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"L' amore come forza salvifica, come esperienza liminare, come rassicurante approdo" "Nel diluvio" di Gino Fiore
"La preghiera è 'discesa della mente nel cuore' dicevano i Padri e così è il silenzio. Ma anche salita del cuore alla mente. Nel silenzio si discende come si discende nella preghiera e nella poesia per ascendere al sacro". (Lucianna Argentino, da La Parola in ascolto)
Riprendo solo ora, dopo anni, e con un cruccio acuto per aver perso una lezione di umiltà e di vita, in quanto il poeta, di cui qui si disquisisce, aborrisce il vuoto clamore dei salotti e la futile partecipazione ai premi letterari, ad eccezione dell'annuale e mitico Premio di Poesia "Libero de Libero" dove omaggia l'illustre concittadino con la declamazione di alcune celebri poesie e, avallato anche da fervide e toccanti testimonianze sul fraterno amico, il discorso su "Nel diluvio", uno dei volumi di liriche più suggestivi, luminosi, intensi e intrisi di respiro dell'essere, alla ricerca del Nostro Dio Supremo, Alfa e Omega della nostra esistenza, in perpetuo viaggio verso il Porto dell'unica Certezza, Salvezza in un diluvio eterno sulla terra, come recita, appunto, il titolo Nel diluvio (Fondi, Edizioni Confronto,1996), confluito nella solare e graffiante Opera Omnia Il fiume il mare-tutte le poesie- in cui farò anche qualche breve incursione (Marina di Minturno, Caramanica, 2013, prefazione di Pasquale Maffeo, dal titolo significativo Lo sguardo e il verso, e in appendice con una ricca bibliografia e importanti note critiche a firma di Guido Ruggiero, Mauro Corradini, Giorgio Agnisola e Alida Sessa che ripercorrono, attraverso una serrata disamina, il percorso di Gino Fiore, come poeta, scaltrito attore e drammaturgo). Già Pasquale Maffeo, con mano ferma ed esperta di ermeneuta, nella estesa, partecipe e dotta prefazione al testo originale, che è una ricognizione del lungo viaggio del Nostro Autore, evidenziava la sua incessante crescita, di volume in volume, "il suo travaglio di ricerca formale" (p.6), la sua "mano severa, mano che ha sceverato, ritoccato, riordinato", ripassando "al vaglio, potando e ampliando, il corpus via via articolato della terza silloge. Tappa, questa, riassuntiva ed emblematica di frastagliate fabulazioni, autobiograficamente speculare, affrancata dai tributi retorici e di stagione. Nel sinuoso divenire s'era diramata una filigrana che in trasparenza, controluce, coi suoi nodi e i suoi raccordi rimarcava una limpida nervatura" (p.7). Superfluo, inoltre, è ricercare nell’opera di Gino Fiore possibili ascendenze letterarie italiane e straniere o referenti poetici e drammaturgici, pur presenti, in quanto l’autore, talmente abile e scaltrito nel mestiere, riesce benissimo ad assimilare, introiettare, personalizzare e sublimare il riporto, come se le voci dei suoi “compagni di viaggio” fossero la sua, si confondessero nella sua e la sua voce si annullasse, amalgamasse in quella altrui, in quanto affinità elettive, lo stesso “io” parcellizzato e unificato nella stessa anima palpitante gli stessi battiti solari di un amore universale, così trascendendo l’esperienza strettamente personale, pur facendo sempre emergere il suo timbro soggettivo. È nel Diluvio il canzoniere d'Amore nel senso lato dell'accezione, nel quale, come ancora con acribia rileva Pasquale Maffeo, "si ritrovano le coordinate d'una geografia, d'un paesaggio etico-sentimentale nel quale Fiore riscrive la sua memoria d'uomo e proietta la carica pulsiva del suo presente, la sua inquietudine esistenziale", attraverso "filoni" che si dipanano su oniriche fascinazioni, aperte a crescite improvvise" (p.7).
Le tematiche, che Gino Fiore predilige, sono quelle universalmente riconosciute con cui l'umanità quotidianamente fa i conti e si misura e che vanno, in primis, dagli affetti familiari, comprendenti bellissime e struggenti liriche dedicate a moglie e figli, agli aspetti sociali, in un mondo sconvolto da catastrofi e paure nucleari, dai problemi strettamente personali a quelli esistenziali sostenuti da un credo religioso fortemente invocato e professato sulla terra come porto di Amore, Salvezza e beatitudine eterna.
Prendiamo, appunto, come emblema di questa sete, di questo Fuoco d'Amore, una delle tante poesie, che si apre, come un ventaglio, a molteplici significazioni, carattere polisemico, felicemente ambiguo della poesia, per evidenziare anche come il poeta abbia operato dal punto di vista linguistico e da quello immaginifico, sul testo, attraverso il cosiddetto labor limae, dal momento che "Se sapremo", di cui mi occuperò, confluisce nella succitata Opera Omnia, Il fiume e il mare, magistralmente ritoccata, questa volta, non togliendo ma sostanzialmente aggiungendo, mediante un procedimento inverso di quello che di solito si adotta intervenendo sulle varianti.
Ma importante e utile, per non dire chiarificatore, sarebbe vedere, attraverso un processo di collazione, di comparazione tra il testo originario e quello dell'Opera Omnia, come da me svolto, e qui non si può per ragioni di spazio, ripromettendomi di affrontare questo lavoro in un'altra sede, anche il criterio che il poeta ha adottato teso a rastremare, a togliere più che aggiungere, attraverso cui ottiene, alcune volte, risultati soddisfacenti, e altre, addirittura, strabilianti, intervenendo sul respiro poetico, sull'orchestrazione strofica e soprattutto su una incisiva sintesi, facendo rimanere, come negli ermetici, la parola ossificata, scarnificata, depurata, essenzializzata. Il tutto in un processo di scavo laborioso che attesta nell'uno (quello di integrare, come nella poesia esaminata) e nell'altro caso (quello di folgorare, rastremare) la scaltrita perizia e la scrupolosa meticolosità dell'artista.
Evidenziata questa precisazione, è il caso di riportare integralmente le due versioni, quella originaria e quella dell'Opera Omnia, per far notare i vari passaggi operati. "Nel diluvio" abbiamo: "Se sapremo guardarci negli occhi/eviteremo alle foglie di tremare nel vento,/all'acqua di correre, all'erba/di crescere,/alla vita di finire./Se sapremo tenerci per mano/non ci lamenteremo/del figlio che cresce in fretta,/dell'invito che tarda a svanire./Se sapremo camminarci accanto/sereni andremo nel mondo"(p.35). Invece, ne "Il fiume e il mare": "Se sapremo leggerci negli occhi/avrà voce il silenzio lungo il giorno/. Guardando foglie immobili nel vento non sentiremo scorrere/l'avviso che precipita a finire/. Se sapremo tenerci per la mano/senza toccarci, non un lamento/spunterà sul figlio che già stacca/l'addio e s'inoltra e dispare/. Se sapremo condurci inseparabili/ alle svolte
dell'insidia, se sapremo/ tacere d'un amore che non chiede/più parole, la morte poi verrà/ senza sgomento all'ora giusta" (p.43).
La prima stesura è un unico blocco forse troppo compattato e compassato dal punto di vista strofico, non pausato, non contrassegnato, da quello spazio bianco tanto caro soprattutto agli ermetici, per la meditazione, la compartecipazione poeta-lettore, anche se mirabilmente sostenuto dall'aspetto anaforico di quel "se" ripetuto alla fine di ogni interpunzione che proietta la sete di vivere in un tempo infinito o indefinito e ossessiona come un monito evangelico la coscienza dell'essere di perseguire la via della Vita, la strada della salvezza, della Certezza eterna per non permettere "alla vita di finire", per imparare a "saper tenerci per mano", "camminarci accanto", sereni andare nel mondo, amare e vivere e rincorrere "il sogno nella luce" ("Questa non è una poesia", p.318). Certo, speranza o consapevolezza di guardarci, specchiarci nell'altro, fermando, attraverso la poesia, la fantasia, la fede dell'Amore o nell'Amore, gli elementi naturali, annullando anche il tempo. Ma la prima stesura, forse, viene assoggettata a una eccessiva incisività, mentre la seconda risulta più intrisa di lirismo, circostanziata, più scavata per lasciare affiorare sempre di più la solarità dell' interiorità, il tormento dell'essere nel perseguire una via fatta di silenzio, lo specchio della coscienza aperta al monito e al raccoglimento, all'ascolto del Verbo, del Redento. I verbi del primo blocco della versione originaria fino al quinto verso "alla vita di finire" delineano il tempo della fissità, dell'immobilità, del fermare, del crescere, dell'impedire "alla vita di finire". Nella strofa della seconda stesura, invece, il tutto viene affidato all'auscultazione del silenzio, ovvero della voce interiore, della pienezza dell'Essere, della Parola, del Verbo fatto carne, sangue nel tentativo di sconfiggere il nostro deserto, i giorni inariditi, alla riscoperta della Voce, del sogno d'Amore. Le risorse foniche dei cinque versi iniziali, ma questo si può estendere all'intera lirica, sono affidate alla reiterazione incessante e insistente della "e" e soprattutto della "r" che mira ad arrestare questo processo di disfacimento, di agonia della vita. Questa lirica dell'opera Omnia è, nel complesso, intrisa di un respiro ossessivo per la vita, affidata tutta a uno scarto linguistico, a una struttura ossimorica, per meglio svelare il senso dell'Essere, per poter potenziare ulteriormente le risonanze musicali, l'aspetto contenutistico e quello iconico-immaginifico che si aprono a una radiosa trasparenza o solarità delle immagini, assente nella prima stesura.
E’ una tenzone, si potrebbe dire, tra il giorno, che simboleggia l'Amore, o il sogno dell'Amore, e la Notte, in cui si identifica la Morte, la distruzione del sogno, "l'avviso che precipita a finire", davanti al quale o contro il quale bisogna resistere perché esso non si verifichi, la parola blaterata non sostanziata, inverata dal palpito e il Silenzio che invece esplode come "Voce", come tuono, auscultazione “lungo il giorno”, per poter tenere sempre desto il "Vento", non quello fisico, temporale, ma quello della Coscienza, del Risveglio.
La natura viene immersa in un paesaggio che diventa “pianta interiore dell’Anima, paradigma assoluto della vita che non deve finire, costante tensione o anelito a vivere il respiro divino, immersione nell’immobilità del naufragio in cui restare per rinascere, rigenerandosi.
Anche l’orchestrazione strofica, la scelta del verso lungo tra l’avvicendarsi dell’endecasillabo, del decasillabo, del novenario e l’ottonario, penso miri proprio a questo scopo, quello di far resistere e persistere la Voce, come auscultazione interiore, una confessione, come monito a vivere bene “lungo il giorno” per non poter essere oscurata dall’Ombra, fagocitata dalla Notte, come buio totale dell’anima.
I versi “Se sapremo tenerci per la mano/senza toccarci” della seconda strofa e quelli della chiusa “se sapremo/tacere d’un amore che non chiede/più parole” raggiungono il diapason dell’Amore e acuiscono, sempre di più, la condizione ossimorica, l’acme della Parola, che si fa silenzio, per auscultare il Verbo che è Essere e dà pienezza all’essere, attraverso il tacere, come il silenzio della preghiera che non proferisce e non chiede “più parole” ma la sola parola, il Logos, come se l’essere vivesse in una perpetua ascesi, in una “cella” di silenzio, attraverso il ricongiungimento con il Celeste, con il fiato del Creato, concreato nella nostra brama, che allontana Thanatos e ce lo fa accettare, francescanamente, “senza sgomento all’ora giusta”, senza paura, come un fratello o una sorella. Un viaggio, in definitiva, nell’amore che “lega il passato al presente e il presente al futuro” o “dell’amore inteso come forza salvifica, come esperienza liminare, come rassicurante approdo”, che converge “verso uno stesso orizzonte, quello dell’amore intravisto come porto sereno, come estremo, unico confine del presente e del futuro”. In ultima analisi, “E’ la ricerca di un approdo, è la scoperta, meravigliosa e meravigliata, di quel segno di unità che conclude nella pace di un intimo, misterioso dualistico disegno, il cerchio dell’amore” (Giorgio Agnisola, pp.341-342).
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Rocco Salerno
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Gino Fiore, Nel diluvio, Fondi, Edizioni Confronto 1996, in Il fiume e il mare, Tutte le poesie, Omnibus Poesia, Marina di Minturno, Caramanica 2013