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NOLI ME TANGERE
Come quando m’impuntai sulla soglia
e m’aggrappai al sipario,
spaventato dal brulichio di voci
senza volto che fremevano al buio,
solo con te, di nuovo, sono stato
principiante trafitto nel mio poco da dire
e perenne ingoiare il groppo che rimane.
Fedele a un torsolo di pietre mangiate dall’erbaccia,
t’ho dato in pasto tonfi e scricchiolii
prima di riparare sottoterra
in una vena al vaglio del deserto.
Dio sa quant’era denso il mio sangue
di giorni inscatolati dentro un bunker.
E lo sapeva in fondo
che non è sempre fragile banchisa
il luogo dove gemmano le crepe.
Lo sguardo refluo al cielo della sera,
sciolto dalla ragnatela dei nostri raggi,
si rinselva di sciami di stelle.
Rimescoliamo i dadi arroventati
del nuovo firmamento:
capace dei suoi numeri
ci vuole questa primavera incolta.
Prendevi il grigio per nasconderti dal fuoco,
il bianco per lasciare solo inverno come indizio.
Ma le tracce che non hai lasciato
riposino nell’ombra
dei tuoi passi rampicanti.
Resta così, amore: sulla scogliera delle vertebre
le mie dita tarantolate devono stancarsi.
Questa volta posso scivolare
senza perdere pezzi.
L’ ultima – ero piccolo – fu la prima cicatrice;
squarcio senza dolore, puro grido
per lo sbalzo nel girone dei mortali.
Ora il tuo sonno slabbra il destino della carne;
l’aculeo velenoso diventa punta di diamante.
Per questo sopravvivo al trauma del silenzio.
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A MIA MADRE
Quante volte l’hai detto
tante volte non l’ho capito, mamma.
Sono nato colpo assestato al centro,
punto zero inferto al tuo noviziato
tra dune di cera che ammorbidivano
i confini di un livido deserto.
Come te orfano di case sull’albero
adottato da jungle in bianco e nero
a distinguere il cibo dal veleno
con braccia tese a dire
ciò che non si può dire
ad occhi appena giunti
a sirene spiegate.
Figlio della tua infanzia che voleva
correre per un’altra scuderia,
di pomeriggi a piedi dentro casa
scortati per un po’ dalle tue storie,
disarcionati al limite
d’inferni e capogiri senza mentori
vicini, pronti col sale d’ammonio.
E di tante scorie murate vive
di feltro e solitudine
rimane la tua voce
incalzata dalla pioggia battente
e una prua rompighiaccio
che chiede al polo Nord
un’altra direzione.
Rimane la luce rubata al fuoco
ancora acceso fuori dalla grotta.
Ora so che non vista l’hai raccolta
nel mito del luogo che infligge al tempo
la ferita natale che ci adultera.
***
FISICA ELEMENTARE
Nessun ponte su cui arrischiare il passo.
Soltanto parole su questa sponda.
Aeroplani di carta che non servono
a traghettare l’anima sull’altra.
Tenti la traversata in solitaria?
L’equilibrio sulla terra ha il bastone;
in aria, camminando su una corda tesa,
ti aiuti con la pertica.
Ma un solo remo in barca
è la iattura di emulare il gorgo.
Gli elementi volentieri collaborano
quando non sono alle tue dipendenze.
La storia del fuoco che s’addomestica?
Il finale più trito della fiaba.
La fiamma incorna e scalcia imbizzarrita
e se abita ancora a casa nostra
è per illuminare
l’irreparabile marchio di adesso
come il sangue sempre fresco di Canterville
o l’oncia di prezzemolo tra i denti.
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IL GATTO DOMESTICO
Incedi suadente, occhio di civetta
orecchio di pipistrello
e linea di serpente
nella trama d’un patto trinitario
notturno e velenoso
che veneriamo nostro malgrado
con fede snaturata.
Il tuo balzo pirotecnico taglia
la sintassi delle dimensioni:
lo spazio si squaderna,
il tempo ripiega
in un fazzoletto d’istanti
e nulla è come prima della tua agile carezza.
Vai a caccia di mosconi
che cozzano sui vetri
e li sgranocchi con somma goduria:
è l’imboscata che si merita
l’inutile furia di un esercito di occhi
impantanato nella trasparenza.
C’è una lezione da imparare
da questa tua zampata filosofica
che ha fatto impallidire
la morsa di un concetto.
Quante volte venir fuori significa
lasciare che non ci sia via di scampo.
Il topo lo capisce
quando si finge morto
nel tuo straziante gioco.
Ma so che l’attenzione
è meno generosa della noia.
Perduto lo sfizio del roditore,
lo sguardo subito rivolgi altrove.
Mi frega l’orgoglio del genitore
che vede il figlio cavarsela da sé,
eppure sono molto combattuto
e vorrei quasi frenare la tua foga
quando ti vedo sgambettare tutto impettito
con la fortuna in bocca:
povero piccolo geco!
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QUANDO IMPARAVO A SCRIVERE
È che era duro traslocare
da quella vita già stratificata,
piegare stanze come fazzoletti
e tante dimensioni parallele
rinchiuderle in un piano cartesiano.
È che la penna era fredda come un bisturi
e il foglio sotto i gomiti
la prima lezione di anatomia.
È che i verbi mi strisciavano via
e da lontano non riuscivo a colpirli:
dovevo avvicinarmi al veleno,
con la forcella della fionda bloccarne la testa
impugnando il pericolo
appena sotto l’elsa.
È che non c’erano amici tra i nomi generici
a rassicurarmi che no,
non sarei scivolato sul ghiaccio,
non sarei caduto in pezzi
da amalgamare col cemento e con la ghisa
del più alto grattacielo: la pagina albina.
È che il nuovo strumento
passò dall’adozione alla simbiosi
e il vento, la fiamma,
l’ombra di una voce che si annuvola
rimisero il contrasto e il chiaroscuro
al peso ancora invalido del gesto.
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FRANCESCO PAPALLO
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Francesco Papallo è nato nel 1987 a Napoli, dove vive. Ha compiuto studi classici e orientalistici e si interessa di filosofia e di letteratura. Alcuni suoi componimenti sono stati pubblicati sulla rivista di Elio Pecora “Poeti e Poesia” e sulla Bottega di Poesia di Repubblica curata da Eugenio Lucrezi. Alcuni dei suoi articoli e racconti brevi sono apparsi sul “Manifesto” e sul “Mattino” di Napoli. Insieme ad amici appassionati ha fondato “L’inattuale”, blog di approfondimento culturale per cui scrive e traduce articoli.