro. Ne è la prova il gioco delle alternanze e delle contrapposizioni dei suoi personaggi. Di volta in volta la “nevrosi ossessiva” individua, nella forma della scrittura, le possibili vie per scoprire e denudare il fondo oscuro che sovrasta le loro azioni. Questo processo di svelamento e, nello stesso tempo, di palesi occultamenti, non è altro che una continua “dissimulazione onesta”. La verità, o presunta tale, viene sempre diffe-rita. Passa da una situazione all’altra senza mai trovare il modo di sfuggire al dolore. L’io ne esce sempre deluso e sempre più soggetto ai propri meccanismi interiori. Non così in Franco Dionesalvi. In lui la scrittura poetica non risiede nella ricerca di un altro da sé ma nel tentativo di ritrovare, negli anfratti del proprio inconscio, le istanze più profonde del proprio esserci. Attraverso la ricomposi-zione frammentata dei ricordi, il poeta ricostruisce il proprio vissuto. Ogni minimo aspetto del pas-sato, prelevato dalla eliotiana land desolata o, meglio, dalla sua personale “valle del pensiero”, as-sume un proprio intimo significato: diventa cioè una figura metaforica, capace di dare nuova luce ai trascorsi avvenimenti. È questa l’unica rivalsa dell’interiorità da contrapporre, tra sogno e veglia, alla dura realtà. Sorretto dalla voce del profondo il poeta riesce a superare il disagio delle proprie sconfitte e a proiettare il proprio io al di là dei ripetitivi e convenzionali accadimenti della ordinaria realtà del quotidiano. Ciò gli consente di evitare di specchiarsi nel tormento della “malattia della parola” come era costume di “quei quattro paranoici impalpabili / veggenti” che “almanaccavano di vocabolari / si struggevano ansimavano del niente”. Si legga in proposito la poesia Dall’alto. Fin dall’inizio della composizione, con rapidi ma intensi passaggi, il poeta disegna, nella limpida stesura delle immagini, la scena della creazione. L’“evento” è rappresentato da un succedersi di figure; ma, via via che si procede nella lettura, si comprende che il climax ascendente non è altro che un sogno. La contrappo-sizione tra desiderio e realtà è sottolineata dall’azione dei verbi: al passato per certificare la grandezza della creazione, al presente per confessare la precarietà della condizione umana. “Il Creatore dispensò terra a piene mani / e le lasciò sgranarsi sopra il mare / senza limare nulla. / L’insediamento umano / lo riconosci da rette spianature / triangoli compassi e simili ossessioni. // È così soffice calcare queste nuvole / bianchissime ariose vellutate / ci affondi i piedi e poi rimbalzi. / Questo tappeto di nubi / è sovente un richiamo irrefrenabile / per l’angelo custode: / lui salta, ondeggia, corre / ed io laggiù / non trovo più uno straccio di lavoro”. Non diversamente avviene in Il cielo, dove il divario tra gli opposti cieli è concepito come risultato della storia umana. “Il cielo è sempre serio / nelle capitali del nord, / alto solenne e grigio / favorisce l’opportuno profilarsi / ai palazzi agli affari. // È così spudorato / il sole nel mio sud, / è così basso il cielo / che cerco di celarti / l’esplosione dei fiori del mio manto”. Il dettato poetico, libero da ogni impaccio, è chiaro e semplice; parla con la voce e l’intelligenza del cuore che sono sempre presenti nel prosieguo di tutta la raccolta che, per semplicità, possiamo sud-dividere in tre sezioni. Nella prima ritroviamo alcune poesie già presenti in altre raccolte. Quale la ragione di questa riproposizione? Hanno la funzione di attivare il processo di rimemorazione per disincagliare i ricordi dai lacci in cui le micro-crisi epilettiche li hanno relegati. Ciò spiega lo spaziare degli eventi memoriali da un luogo all’altro senza mai trovare l’appiglio del conforto sperato o il rimpianto di ciò che è stato e che è difficile riportare indietro. Si legga, in proposito, Le scarpe. L’in-diretto riferimento alle sette paia di scarpe ho consumato dei versi carducciani viene immediatamente superato da un ritornante dolente sentimento dell’esistenza che si dilata in un’ampia suggestione psi-chica, prima di racchiudersi nell’invocazione di una fuggevole ma inappagata constatazione del de-siderio. Lo stesso accade ne I volti. Il gioco di corrispondenza tra interno ed esterno, tra mente e corpo verso cui il poeta “ora a questo ora a quello” muove, diventa sintomo di smarrimento e di sgomento che si specchia in una condizione più generale di solitudine. Nella seconda sezione dominano, in tutta la loro estensione, le memorie della prima adolescenza, in particolare di un luogo ben preciso: Potame, una frazione del comune di Domanico, collocato a oltre 1000 metri d’altitudine sull’appennino cala-bro. Un luogo del cuore, dove natura e uomini si specchiano l’uno nell’altro con profondità e sempli-cità di gesti e sentimenti. Senza sosta, corrono i ricordi di zia Maria, dell’amico Angelo, delle fan-ciulle amate e dei “nudi odori” che incensavano le vane attese dall’alba al tramonto. Sembra di rivi-vere una favola sospesa nel tempo. Ogni traccia ne apre una nuova; è un continuo spiraglio aperto sul passato, un passato condito “di cipolle selvatiche e pomodori” e di cicorie che odorano “di fresco le fragole”. Insomma è tutto un procedere sulla linea del tempo come nella ballata di François Villon, dove l’interrogativo “mais où sont les neiges d’antan?” è una finestra aperta sul presente. Un presente che si snoda per prati e foreste, per colline e pendii tra “canti d’altri tempi e d’altre genti”. Il succedersi dei ricordi hanno il profumo della lontananza che il ritmo martellante dei versi scandisce con grande maestria, soprattutto nella terza sezione. In Cinque innesti, infatti, il rigenerarsi del regno della natura, in particolare delle piante, fa da contraltare alle ragioni del proprio sentimento poetico come accade nell’affresco Kerouac e il campionario di Netflix e in Risvegli dove, “nel vuoto pneumatico” della mente, si cela la consapevolezza dell’inanità di ricercare nuovi “segni svelamenti distillazioni di sen-tenza” per abbandonarsi a “vivere ogni giorno / come se fosse il primo”. Quello di Dionesalvi non è però un arretrare o accettare l’incertezza e la precarietà del presente. La condizione moderna ha la-sciato dietro di sé soltanto rovine che è difficile poter restaurare in un unico insieme. Non resta che vivere la cognizione del dolore così come ci è stata tramandata e ritrovare, tra anfratti e detriti, le occasioni perdute. Il loro profumo resta nelle tracce degli antichi valori ancora esistenti nella nostra coscienza. Nella derelitta condizione epocale ad essi dobbiamo tendere per non smarrirci, consapevoli che non sono totalmente perduti ma fanno parte di noi e ne illuminano costantemente, anche nelle difficoltà più ardue, il cammino. Questo il compito della poesia che, come scrive Nelo Risi, “di per sé non conta nulla, conta ciò che sta dietro la poesia e che in segreto l’alimenta”. Consapevolezza che è sempre viva e costante nella ricerca poetica di Franco Dionesalvi, dove si confrontano e si dibattono costantemente i valori “transazionali” con l’espressivo mondo sotterraneo della parola, sempre im-pregnato di sogni e di desideri che guardano ai valori eterni dell’uomo.
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GERARDO PEDICINI

martedì 21 luglio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = GIANNI MARCANTONI

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Gianni Marcantoni – Ammessi al paesaggio (Calibano Editore)- 2019; Pagg. 284; Prezzo: 15,00 euro.

La nascita dell’essere umano rimediabile tra le mura domestiche (tipica del tempo che fu, di quando l’umiltà del nucleo familiare veniva considerata propositiva a dir poco) purtroppo si complica all’inverosimile, sortendo un dramma lacerante… un fatto tragico, da esporre come tanti altri che caratterizzarono la realtà del Paese negli anni ’30; sotto l’etereo distante, colmabile però immaginando d’avere un potere come quello di espandersi usufruendo del senso del tatto, e raccogliere così la persona cara.
“Non chiedo di essere perdonato, e non chiedo nemmeno di essere tanto amato. Non credo che chiedere mi sia mai stato realmente concesso”.
Marcantoni agisce accompagnato dai suoi dolori ossei, sollevato dalle cose che tacendo ridestano inutili, leggiadri movimenti… già, il tempo di muoversi piano e il senso di disorientamento occupa la sua memoria, come a rendersi incapace di dipendere da una persona alla fin fine.
Il poeta focalizza il sempre di una passione, consapevole di un’occasione non colta, come quella di esistere difettando liberamente, in solitudine, fino a colmare il senso di vuoto col suo essere vacante, senza alterare l’umanità a livello spirituale.
L’integrazione si riferisce dunque a dei soggetti che non ci sono più, mortalmente aggrediti, mai ripresisi dalla superbia e dalle ingiustizie, e cioè da gesti realizzati a scapito di anime innocenti, che non sapevano cosa volesse dire reagire, e addirittura anche per rimediare alle proprie debolezze… ebbene, il desiderio di raccoglierle in un contesto prettamente territoriale significherebbe farle rivivere, ma stavolta dignitosamente, allo scopo di recuperare l’opportunità d’esprimersi, e ricavare naturalmente i requisiti per esistere, potendo finalmente crescere nel rispetto delle regole, piacevole purché quest’ultime siano chiare.
Per Marcantoni questo darci alla luce andrebbe salvato, perché è conforme all’unica forma di preghiera in circolazione oggigiorno, ciononostante il poeta s’attribuisce delle colpe, non volendo immaginare che una benché minima richiesta da parte sua passi in rassegna.
Un indizio esistenziale s’illumina in particolare, e lo si può scorgere dall’alto verso il basso, essendo distanti, incapaci di definirci col buonsenso nel nome di un poeta come Gianni, che comunque riesce a intuire la quotidianità in un cenno d’intesa.
Naturale e silenziosa in alternativa, la gustosa provocazione vitale non si fa assorbire dalla sapienza dell’autore che assiste in caduta libera agli eventi che lo formano, per poi brillare semmai grazie al tempo dell’amore, da personificare quando le luci oggettivamente si spengono.
L’uomo incanta fortissimamente, e cioè attualmente, essendo stato spremuto dalle illusioni, consapevole però di certi momenti che torneranno affinché ci si possa muovere rinfrescando così delle buone nuove dal principio.
Secondo Marcantoni il genere umano attende una svolta privo di uno slancio emotivo, un po’ come a volere osservare degl’insetti intenti a stabilirsi in un determinata collocazione con una fragilità comprovabile.
Eppure Gianni dichiara che non intende fermarsi ancor prima di realizzare qualcosa, alludendo alla sorte purché essa accenni un volo in conclusione, in un tempo svanito nel suo animo senza poi riapparire, deliziando e misurando così uno e più lati oscuri. Il maltempo risulta mostruoso, bucato da tenebre in movimento, profonde, ciononostante la linea tra l’aldilà e l’aldiquà non smette d’incantare, seducendo il poeta che la desidererebbe da perfetto egoista, imprigionata nelle stesse condizioni di un tenero volatile, in un valore assoluto.
La percezione viene meno essendo curiosi di sapere come si generi un effetto sonoro, talmente moderno da sollevare quest’umanità che si deve ritenere immortale, ma assoggettata a degl’indizi marcabili da strumenti perlopiù inaccessibili.
A dire il vero la desolazione è lacrimosa, arreca splendore alle anime che si distaccano definitivamente da corpi in attesa di veritieri accecamenti, quelli che schiariscono alti e bassi d’umore svalutando persino i raggi solari.
Il tacere è proporzionato all’unica testimonianza di vita atta a disgregare principalmente gli esponenti di cotanto mistero che Marcantoni armonizza con parole imbattibili, che accolgono l’autore stesso a tal punto da scorgere serenamente la fine di una vita.
Siamo forse senza una divinità da pregare, e quindi pronti a inabissarci dentro le illusioni, socchiusi i rubinetti alle fonti di vita, dove si va a rinfrescarsi una volta finito di giocare a stabilire un vincitore e un perdente, assistendo al tempo che scorre.
Un fare notturno, anonimo, circonda l’esistenza, e la solitudine avanza tra boccioli di sentimenti da sfiorare, possedendo ambiguamente il senso del tatto, a cui si accede sfidandoci ripetutamente a una caccia al tesoro.
L’illuminazione più incomprensibile viene segnata difatti dal più semplice gesto d’affetto, con la fine di un giorno che così meraviglia tracciando vie pericolose, intensificando soluzioni penetranti, resistenti al tempo.
Dopo si aggiunge l’umanità, il fatto di sedare gl’istinti ogni volta quantomeno per tutelare ciò che di solito sappiamo offrire, accerchiando una sorta di principio d’allarme come a far festa e riflettere infine sulle morti altrui.
Traspare la perduranza di un’asprezza gocciolante sul genere umano, ricorre della struggente rigidità alla lettura di questi versi come a stimare l’anonimato di svariati soggetti infranti.
“Basta un silenzio a risvegliare queste effimere danze, basta questo passo per dimenticare da quale direzione io sia arrivato, e per conto di chi altro me ne andrò”.
Colui che scrive qui sembra durare spaziando appieno in un respiro che manca, riaccendendo mute osservazioni al cospetto di parole spodestate dalla loro stessa visibilità.
Nel frattempo, pian piano ogni strumento diventa un fremito, un fare sistematico accerchiato dalla natura saggia, fittamente riconducibile a dei peccati oramai ininfluenti.
Per risolvere dei problemi occorre andare oltre, in un luogo incredibile, sospinti da una ragione sovrumana per intendere la morte e alleviarla.
La speranza incornicia l’inimmaginabile, l’idea di sconvolgere con viva ingenuità un gigante sbrogliandogli le viscere.
“Un terrore ci possiede da troppi secoli fin da dentro le oscure caverne, e le tue sicurezze a poco sono bastate in tutto questo tempo per farci esistere davvero come uomini. Ma forse l'uomo guardando in alto - sempre perduto in sé stesso ha solo sentito l'eco della propria voce, e non invero il sole, non i sentieri finiti in un fuoco mancino, non i continui passi che hanno invertito rotta, tornando alle mezze facce delle ampolle, seppellite fra la neve-lingue-rudimentali, e sciolte in una fiala di raggelato succo esistenziale”.
Il terrorismo divampa in noi da tempo immemore; quindi è probabile che l’umanità creandosi grandi aspettative non abbia fatto altro che accusare un senso di vuoto, tale da rimanere incantata dal riverbero di richieste che non provengono mai dall’esterno, con un vanto pari alla possibilità di spegnere la più naturale delle fonti d’energia.
Si percepisce l’intento di comporre parole, silenziosamente, in modo puramente manuale, determinando così un peso, e specie sugli affetti, per niente passeggeri né falsificabili e tantomeno portatori di seduzione; al tramonto di un vissuto ch’eleva la sensazione di far tutto tranne che rumoreggiare.
Il mondo, sputtanato, centra appieno i cuori della gente, ossia di tutti quelli che di solito necessitano di scegliere l’insieme da supportare senza suscitare la benché minima rivoluzione… effettivamente a forza di discutere sul destino del pianeta Terra ci stiamo oscurando, d’illuminante resta l’inasprimento della normalità che per giunta manca di compattezza.
“Ma nulla regna per l’uomo che tanto ama salvarsi…”.
Indumenti consumati si pensa quasi di punire alla fine di un vissuto, mentre delle aspettative vengono ingoiate con un’angoscia tale da respirare mantenendo gli occhi aperti all’etereo disperso a causa di un pianeta che non ci risparmia la memoria, in mancanza di attività colmanti gli attimi all’anima; non concependo i misteri del buongusto, essendo conficcati magari in residenze oscure dacché momentanee.
Marcantoni predilige la verità poetando argomentazioni senza la pretesa dell’immortalità, in un volo quindi limitato dalla realtà e i suoi strumenti di cessazione propria… ben lungi da un termine di possesso: una dichiarazione da fare magari distaccandosi dall’immaginario, specie se quest’ultimo pulsa per lo sguardo da ricambiare con l’amore che spesso e volentieri si percepisce nell’assenza di chi ci sta a cuore.
Ecco che spesso e volentieri provando amore cogliamo ingiustizie fuori dal comune…!
Si sta da soli per un briciolo di tempo che può impadronirsi spiritualmente di un essere umano sequestrandolo, costringendolo a scrutare l’incolta immaterialità.
Sta di fatto che il poeta si esprime, che la sensibilità conta maggiormente quando qualcosa c’intimorisce. La purezza si manifesta appieno per spirito d’unione.
Una massa popolare strabordante ma che teme di rifiorire non riesce a respirare a pieni polmoni in effetti, e cioè in mancanza d’ideali.
Ci si rassegna a mirare il destino che, alquanto precario, fuoriesce mestamente dopo averlo intascato mortalmente, dimorando in una forma di tacito abbandonamento.
“E tu uomo di bassa statura i versi non ti alzeranno, tu uomo di alta statura, i versi non ti piegheranno. Possono solo condannarti talvolta, quando come chiodi entrano nella testa e impediscono il movimento delle labbra; allora sarai nel paesaggio infinito, sarai allora morto per colpa dei versi che ti avranno tradito”.
Con la poesia secondo Marcantoni si accede alla svalutazione di soggetti protesi alla morte, come a spaziare in un colpo d’occhio, ciecamente. I sentimenti vengono calati in una condizione di panico puro, a conferma che la quiete si è tramutata globalmente in uno storico malessere.
La percezione olfattiva si allarga a seguito di mostriciattoli aventi talmente sete da avvelenarsi, privi di destinazione.
Una terminologia affettiva si esaurirebbe da sé alla luce di un nuovo giorno, legnosa e ubriacante, e difatti la memoria s’intensifica evidenziando leggerissime lesioni su forme sporcate di quiete.
Rimangono cose inculcate, oscure a primo impatto, che inducono agli stati di fermo la meraviglia tendente alla fisicità dell’individuo da immortalare.
La pubblicazione di piccole storie private accentua il principio d’assenza, che si sviluppa contribuendo all’aria che tira, che si stanca.
Il tempo dunque va ammazzato esclusivamente in chiave letteraria, riaprendo la voglia di vivere alle persone prossime alla cecità, a degl’involucri d’eternità.
Ogni cosa si pone sullo stesso piano, sinceramente occorre pazientare per mutare in positivo, e oggettivamente poco importa farsi sentire.
Successivamente ai corsi storici, del tutto personali, nulla più si delinea per degli amori acclarati, trafitti da schegge evidenti, derivanti da contenitori preziosamente ambigui.
Il poeta ingoia qualsiasi aspetto dell’amore che può provare per una persona, eccetto quella voglia di contemplare il panorama mondiale, che va riqualificata, più forte del riserbo.
Niente si oscura come l’umanità sul punto d’amare, col vuoto che avanza sporcando indumenti a prova di sentimento.
“Ma cosa hai costruito nel tuo tempo? E quanto ci hai messo? Era davvero così indispensabile tutto questo? La vita è fatta soprattutto di cose inutili, di meccaniche, e di ritorni, ed è quanto tu non mi avevi detto (né io te lo avevo mai fatto capire)”.
Un insieme di suoni inonda un corpo estraneo se con l’emotività non si concepiscono frantumazioni, le diversità che si accentuano con un fare crudele, estremo.
Un amore circola nel poeta, inesauribile, ma è con la reciprocità che si apre alla spontaneità dei gesti, alla quale si può rinunciare, preferendo l’oscurità che l’immenso opportunismo alimenta.
La natura viene inquinata di continuo, e, imperturbabile, riproduce delle colpe per esistenze da insaporire piangendoci sopra, sul serio, senza far rumore.
L’armonia appartiene alle idee che cambiano evidentemente, come a voler prendere in giro l’anima, con quella solenne quiete successiva alle tempeste. Il silenzio rappresenta volgari intrighi, inducendo personalmente a proiettare il pensiero sugli sviluppi di ogni singolo respiro… la più deplorevole delle azioni!
In effetti veniamo a mancare sul serio una volta che le illusioni diventano realtà inequivocabili, scatenando guerre di un desiderio improponibile, come quello di perdurare in eterno.
La vita si conclude in una maniera del tutto convincente, sublime, a dimostrazione di come l’integrazione terrena non presupponga la considerazione dell’essere.
“Tutto è stato stemperato nell'avanzo carpito dal seme di una betulla nata dai sospiri del mondo, quel mondo che amava ascoltare i racconti fantasiosi dei pellegrini di una volta, dei cavalieri morti sulle strade del sale. Ma non restano ormai più ore da centellinare, così giriamo solitari, simili a due fiumi che combattono ogni giorno per arrivare al mare, che navigheranno le rotte infuocate di un sogno essenziale, prosciugato in un giaciglio colmo di consuetudini momentanee”.
Il tormento spirituale si riferisce alla carenza di senso per scalare asperità ragionevoli, che si definiscono maggiormente col passare del tempo.
La sincerità, alquanto residuale, prova qui a riformarsi senza far rumore, mentre giochi di luce peccano per principio.
Il corso degli eventi non appartiene alla memoria, e rafforza aspettative nel fisico da erigere per dei confronti che si sviluppano fino ad augurare di confermarli seppur in maniera precaria.
“E sono troppe le vite tormentate, troppe le vite naufragate, disintegrate, occultate nelle isolate galere; riprendiamo allora il nostro scettro, il mondo era nostro - nostro fin da dentro al grembo materno. E non ancora un canto spaesato, non ancora una maglietta indelebile con i nostri eroi stampati tra le glorie, o questa ridicola platea sbilenca sopra cui il falso uomo astuto è annegato!”.
Tecnicamente, passione e competenza poetica sortiscono l’energia ritmica alla forma del testo, rigorosa e raffinata, mentre l’ambizione la si rileva da una ricerca a ritroso, che si rivela a tratti di una lezione da dare.
Il pensiero sembra proprio dominare la complessità espositiva, cosicché permane la parola letteraria. L’amarezza intimistica è di una scrittura gergale, si rilassa specialmente tra i versi dei poemetti, come a pregustare una discesa negli abissi mentali. La costruzione della struttura è dura, cupa, carica di tensione, come se ci volesse a tal proposito una fisicità intrisa di sacralità.
V’è un dire poetico che non ammette finzioni, secondo un autore garbato e malinconico, solito agli attraversamenti esistenziali, inseguito da una verità, un’illuminazione più forte di ogni altra, incalzante.
Un emblematico coacervo di rifiuti sulla presenza umana corrode l’emozione.
Il lettore ha modo di appropriarsi del valore profondo della parola, come un nutrimento da curare e controllare, col ron ron esistenziale, un elemento necessario per cogliere flash d’ispirazione e far scattare delle occasioni.
Leggendo è come se ti ritrovassi incagliato tra sentimenti profondi e ragioni inconfessabili, tra storie e destini che chiedono d’essere ascoltati, grazie a un autore che mantiene una coerenza con grande lirismo, essendo questi lento e avvolgente, e assumendo un tono intimo, malinconico, dolente… ma anche fiero e arrabbiato.
Il poeta dosa bene follie e malinconie in una data ambientazione, segno di come s’impara a dare il giusto peso alle parole… versi dunque d’impianto teatrale, evocativi come un’opera d’arte, di contorsione avanguardistica.
Testo teso, che non dà tregua ai significati di cui n’è denso, privi di compiacimento… mai banale.
Qui non si cade nei sentimentalismi, alla luce di una calibrata misura dei versi, in funzione catartica e salvifica, e quindi di sottigliezze psicologiche, a fronte di un universo cupo, claustrofobico (ma molto introspettivo)… addirittura sembra che si possano appurare dei diorami assemblati per far capire a cosa si va incontro.
Dalla cura del dettaglio linguistico e poetico si determina la presa di posizione su temi certi.
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VINCENZO CALO'

SEGNALAZIONE VOLUMI = ELISABETTA BENEFORTI

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Elisabetta Beneforti, Senza permesso, Smith Editore, 2020.

È una raccolta che colpisce per la sua originalità, questa di Elisabetta Beneforti intitolata Senza permesso (Smith editore, 2020). Sono versi che non gradiscono inciampi, blocchi, attriti, ostacoli, impedimenti, freni; a partire dalla punteggiatura che viene eliminata e sparisce dalle pagine, che viene messa da parte affinché il ritmo possa scorrere e fluire con agio e liberamente, senza obblighi e condizionamenti, “senza permesso”.
Le poesie sono animate, mosse e agitate da una volontà trasgressiva che agisce come motore e stimolatore interno. Leggendole vengono alla mente le poesie della contestazione e della rivolta del dopo Sessantotto, quando ci si spogliava dei vestiti della festa, delle regole stringenti, degli insegnamenti acquisiti, dei comportamenti conformi a un modello dominante, tutto “senza permesso”.
L’intonazione dei versi della Beneforti è però meno trasgressiva, all’urlo della ribellione preferisce una voce più sottotono che aspira ad essere contemporaneamente lieve e spericolata, armoniosa e spigolosa. Nelle “Note” chiarisce: “Sono davvero innamorata delle parole, delle loro sonorità quanto dei loro significati combinatori, perché qualcosa da dire si abbraccia necessariamente e musiche e immagini”.
A colpire l’orecchio può essere una musica forte che esce “da una macchina in sosta”, il rumore battente di un lavandino sgocciolante, “piogge che cantano”, “musiche minimali, accordi rari”, melodie, silenzi e stonature. Le musiche ci accompagnano e aderiscono alle nostre giornate come una seconda pelle.
L’occhio forse più dell’orecchio è l’organo di senso più stimolato, coinvolto e sollecitato, la vista più che l’udito. I colori accendono i versi creando una “scrittura luminosa”: una “luce blu diffusa”, “il giallo pieno del mattino sul soffitto”; si moltiplicano prospettive e punti di vista: dentro e fuori, sopra e sotto, guardare “la terra da una mongolfiera” o all’interno di un “gomitolo impazzito di fili”. È uno sguardo allenato e allo stesso tempo sognante, che sa cogliere dettagli e particolari, aspetti secondari e marginali; uno “sguardo fotografico” in movimento tipico di chi sta passeggiando e intanto osserva e registra senza soffermarsi e indugiare troppo. L’autrice, fotografa oltre che poetessa, mette a fuoco i contrasti dell’esistenza, carezze e graffi, “notizie buone e cattive”, desideri che attraggono e attese che respingono, stanchezza e divertimenti, “fuoco e grazia”, “memorie da sopire” e bicchieri per brindare, “la gioia, le sconfitte”, cicatrici e “piccole contentezze”, la “bellezza del poco”, parole “senza permesso”.
Un flusso di pensieri, emozioni, passioni, umori, stati d’animo, suoni,sospinge e trascina in avanti le parole dipinte e musicali dell’autrice, la sua scrittura “che parla / che guarda”.


“jo soy solitaria y final
le musiche sono sempre comunanza
una musica è una musica è una musica
per partire l’anno e scomporre quartine
scommesse e inseguimenti, prove di cecità
resta da immaginare e declinare
dove sia il confine originale
fra sogno e incubo
fra romance e scopata
senza permesso”

Giancarlo Baroni

domenica 19 luglio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = FRANCESCO BORGIA

*
Francesco Borgia – Ridente lucciola -Andrea Pacilli Editore- 2014; Pagg. 90; Prezzo: 10,00 euro

La delicatezza consiste nello stare appesi al ramo di un albero qualsiasi della Felicità, e la si dedica a un essere di luce che si accende e si spegne, spostandosi con leggiadria tra episodi di particolare rilievo, con vari modi di comprendere la più bella e misteriosa delle emozioni, auspicando a intensificare pagine da sfogliare decisamente per il bene comune, senza sprecare alcun respiro.

La forte durevolezza della parola si percepisce come distaccata, tra il poeta e il lettore, ma nonostante ciò il compimento della Passione non viene trascurato, e sei libero di lasciarti prendere dalla malleabilità della forma della parola, così netta e sincera che è un peccato non farla emergere, alla maniera di esponenti quali Pedro Salinas o Umberto Saba.

Con una travolgente dinamica scorgi le profondità dei sensi, ci arrivi, non trasgredendo l’armoniosità di una modulazione cardine, di frequenza cardiaca, e letteraria di conseguenza; non spodestando il lessico.

Il componimento si rimpicciolisce ma non si sminuisce, perché l’autore preferisce immaginare degli elementi naturali sferzanti, in proporzione; e la contemplazione sembra magica stando alle vibrazioni del Creato, delle sue finalizzazioni che pullulano di quel romanticismo caro a un Giacomo Leopardi.

Dall’alto, il desiderio di un contatto fatale sembra divertirsi nel sedurre un atto di fede per volta, già scandito brillantemente.

L’anima è ferma all’effusione compiuta, e ci perdiamo nella vista accurata, si raggiunge la reciprocità, come prede di riferimenti infrangibili, universali.

L’intuizione amorevole non cessa mai, smussa i dubbi che ti fanno precipitare nella solitudine di un gesto affettuoso, sia a caldo sia a freddo.

La tenerezza viene elaborata d’impatto, risaltata interiormente, e a fine giornata lentamente si dissolve, nella trasparenza di una concessione, a purificare l’ossigeno, per non oscurare alcuna illusione aldilà di tutto.

Bagnati di coscienza, i nervi si assopiscono, e l’istinto animale volge alla meraviglia, si chiude nella volontà centellinata al congiungimento delle stelle, con le aridi sospensioni terrene.

“d’acqua brucerai l’incendio”.

Vicini come lontani, con una complicità spoglia, un’intimità straordinaria, che ottenebra per risuonare al naturale perennemente.

Al ritorno della Luna, accade che l’umanità diventa indispensabile, va oltre l’immaginario con piacere, profuma le correnti.

I limiti vengono lambiti apertamente dal mutismo generico, e non puoi fare altro che spaziare in un cenno d’intesa, flebile dovendolo confessare, ma mai in malafede.

Il dolore di un uomo si accentua se nulla si muove.

La dipendenza dall’amore si realizza di riflesso, con le vite che si fondono per navigare allo spuntare del Sole, senza mai fermarsi, le ovvie paure di sbagliare e generare sconvenienza; puntando sensibilmente in alto, trascinati dal piacere di andare incontro alla bellezza, da un vento di pensieri.

L’anima tormentata riconduce al pudore confidenziale, all’incredibile quiete facente scuotere gli astri, e nel buio della maturità avverti l’intoccabile presenza di un moto consequenziale, con la pelle sinonimo d’approdo e la fede disciolta nell’unicità d’intenti.

Cogli, nel cambiamento delle prospettive, il debellamento della soavità di un contatto, che appartiene rigorosamente all’altra metà; l’energia sa ora di peccati di cui accorgersi di slancio, come a rifiorire speranzosamente, liberamente, per non accontentarsi di una sola relazione, non facendo trapelare alcuno stato d’animo, rigettando nell’ignoto quanto offerto, ossia l’altrove che si lascia comunque possedere per smussare il disagio globale, e rimanere nuovamente attratti da una Lei.

Miri la timidezza racchiudibile in una destinazione irrefrenabile ed esterna alla dimensione che occupi; l’altalenante bisogno da rendere suggestivo, benevolo, una volta scaricati dal trend giornaliero, costatando la disperazione da ricomporre al tatto, la falsificazione della passione da incutere.

Ci si vede allora immotivati e pertanto imprescindibili, abbiamo un aspetto derivato dall’osservazione spasmodica, che contiene minuscole solitudini da collegare nel firmamento, in mobilitazione, per l’eternità che si scopre senza mai deludere, per l’ambizione da degustare, dolceamara e impossibile da proibire.

“gli occhi suoi sono senza perché

perché sono amore”.

Sì, l’amore è un principio d’iniziativa da surriscaldare, a costo di capire più nulla, di bruciare apparendo fenomenali, per tornare a dormire come fanno i bambini, senza preoccuparsi del cielo che si copre.

Questo poeta è un regalo che non si smette mai di scartare, per non dover banalizzare uscendo sempre allo scoperto; la sua decantazione spicciola e nient’affatto aggressiva del sentimento somiglia a quella di Aldo Palazzeschi, con quell’angoscia che corrisponde al richiamo sessuale, necessario per sentirsi di stare insieme con una persona.

Stare bene vuol dire affidarsi a storie d’amore che devono pur cessare, con una lei che sboccia incontrastata, che ti annienta le riserve dominando un chiaro legame da custodire essendo disincentivato per dover sopravvivere come degli inguaribili materialisti.

VINCENZO CALO'

sabato 18 luglio 2020

POESIA = RAFFAELE PIAZZA

*
"Per Mirta tre anni dopo"

Mirta i momenti tessuti
della stoffa della gioia
fotocopio nella camera
della mente. Felicità con
te così bruna e così donna
sinuosa e sensuale
ma non si toccarono le nostre
labbra nel giocare
a “una donna per amico”.
Ti dissi di non farlo
quando ti telefonai
tu sul cornicione
del terzo piano della
Reggia di Caserta
e tu contasti fino a dieci
e ti gettasti morta sul colpo.
Tre anni fa in un attimo
oh vita nello stringermi a te
io naufrago recuperato
nel toccare la penna d’argento
che mi regalasti, Mirta.
*
Raffaele Piazza

venerdì 17 luglio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = ANTOLOGIA PER L'ASSEDIO

*
AA.VV."L'ASSEDIO DELLA POESIA 2020" - ed. Kairòs 2020 - pagg.80 - € 15,00
Marisa Papa Ruggiero apre gli spartiti con la sua poesia "In questo versante del congedo", vincitrice del premio. Testo impegnato nella scintilla della cultura che si manifesta attraverso il rincorrere di immagini e di folgorazioni.
Dalla genuina semplicità di Assunta Castellano ed Enrico Fagnano alla tormentata e incisiva scrittura di Plinio Perilli e Rosanna Spina, dalle immagini caleidoscopiche del rumeno Drejoi Costel e di Giuseppe Vetromile ai versi saltellanti di Valeria Serofilli, dalle panoramiche ombre soffuse di Leone D’Ambrosio e Annamaria Ferramosca alla luminosità che strappa palpebre dello Bosniaco Emir Sokolovic, dalle memorie con le reti d’oro di Carmelo Consoli al vago fragore dei lamenti e di saltellanti carezze di Antonio Damiano e Mario Rondi, dai campi fioriti di Eugenia Serafini all’acerbo mattino di Anna Maria Pugliese, dal vagabondare nelle incertezze di Anna Di Fresco e Paolo Polvani al fiato troppo corto o l’urlo atroce di Carmina Esposito e Lorenzo Spurio, dallo scintillio degli sguardi innamorati di Giuliano Ladolfi ai solchi dell’aratro del giovane Francesco Papallo, al sogno ricorrente e al canto delle cicale di Marco Melillo e Tiziana Monari, è un continuo sorprendere . Un exurcus quindi, anche se estremamente parziale, che ci permette di accostare un gruppo di autori di generazioni diverse e di variegate poetiche.
Antonio Spagnuolo

POESIA = ANITA PISCAZZI



*
-I-
E quando ti girerai
saprai toccando il punto più alto
La stella a oriente del meridione
non ha inizio né fine
ruota potente di segni e di miracoli
dimora nel firmamento
Così pensando e andando
in te, primo angelo
spalanco il mio cuore buissimo
l’eterno sbatte nella tua ala
Infiamma il lume della tenebra
primamente altra luce non vidi
e non volli che l’usignolo muto
e il canto aperto del tuono solitario
il libano, il falco e il bianco del rosmarino.
*
-II-

Ecco sei qui col viso fatto di aria
restiamo per poco
eppure rimani leggera
basterà la neve, il filo d’erba, la casa
dove il vuoto precipita e tutto somiglia
Ma tu lo sai
vai via senza forma, nel tempo, nell’acqua
fai radice nel vento
Ora tieni le mani nel suonodove non sei mai stata
in un giorno per sempre
non voltarti sorridi
come ti ho vista la prima volta

(A Paola)
*

-III-

Ferma l’ali
tornami indietro
fai sera sui cerchi d’acqua,
nel tuo silenzio in alto
solo una fessura, poca luce
la tua cometa.
il più bel fiore hai colto
nella tempesta i nostri inverni
che sanno gli altri
il respiro rallenta e negli spazi grandi
sei diventata piccola
sogno bambino del mai.
Ferma l’ali
saremo neve, saremo dove
nel corso del tempo la tua visione

(A Umiliana De’ Cerchi, Firenze mistica medievale)
*
-IV-

È nella traccia l’arco riflesso
non posso che tacere
non sono adatta a questa forma
impressione di grazia
seppure esule, priva di forza
dell’indicibile canto
così ogni ordine prende il passo
eliminando il nocivo succo, come se
non fossimo mai nati
tu che trovi sempre la via
respirare voglio il glicine
e dentro ci sono e non ci sono
per spavento si deve essere lievi
e tu solo conosci quella porta.
*
ANITA PISCAZZI
*

Anita Piscazzi, poeta, pianista e dottore di ricerca si occupa di studi etnomusicologici e didattico-musicali. Sue pubblicazioni: In lumen splendor (Oceano Ed., Sanremo 1999), Amal (Palomar, Bari 2007), Maremàje (Campanotto, Udine 2012), Alba che non so (CartaCanta, Forlì 2018).
È presente in “Ossigeno Nascente” (Atlante dei poeti contemporanei italiani a cura del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica Alma Mater Studiorum - Università di Bologna), in diverse antologie tra cui “Umana, troppo umana” (Aragno, Torino 2016), in blog letterari e sulle piattaforme di registrazioni fonetiche di poeti contemporanei nel mondo come “PoetrySoundLibrary” di Londra e “Voices of Italian Poets” dell’Università di Torino.
Tradotta in diverse lingue e in spagnolo da Emilio Coco in (Poesìa de ida y vuelta/Poesie di andata e ritorno, Prosa Amerian Editores, Argentina 2013). Impegnata in Festival di Letteratura e di Poesia sia in Italia che all’estero. È premio Isabella Morra 2017 e premio InediTO 2017. Sue poesie sono state interpretate da Lella Costa al Salone del libro di Torino nel 2017, su SanMarinoRTV e su RaiRadio3.
Ha collaborato al progetto poetico-musicale : “Alda e il soldato rock” con Eugenio Finardi, al progetto teatrale: “Miss Kilimangiaro” in Kenya per “Avis for Children” con Lidia Pentassuglia. Collabora con le riviste poetico-letterarie «Incroci», «CittàdiVita», «Pangea», «Pensiero Storico» e «ClanDestino».

mercoledì 15 luglio 2020

POESIA = RITA PACILIO

*
--Il dramma di Elettra--

"L’odio"

Quanto eri bella piegata nella luna
implacabile nello sguardo effimero
irreprensibile, immacolata, ammirata
puntellata nel muscolo celeste chiaro

scendevi dalle scale di marmo
nelle vesti bianche addestrate al passo
tuo, fiero e strisciato di traverso,
gagliardo nell’altezza, robusta nella

voce aperta sventolando venivo
a te, certa, con le braccia voraci
e io dalla piccola fessura dell’alba
ti ricordo nelle ore giovani in me

così, con labbra e occhi primavera
con ginocchia e fronte musicali
femminile esito religioso. Eri
contatto materno da eguagliare

ammirazione stravagante di spine
ribollìo neonato dove annego intera
come luce vespertina nel mare.
Adesso che hai ucciso l’amore

grande che mi ha generato a cui
non sopravvive l’urlo di questo
giorno si inginocchia la parola vita
e la pietra portata dal vento.

Come hai potuto guardare il mondo
senza i miei occhi e la mia pena?
Ti maledico madre nel petto
dall’alto in basso della sposa che sarò

con la bufera che gira nel cuore
apparentemente adolescente e mite
figlia assediata tornerò dalle stelle
punirò il tuo ventre pieno d’azzurro

ne farò balena dal colore sinistro
e ne dipingerò di rosso l’occhio.
Taci, madre stasera, i tuoi figli
Singhiozzano, lamentano sotto le ali

sulla tua mano ho adagiato la mia
ho impigliato le perle degli abissi
nel pugno rimetto le inimicizie. Sì,
taci madre, dormi, spiega agli dei

come è tremenda la rinuncia, vai
scalza dietro a ogni sera sottile
in cerca di ombre perfette per la notte
dormi sui lunghi capelli e cantami

due poesie lievemente terribili
baciami per un attimo gli anni
adirati, induriti sotto i capezzoli
ancora caldi e chiusa all’affanno, muori.

"Il tormento"

Scende la sera sul sangue madre
e ha inizio la mia agonia di figlia
non torna più la voce da odiare
la collera, l’aura da meditare, il piano

la vendetta. Il cuore vuole trovare
pace, placarsi e ricomporsi nel velo
nuziale. Un riscatto ammucchiato
tra forcine e riccioli sparsi, sfioro

scorie e silenzi sulla pelle sono qui
a ricomporre risate dietro le sbarre
giorni a finire dopo le coltellate
rovesciata la faccia di lei al cielo.

Io figlia assassina serrata nel cuore
io che difendo mio padre morto
io che adesso mi voglio sposa
io che piango fino al sale labbra

l’uomo che resta muto in questo
giorno violento, turbolento. Piango,
raggiungo lei fuori dal suo fuoco
fino alla morte. Sono ancora sua

figlia e annotta, le vene diventano
bianche, il pianto nella terra trema
una montagna fatta di figlie
come me ad aspettare tra il vento

le mille pietre tra le mani
tutte aperte, spaccate
come se avessi il sole sotto i piedi
a diventare ghiaccio, ecco, così,

come se tutto fosse senza il nome
proprio. La linea della mano
si increspa nella venatura del polso
e d’improvviso diventa banale.

Staccata, violentemente diseguale
al resto della pertica, senza origine
senza lo spuntare dell’uva fragola
entro nuda nel resto del tempo

e nella casa dell’amore parallelo
dove ho steso l’odioso tulle, il senso
dell’incomprensibile rimanenza
di luce, sono prosecuzione e donna.

Ho scritto sotto la volta delle nuvole
il tormento e la paura. Si prepara
la tenebra, questa oscurità di morte
la figlia dell’abisso infinito sotto

la cenere sanguina, atti e pensieri
trattengo pentimenti innominabili
rinvio, secche interrogazioni. Con la mano
cieca tolgo me per scivolarti via.
*
RITA PACILIO
*

Rita Pacilio (Benevento, 1963) è poeta e scrittrice. Sociologa di formazione e mediatrice familiare di professione, da oltre un ventennio si occupa di poesia, musica, letteratura per l’infanzia, saggistica e critica letteraria. Direttrice del marchio Editoriale RPlibri è presidente dell’Associazione Arte e Saperi. Ha ideato e coordina il Festival della Poesia nella Cortesia di San Giorgio del Sannio. È stata tradotta in nove lingue. Sue recenti pubblicazioni: Gli imperfetti sono gente bizzarra, Quel grido raggrumato, Il suono per obbedienza, Prima di andare, La principessa con i baffi, L’amore casomai, La venatura della viola.

giovedì 9 luglio 2020

POESIA = ANTONIO SPAGNUOLO

*
"Armonie”
Il piede nudo
nel leggero carezzar delle onde
aveva sapore del sesso ed il tocco
che vertigine aggancia.
Le mie dita
sfioravano la pelle nel timore
così crudo al sussurro, aggrumato nella voluttà,
da sospendere il respiro,
ed ogni riflesso stringeva pupille.
Il mistero dell’acqua cristallina
ebbe un ultimo sorso,
voglioso di quel palpito che cancella la vampa,
ed ora ritorna nel ricordo a torturarmi.
*
Antonio Spagnuolo

martedì 7 luglio 2020

SEGNALAZIONE VOLUMI = ERICA GAZZOLDI

*
Erica Gazzoldi – La biblioteca di Belisa (Limina Mentis ed.)-2015; Pagg. 294; Prezzo: 17euro

La Gazzoldi scrolla il desiderio dei veri lettori, di avere tra le mani un’opera letteraria a patto che non sia mai stata consultata; e con l’atmosfera rasserenante, che solo una struttura accogliente, che sappia di un’essenza naturale, può ricostituire… riscaldata da raggi solari che s’infiltrano senz’accecare minimamente, come ad addensare il presupposto per le più intime confidenze
Ben lungi insomma dall’abbandono, da uno stato d’animo decadente, quello tipico dei posti sovraccarichi di culturale sentore.
In effetti il luogo in dotazione rievoca della germogliante, fitta vegetazione, da inspirare a pieni polmoni, per emozionarsi nelle tenebre identificabili in una persona, dacché capace di ospitare qualsiasi tipo di luce; ignara semmai del proprio destino, di volgere alla fine in balia di una ragione sferzante.
La protagonista si chiama Belisa, è una giovane donna che crede bene di mettere le sue radici in un contesto strutturale che rigenera nient’altro che il Pensiero, e difatti i libri che si rendono preda della sua curiosità danno il là ai vari capitoli di questa raccolta di versi.
Quindi ci possiamo trovare dinanzi a una dedica nei riguardi di un sentimento positivo ma pur sempre immaturo, che non tornerà più in sesto, come anche a dover riflettere sulla bellezza di un’intesa tra donne, che hanno magari modo di comunicare in cuor proprio.
L’autrice si anima con una svolta paradisiaca ma non invasiva, e, carente di un rispettoso altrove come tutti del resto, classicheggia coi messaggi che manda, o drammatizza l’umanità argomentando sul malessere e sull’inesistenza; ma con la vivacità leggendaria di quel fantasmino, Titivillus, che ai tempi del medioevo sgraffignava gli epistolari tralasciati dagli addetti alle pubblicazioni.
La poesia poi si espande, la parola si fa apparentemente straniera, essendo ispirata persino dai meandri di una musica aggressiva, di un entusiasmo che la Gazzoldi ha scoperto da poco, suscitante anch’esso delle impressioni a pelle, che vibrano, che si allargano di-versificando alla fine della silloge; di questa specie di excursus per consacrare nuovamente un intelletto elevato, ma alla portata di chiunque.
“La biblioteca di Belisa” contiene anche certe poesie scritte intingendo le emozioni nella lingua cara per la Gazzoldi, ridestante le sue origini manerbiesi, e cioè bresciane… accompagnate addirittura da disegni notevoli, eh già… in effetti ciascun capitolo si apre con svariate immagini che sembrano riprodursi da sé, opera sempre di Erica.
Particolare la riproposizione, illustrata e a parole, della lirica “La risata”, che brilla di contemporaneità, alla fine di “Titivillus”, e ad appannaggio di una forma sia stilistica che concettuale, alternante l’oscurantismo col sogno, a seguito di un’elaborazione che s’è protratta con passione; come a dover percorrere uno e più sentimenti di conseguenza.
*
VINCENZO CALO'